"Il
regno
di
Dio
è
il
regno
dell'amore.
In
Dio
non
vi
è
che
amore"
"La
preghiera
è
essenzialmente
questo:
un
rapporto,
una
conversazione
con
il
buon
Dio"
"Dio
è
Amore;
Egli
ama
e
vuole
essere
amato"
San
Bruno,
ritirandosi
nel
1084
con
sei
compagni
nella
parte
più
impervia
e
solitaria
del
Massiccio
di
Certosa
(Alpi
del
Delfinato),
ha
avviato
un'esperienza
contemplativa
che
da
nove
secoli
testimonia,
con
la
sua
stessa
presenza,
come
solo
Dio
sia
il
bene
assoluto,
quel
bene
per
il
quale
è
fatto
ogni
uomo.
Dobbiamo
essere
grati
alla
Certosa
per
la
sua
viva
testimonianza
teologica.
Distratti
dai
fragili
beni
che
troppo
spesso
ci
allontanano
dalla
realizzazione
del
nostro
essere
più
profondo,
abbiamo
bisogno
della
testimonianza
certosina,
abbiamo
bisogno
di
ricordare
a
noi
stessi,
con
san
Bruno,
ciò
che
è
veramente
giusto
e
utile.
«
Che
cosa
è
tanto
giusto
e
tanto
utile
scriveva,
dal
suo
ritiro
calabrese,
il
padre
dei
certosini
all'amico
Rodolfo
-
e
che
cosa
così
insito
e
conveniente
alla
natura
umana
quanto
l'amare
il
bene?
E
che
cos'altro
è
tanto
bene
quanto
Dio?
Anzi,
che
cos'altro
è
bene
se
non
solo
Dio?
».
E’
stata
la
certezza
dell'assoluta
Bonitas
divina
a
sorreggere
la
Certosa
nel
suo
primo
nascere;
ed
è
tale
certezza
che
tutti
i
figli
e
le
figlie
di
san
Bruno,
lungo
nove
secoli,
hanno
coltivato
in
maniera
privilegiata.
Da
questo
punto
di
vista
si
potrebbe
dire:
la
Certosa
è
nata
e
vive
per
testimoniare
e
lodare
la
bontà
divina.
In
Certosa,
il
silenzio
e
la
solitudine
sono
ricercati
solamente
come
mezzi
per
ascoltare
e
per
presentarsi
in
prima
persona
al
Dio
che,
nella
sua
inimmaginabile
bontà,
si
rivolge
all'uomo
invitandolo
ad
un
intimo
colloquio
d'amore.
Il
particolare
messaggio
che
scaturisce
dalla
Certosa
è
quello
di
amare
innanzi
tutto
e
sopra
tutto
Dio
e,
di
conseguenza,
di
amare
tutto
e
tutti
alla
luce
dell'amore
stesso
di
Dio
e
di
quello
per
Dio.
Il
nascondimento,
la
semplicità,
la
custodia
del
cuore
non
sono
che
i
segni
di
un
cammino
che
è
al
tempo
stesso
dolorosa
purificazione
dell'uomo
«
vecchio»
e
progressiva
unione
allo
Spirito
d'Amore.
Gli
Statuti
Certosini
illustrano
chiaramente
la
specifica
funzione
dei
seguaci
di
san
Bruno
nell'ambito
della
Chiesa:
«Abbracciando
la
vita
nascosta,
noi
non
disertiamo
la
famiglia
umana;
ma,
attendendo
a
Dio
solo,
esercitiamo
una
funzione
nella
Chiesa,
dove
il
visibile
è
ordinato
all’invisibile
e
l'azione
alla
contemplazione.
Pertanto,
se
aderiamo
veramente
a
Dio,
non
ci
trinceriamo
in
noi
stessi,
ma
al
contrario
la
nostra
mente
si
spande
e
il
cuore
si
dilata
tanto
da
poter
abbracciare
in
tutta
la
loro
ampiezza
l'universo
e
il
mistero
salvifico
di
Cristo.
