Vedo una certa
fretta, da parte di alcuni cattolici (non saprei dire se
siano pochi o molti, di certo alcuni tra questi sono in
posizioni culturalmente significative, in certi gangli
decisivi almeno della comunicazione) di dialogare sempre e
comunque con chi la pensa diversamente, una certa ansia di
ribadire la non estraneità, la preoccupazione di
dimostrare l'essere al passo con il mondo, di sottolineare
più quello che è in comune rispetto a quello che è
sideralmente lontano, di dire che noi "va be', sì,
crediamo un po', però abbiamo da imparare un po' da
tutti". Come diceva padre Pizarro, per me uno dei più
riusciti personaggi di Corrado Guzzanti: credo molto in
Dio, come tutti i Toro ascendente Gemelli (o qualcosa di
simile).
Lo dimostrano convegni, eventi, conferenze e cortili vari
(ma quanti ce ne sono?) in cui ci si premura sempre di far
salire in cattedra, con cura solerte, almeno un non
credente per ogni cattolico, come se ogni opinione avesse
necessariamente la stessa dignità, come se essere
fermamente convinti di stare noi dalla parte della Verità
potesse essere offensivo per qualcuno. A volte poi succede
anche che all'"altro", spesso dichiaratamente contro la
Chiesa, venga addirittura lasciato il palco da solo, senza
neanche un contraddittorio, in ossequio a una malintesa
idea di laicità.
Io ho l'idea che noi cattolici abbiamo, sì, il dovere del
dialogo con chi la pensi diversamente da noi, ma per come
la vedo io si dialoga davanti a un tè, magari si invita
quella persona a cena, si cerca di accarezzare l'altro con
la nostra vicinanza, se ne ha bisogno o desiderio, di
soccorrere le sue necessità, se possibile. Ma i nostri
pulpiti devono rimanere nostri. Non si può pensare sempre
di avere sempre qualcosa da imparare da tutti, sui temi
fondamentali. Non mi farò spiegare il senso della vita, la
felicità, il valore di quello che faccio da chi non ha
conosciuto l'amore di Dio. Potrà insegnarmi tutto il
resto, probabilmente (la mia ignoranza è senza lacune,
come diceva Petrolini), ma non lo starò ad ascoltare su
temi che si intrecciano con le verità di fede.
Quando è il momento di avvicinare la gente, di parlare
alle persone per annunciare Gesù Cristo unica salvezza
dell'uomo – voglio sperare che sia questo l'unico fine di
OGNI iniziativa culturale dei cattolici – allora noi per
primi dobbiamo essere che quello in cui crediamo è la Via,
la Verità, la Vita. Se non ci crediamo per primi noi, come
faremo a convincere gli altri?
Se, per esempio, abbiamo dei figli, evidentemente vogliamo
che non si buttino da una finestra al quinto piano, perché
sappiano che morirebbero, e lo sappiamo con la certezza
che non ha bisogno di una prova pratica. Non chiederemo
opinioni a parenti e conoscenti. Non diremo "mio caro
figliuolo, per la mia modesta opinione se tu protendi le
tue membra all'esterno delle mura della nostra magione
potresti porre a rischio la tua sorte. Ti inviterei dunque
a non farlo, nella speranza che tu non avverta tarpate le
ali della tua libertà ", ma diremo più brevemente "se cadi
giù ti sfracelli", e in caso potremmo al limite aggiungere
"se ti avvicini le prendi".
Se noi crediamo che Gesù Cristo è l'unica Via per accedere
a Dio, se crediamo che Dio è l'unica felicità possibile,
se crediamo che la Chiesa è a garanzia che ciò in cui
crediamo non sia un parto della nostra fantasia, se
crediamo che siamo nati per un disegno di amore di Dio,
che ci ha pensati da prima che nascessimo, e che siamo
fatti per la vita eterna, non andremo tanto in giro a
cercare maestri, ad ascoltare voci, a mendicare risposte
che abbiamo già ricevuto, o almeno che sappiamo dove
trovare.
Non perché noi siamo i più intelligenti o bravi, né
migliori di nessuno, ma perché ci fidiamo della Chiesa di
cui siamo figli amati, e di Cristo, suo sposo.
Questo non esclude il desiderio di amicizia con tutte le
persone del mondo, con cui si può parlare di qualsiasi
cosa, a cui si può volere un bene incredibile, per cui si
può, anzi si deve dare la vita. Ma i convegni no!
Noi cristiani non siamo di questo mondo, la nostra non è
una bella patina con cui cercare di rivestire in una
sintesi in equilibrio più o meno precario vite borghesi
con la cintura di sicurezza. Essere cristiani deve essere
tutto un altro vivere.
È essere come Chiara Corbella, che sulla verità e certezza
assoluta della vita eterna ha scommesso tutto. Ha accolto
due figli destinati a vivere poco. Ha accolto un altro
figlio mettendo la sua vita prima della sua. Ha accolto
con il sorriso anche la propria morte del corpo,
ricordando che "siamo nati e non moriremo più". [...] |