Segregati
da
tutti,
siamo
uniti
a
tutti,
per
stare
a
nome
di
tutti
al
cospetto
del
Dio
vivente
».
Pertanto,
con
la
loro
vita
consacrata
interamente
a
Dio,
i
certosini
riescono
a
ricondurre
noi
-
troppo
sommersi
dalle
preoccupazioni
terrene
-
verso
la
sincera
ricerca
di
Dio,
verso
la
piena
affermazione
esistenziale
di
colui
che
è
la
realtà
di
tutte
le
realtà.
Insieme
agli
altri
-
pochi
-
ordini
religiosi
dedicati
alla
pura
vita
contemplativa,
la
Certosa,
in
quanto
vivo
segno
teologico,
riesce
a
far
rinascere
in
noi
-
anche
se
affaticati
dalle
illusioni
e
delusioni
quotidiane
-
il
gusto
dell'essenziale.
È
essenziale,
per
ciascun
uomo,
imparare
sempre
più
ad
amare
Dio
e
secondo
Dio.
Come
sono
fecondi
i
«silenzi»
certosini,
e
come
lo
sono
anche
quelle
rare
«parole
»
incaricate
di
trasmetterci
la
ricchezza
dei
colloqui
divini
che
rendono
sempre
più
viva
e
significante
la
Certosa!
Senza
dubbio,
a
ogni
certosino,
così
come
avviene
per
ciascun
uomo,
Dio
riserva
un
singolare
sentiero
attraverso
il
quale
camminare
verso
il
puro
amore:
pur
condividendo
la
stessa
finalità,
pur
vivendo
nello
stesso
clima
monastico,
ciascuno
si
incammina
per
lo
stretto
e
personale
sentiero
mediante
il
quale
Dio
lo
conduce
alla
progressiva
maturazione
nel
puro
amore
contemplativo.
Può
accadere,
è
di
fatto
accaduto
nel
corso
dei
suoi
nove
secoli
di
storia,
che
in
Certosa,
scuola
di
santità
vissuta
nel
silenzio
e
nel
nascondimento,
alcuni
certosini
vengano
scelti
da
Dio
-
senza
che
loro
l'abbiano
domandato
-
per
illuminare,
in
maniera
particolare,
i
propri
fratelli
nella
ricerca
sincera
di
Dio.
Alla
testimonianza
esistenziale
-
che,
in
ragione
della
specifica
vocazione
puramente
contemplativa,
resta
la
più
propria
del
monaco
certosino
-
si
aggiunge,
grazie
a
un
insondabile
disegno
divino,
anche
la
testimonianza
della
meditazione
che
si
consegna
alla
compiutezza
della
pagina
scritta.
In
verità,
chi
viene
scelto
da
Dio
per
illuminare
gli
altri
uomini,
oltre
che
con
la
sua
stessa
esistenza
di
contemplativo
anche
attraverso
la
meditazione
che
si
fa
«scrittura
»,
sembra
costituire
in
Certosa
una
sorta
di
eccezione,
rispetto
alla
fondamentale
scelta
di
silenzio
-
anche
della
penna
-
che
caratterizza
la
vita
del
certosino.
E
proprio
questa
condizione
di
eccezionalità
segna
la
testimonianza
di
colui
che
André
Ravier
definisce
un
grande
maestro
spirituale
del
nostro
tempo:
Augustin
Guillerand.
E
però
il
fatto
che
nessuna
delle
pagine
del
Guillerand
sia
stata
scritta
in
vista
di
una
sua
eventuale
pubblicazione,
conferisce
ad
esse
una
particolare
incisività:
ogni
parola
di
questo
maestro
contemporaneo
si
rivela
infatti
carica
del
sapore
teologico
che
si
ritrova
in
chi
si
è
impegnato
in
prima
persona
in
una
vita
di
puro
amore
contemplativo.
Il
Guillerand
parla
da
contemplativo:
ogni
sua
parola
nasce
da
una
viva
esperienza
contemplativa
e,
in
certo
modo,
approfondisce
tale
esperienza.
E
quale
approfondimento!
Questo
contemplativo
del
nostro
secolo
non
ha
minimamente
risparmiato
a
se
stesso
la
fatica
della
riflessione
più
penetrante
e
più
severa.
Ma
la
sua
riflessione
appare
sempre
orientata
da
un
grande
amore
verso
Dio.
E
non
è
esattamente
tale
quieta
fatica
riflessiva
a
rendere
ogni
sua
pagina
ricca
di
interesse
agli
occhi
di
chi
avverte
il
bisogno
di
cogliere
sempre
più
e
sempre
meglio
le
«ragioni
»
della
propria
esistenza
cristiana?
Invitati
a
partecipare,
mediante
la
meditazione
delle
sue
pagine,
all'intimità
della
sua
vita
di
contemplativo,
il
Guillerand
ricompensa
abbondantemente
la
nostra
adesione,
aprendoci
l'intelligenza
e
il
cuore
a
un
luminoso
orizzonte
di
pura
quiete
spirituale
che,
così,
finisce
col
nutrire
il
nostro
personale
cammino
verso
Dio.
E'
infatti
per
crescere
nell'amore
che
dobbiamo
ascoltare
delle
parole
nate
da
una
grande
esperienza
d'amore
contemplativo.
Augustin
Guillerand
si
è
impegnato
a
vivere,
col
suo
essere
più
profondo,
lo
spirito
dell'
Ordine
certosino.
E'
in
particolare
una
lettera,
scritta
nel
1943,
cioè
ventisette
anni
dopo
il
suo
ingresso
in
Certosa,
a
evidenziare
il
suo
profondo
e
costante
amore
per
la
vita
certosina:
una
vita
che
implica
«otto
o
nove
ore
di
preghiere
quotidiane,
che
io
ho
scelto
liberamente
ventisette
anni
or
sono,
e
che
io
sceglierei
ancora
se
dovessi
ricominciare
».
In
fondo,
le
«parole
»
che
il
Guillerand
ha
consegnato
alla
pagina
scritta
acquistano
per
noi
tutto
il
loro
significato
teologico
proprio
attraverso
il
rimando
al
«
silenzio
»contemplativo
a
partire
dal
quale
esse
sono
nate.
La
teologia
del
dono:
la
vita
divina
come
movimento
d'amore
Il
Guillerand
in
tutti
i
suoi
scritti,
in
tutte
quelle
«note»
che
le
particolari
circostanze
della
sua
esistenza
hanno
eccezionalmente
favorito,
«
ci
dà
instancabilmente
un'intuizione
semplicissima
e
inesauribile
»,
quell'intuizione
che,
ritengo,
si
potrebbe
tradurre
con
l'espressione:
la
fondamentalità
dell'amore
divino.
Tutto
il
Pensiero
di
Augustin
Guillerand
si
sviluppa
come
un
continuo
approfondimento
della
definizione
giovannea
di
«Dio-Amore».
Tutti
i
suoi
scritti
non
sono
altro
che
la
traduzione
del
termine
Caritas
nella
significativa
espressione
«il
dono
essenziale
di
sé
».
Vedere
l'amore
di
Dio,
vedere
Dio-Amore,
secondo
il
figlio
di
san
Bruno
significa
cogliere
la
vita
divina
essenzialmente
come
«dono».
Il
pensiero
teologico
del
Guillerand
“è
trinitario
e
cristologico”
trinitario
perché
cristologico:
la
Trinità
si
è
rivelata
nel
Cristo,
grazie
al
Cristo».
In
un
sermone
preparato
alla
Gran
Certosa,
il
figlio
di
san
Bruno
dichiara:
«Dio
è
amore;
è
il
suo
nome,
il
nome
che
egli
stesso
si
è
dato
dinanzi
a
noi,
l'ultimo,
e
di
conseguenza
l'espressione
definitiva
del
suo
essere,
la
luce
vera
nella
quale
vuole
che
noi
lo
vediamo.
E
in
particolare
il
nome
proprio
della
sua
vita
e
del
movimento
intimo
che
parte
dalle
profondità
del
suo
essere,
che
ne
è
come
il
soffio,
il
respiro,
che
lo
solleva
come
un
seno
fecondo,
e
che
si
sviluppa
in
tre
Persone
delle
quali
è
l'atto
e
la
vita.
Dio
è
il
dono
essenziale
di
sé.
In
se
stesso,
come
fuori
di
sé,
non
vede
che
questo,
non
vuole
che
questo,
non
fa
che
questo:
amore
e
donarsi.
In
se
stesso,
questo
dono
è
infinito,
dunque
eterno,
eternamente
totale
e
perfetto.
Fuori
di
sé,
avviene
mediante
comunicazioni
successive,
poiché
si
rivolge
al
nulla
che
non
può
accoglierlo
che
nella
stessa
misura
dell'essere
che
egli
gli
dà
».
E'
in
particolare
nell'impegnativa
meditazione
sul
vangelo
di
Giovanni,
cioè
in
quelle
pagine
ritenute
dal
Guillerand
delle
«semplici
note
senza
valore
»,
che
il
certosino
francese,
utilizzando
fondamentalmente
la
categoria
del
«
dono
»,
si
sofferma
a
disegnare
il
quadro
della
vita
trinitaria:
«
Il
regno
di
Dio
è
il
regno
dell'amore.
In
Dio
non
vi
è
che
amore;
in
tutto
ciò
che
fa
non
si
deve
vedere
che
questo.
La
missione
del
Figlio
è
la
rivelazione
di
tale
amore.
(...)
Il
Figlio
non
fa
altro
che
questo:
vedere
il
Padre
che
si
dona
a
lui
per
amore,
ed
egli
risponde
eternamente
a
questo
amore
donandosi
come
il
Padre
si
dona.
La
vita
è
questo
dono
reciproco,
questo
movimento
unico
comunicato
dal
Padre
al
Figlio
e
che
fa
rientrare
il
Figlio
nel
Padre
».
«La
preghiera»
Nella
prospettiva
della
teologia
del
dono,
come
considerare
la
preghiera?
Sulla
preghiera,
il
Guillerand,
uomo
di
preghiera,
deve
aver
meditato
a
lungo.
In
una
lettera
di
fine
ottobre
o
inizio
di
novembre
del
1942,
inviata
alla
sorella
Louise,
il
nostro
certosino
scrive:
«
La
preghiera
è
essenzialmente
questo:
un
rapporto,
una
conversazione
con
il
buon
Dio
».
È
abbastanza
probabile
-
come
sostiene
il
Ravier
-
che
proprio
intorno
al
1942,
dunque
durante
gli
anni
di
permanenza
alla
Gran
Certosa,
il
Guillerand
si
sia
impegnato
nella
stesura
dello
scritto
sulla
Preghiera,
che
illustra
in
maniera
particolare
il
dinamismo
del
vivo
rapportarsi
a
Dio.
Questo
breve
testo
merita,
a
mio
avviso,
di
essere
posto
per
il
suo
grande
valore
accanto
alle
meditazioni
su
Giovanni.
Più
che
le
lettere
(scritte
già
nella
consapevolezza
del
loro
dover
essere
consegnate
ai
rispettivi
destinatari),
più
che
le
stesse
meditazioni
sul
vangelo
di
Giovanni
(in
qualche
modo
legate
a
un
testo
ben
preciso),
il
manoscritto
sulla
Preghiera
ci
consente
di
partecipare
in
maniera
immediata
a
una
meditazione
sulla
preghiera
che,
via
via,
con
piena
spontaneità,
diviene
essa
stessa
viva
preghiera.
[...].
In
realtà,
le
ripetute
definizioni
della
preghiera
avanzate
dal
Guillerand
sottolineano
tutte
come
questa,
nella
sua
essenza,
non
sia
altro
che
un
movimento
d'amore.
Così
come
la
vita
divina
è
un
eterno
movimento
d'amore,
la
preghiera,
a
sua
volta,
è
uno
slancio
d'amore
per
Dio,
la
risposta
amorosa
dell'uomo
all'amore
di
Dio:
la
preghiera,
rileva
il
Guillerand,
è
il
pio
impeto
d'amore
che
ci
slancia
verso
Dio,
incessantemente
slanciato
egli
stesso
verso
di
noi,
Poiché
la
religione
è
tutta
regolata
dalla
duplice
realtà
che
la
costituisce
-
cioè
Dio
e
l'uomo
-
allora
la
preghiera
non
è,
in
fondo,
che
la
religione
in
atto.
La
preghiera
è
l'atto
dell'umile
riconoscimento
di
Dio
come
colui-che-dona
e
di
se
stessi
come
esseri-donati;
è
dunque
riconoscenza
amorosa
dell'amore
di
Dio.
L'uomo
che
prega,
osserva
il
Guillerand,
implora
la
comunicazione
dello
Spirito
d'Amore,
cioè
domanda
a
Dio
di
donarsi
a
lui
e,
quindi,
domanda
ciò
che
Dio
stesso
desidera
infinitamente:
«
Tra
questo
desiderio
di
Dio
e
la
preghiera
dell'anima
vi
è
dunque
consonanza,
armonia,
accordo
perfetto
».
È
con
grande
profondità
che
il
figlio
di
san
Bruno
pone
così
in
evidenza
come
già
dietro
il
movimento
dell'uomo
verso
Dio
vi
sia
l'azione
amorosa
di
Dio.
Esprimendo
questa
convinzione
teologica
del
Guillerand
nel
linguaggio
caro
alla
filosofia
della
religione
-
specialmente
a
quella
francese
contemporanea
-
potremmo
dire:
il
desiderio
che
l'uomo
ha
di
Dio
si
fonda
sul
desiderio
che
Dio
stesso
ha;
è
un
desiderio
di
Dio
a
far
scaturire
nell'uomo
il
«
desiderio
di
Dio
»:
Dio
fa
incessantemente
domandare
ciò
che
vuole
donare
e
dona
ciò
che
ha
fatto
domandare.
La
preghiera
non
è
tale
se
non
è
ascensione
e
colloquio
con
Dio.
Ma,
sottolinea
il
Guillerand,
Dio
è
Amore
e,
pertanto,
si
può
entrare
in
comunione
con
Dio
solo
se
si
ama
e
nella
misura
con
cui
si
ama:
l'uomo
che
ama
«
e
che
l'amore
ha
introdotto
nella
dimora
in
cui
risiede
l'Amore
stesso,
può
parlargli;
la
preghiera
è
questo
colloquio
».
L'uomo
che
prega
è,
quindi,
colui
che
si
pone
dinanzi
a
Dio!
Il
movimento
nel
quale
consiste
la
preghiera
non
è
orientato
verso
se
stessi;
la
preghiera
non
è
un
illusorio
e
vuoto
monologo;
il
colloquio,
per
essere
tale,
esige
la
posizione
della
verità
del
rapporto
tra
sé
e
Dio.
L'uomo
che
prega,
accetta
che
sia
«
Dio»
e
non
il
proprio
«
io
»
il
fondamento
assoluto
del
proprio
essere
e
anche
il
termine
ultimo
della
propria
aspirazione.
Colui
che
prega
realmente
si
innalza
verso
Dio
perché,
piuttosto
che
trincerarsi
nel
proprio
«
nulla
»,
accetta
di
radicarsi
in
quel
movimento
dell'amore
divino
che
non
solo
lo
ha
chiamato
all'esistenza
ma,
anche,
lo
ha
destinato
a
partecipare
alla
sua
stessa
vita
trinitaria.
Chi
prega,
chi
si
affida
totalmente
a
Dio,
chi
fa
di
tale
abbandono
la
molla
segreta
di
tutti
i
propri
atti,
testimonia
di
conoscere
la
legge
profonda
che
caratterizza
il
mistero
della
vita
divina:
«Dio
è
Amore;
Egli
ama
e
vuole
essere
amato
».
Pertanto,
non
esistono
preghiere
sterili,
vi
possono
invece
essere,
sottolinea
il
Guillerand,
degli
spiriti
inariditi.
Più
ci
si
avvicina
a
Dio,
più
ci
si
innalza
verso
di
lui
e
più
la
preghiera
tende
a
divenire
una
pura
lode.
Chi
si
stabilisce
nella
dimora
dell'amore
divino
comprende
sempre
meglio
come
Dio
costituisca
per
l'uomo
«
il
tesoro
che
non
ha
prezzo
».
Come
non
amare,
come
non
lodare
colui
che
è
l'infinitamente
buono?
Non
ci
sorprende,
quindi,
che
nella
lunga
meditazione
conclusiva,
consacrata
alla
lode
della
divina
misericordia,
il
figlio
di
san
Bruno
avanzi
questa
significativa
dichiarazione:
«
Gesù
era
disceso
verso
le
grandi
profondità
della
mia
miseria,
(...)
e
all'abisso
di
tale
miseria
opponeva
un
abisso
più
profondo:
quello
della
misericordia.
(...)
Donarsi
al
nulla
è
bello;
è
una
manifestazione
di
bontà...
ma
donarsi
alla
miseria
è
qualcosa
di
meglio.
Rialzare
è
più
"Amore",
più
"dono
di
sé"
che
creare.
La
Redenzione,
il
sangue
divino
che
scorre
nell'Agonia,
sul
Calvario,
nel
pretorio,
è
l'ultima
parola
dell'Amore...
se
l'Amore
può
avere
un'ultima
parola
».
Quante
lezioni
potremmo
trarre,
per
la
nostra
esistenza
cristiana,
da
ogni
pagina
del
Guillerand!
E,
in
particolare,
quale
gratitudine
dovremmo
manifestargli
per
averci
ricordato
che
la
preghiera,
sebbene
possa
esprimersi
attraverso
una
molteplicità
di
parole
e
di
formule,
non
si
riduce
però
a
nessuna
delle
particolari
parole
che
usiamo
poiché,
nella
sua
essenza,
essa
è
una
parola
che
è
vita,
ovvero
un
movimento
d'amore
verso
l'amore
infinito:
si
prega
alla
condizione
di
impegnare
totalmente
la
propria
persona.
Per
parlare
a
Dio
e,
a
maggior
ragione,
per
ascoltare
Dio,
non
possiamo
essere
distratti,
assenti
o
presenti
solo
in
parte,
né
possiamo
restare
immersi
in
noi
stessi,
cioè
nei
mille
progetti
e
nei
sogni
che
riempiono
le
nostre
giornate,
o
perfino
negli
angosciosi
dolori
che
segnano
profondamente
certe
ore
della
nostra
esistenza.
Porsi
realmente
dinanzi
a
Dio
coincide
col
guadagnare
quella
quiete
contemplativa
che,
nella
pienezza
dell'umiltà
e
della
fiducia,
consente
di
gustare
in
prima
persona
quanto
è
buono
il
Signore.
Palermo,
6
ottobre
1990
GIUSEPPE
GIOIA
Tratto
da
Augustin
Guillerand,
La
preghiera
-
ed.
Paoline
a
cui
si
rimanda
per
l'approfondimento |