Templari di San Bernardo
Congregazione laicale cattolico-cavalleresca di ispirazione templare
 
 
 
  Storia - I Templari
 

L’ELOGIO DELLA NUOVA CAVALLERIA

AI CAVALIERI DEL TEMPIO

PROLOGO

A Ugo, cavaliere di Cristo e Maestro della Milizia di Cristo, Bernardo, abate di Chiaravalle solo di nome: combattere il giusto combattimento (II Tim., 4,7).

Per una, due, tre volte, se non erro, o dilettissimo Ugo, mi hai chiesto di scrivere un discorso di esortazione per te e per i tuoi compagni d’arme e di brandire lo stilo, dal momento che non mi è concesso brandire la lancia, contro un nemico tirannico. Affermi che sarà per voi di non poco conforto se io vi incoraggerò per mezzo dei miei scritti, dal momento che non posso farlo per mezzo delle armi.

Ho tardato alquanto, in verità, non perché la richiesta mi sembrasse da disprezzare, ma perché il mio consenso non fosse tacciato di leggerezza e frettolosità: uno migliore di me potrebbe adempiere più degnamente a questo compito. Se, nella mia inesperienza, peccassi di presunzione rischierei di rovinare per colpa mia un’opera quanto mai necessaria.

Mi rendo conto di aver atteso abbastanza a lungo, e inutilmente, e, per non sembrare più riluttante che incapace, ho fatto infine quello che ho potuto: il lettore giudichi se io sono stato all’altezza del compito.

E se pure qualcuno sarà poco o niente soddisfatto, non importa poiché, nella misura delle mie capacità, io non ho deluso la tua aspettativa.

1 – L’elogio della nuova Cavalleria.

1. Da qualche tempo si diffonde la notizia che un nuovo genere di Cavalleria è apparso nel mondo, e proprio in quella contrada che un giorno Colui che si leva dall’alto visitò essendosi reso manifesto nella carne; in quegli stessi luoghi dai quali Egli con la potenza della sua mano (Is., 10,13) scacciò i principi delle tenebre, possa oggi annientare con la schiera dei suoi forti e, seguaci di quelli, i figli dell’incredulità, riscattando di nuovo il suo popolo e suscitando per noi un Salvatore nella casa di David, suo servo. (~Eph., 2,2; Lc. 69)

Un nuovo genere di cavalieri, dico, che i tempi passati non hanno mai conosciuto: essi combattono senza tregua una duplice battaglia, sia contro la carne ed il sangue sia contro gli spiriti maligni del mondo invisibile. (Eph., 6.12)

In verità quando valorosamente si combatte con le sole forze fisiche contro un nemico terreno, io non ritengo ciò stupefacente né eccezionale: E quando col valore dell’anima si dichiari guerra ai vizi o ai demoni, neppure allora dirò che questo è segno di ammirazione, sebbene questa battaglia sia degna di lode, dal momento che il mondo è pieno di monaci.

Ma quando il combattente ed il monaco con coraggio si cingono ciascuno il suo cingolo chi non potrebbe ritenere un fatto del genere davvero degno d’ogni ammirazione, per quanto finora insolito?

E’ davvero impavido e protetto da ogni lato quel cavaliere che come si riveste il corpo di ferro, così riveste la sua anima con l’armatura della fede. (I Thess., 5,8)

Nessuna meraviglia se, possedendo entrambe le armi, non teme né il demonio né gli uomini. E nemmeno teme la morte egli che desidera morire. Difatti cosa avrebbe da temere, in vita o in morte, colui per il quale il Cristo è la vita e la morte un guadagno? (Phil., 1,21)

Egli sta saldo, invero, con fiducia e di buon grado per il Cristo; ma ancor più desidera che la sua vita sia dissolta per essere con Cristo (Phil., 1,23): questa è infatti la cosa migliore.

Avanzate dunque sicuri, cavalieri, e con intrepido animo respingete i nemici della croce di Cristo! (Phil., 3,18) Siate sicuri che né la morte né la vita potranno separarvi dall’amore di Dio che è in Cristo Gesù. (Rom., 8,38) E ripetete nel momento del pericolo, ben a ragione: sia che viviamo sia che moriamo apparteniamo al Signore. (Rom., 14,8)

Con quanta gloria tornano i vincitori dalla battaglia! Quanti beati muoiono martiri in combattimento! Rallegrati o forte campione se vivi e vinci nel Signore: ma ancor più esulta e sii fiero nella tua gloria se morirai e ti riunirai al Signore. Per quanto la vita sia fruttuosa e la vittoria gloriosa a giusto diritto ad entrambe è da anteporre la morte sacra. Se, infatti, sono beati quelli che muoiono nel Signore (Apoc., 14,13), quanto più lo saranno quelli che muoiono per il Signore?

2. E’ senza dubbio preziosa al cospetto di Dio la morte dei suoi santi (Ps., 115,15) ma la morte in combattimento ha tanto più valore in quanto è più gloriosa.

Oh, vita sicura, quando vi sia coscienza pura! Oh, dico io, vita sicura quando la morte è attesa senza terrore, ma è addirittura desiderata con gioia ed accettata con devozione! Oh! Cavalleria veramente santa e sicura e del tutto immune dal duplice pericolo nel quale gli uomini corrono spesso il rischio di cadere quando la causa del combattimento non è solo in Cristo.

Infatti, tu che sei cavaliere secondo le norme della cavalleria secolare, ogni volta che entri in battaglia devi soprattutto temere di uccidere te stesso nell’anima se uccidi l nemico nel corpo o di essere ucciso nell’anima e nel corpo se è il tuo nemico ad ucciderti. Inoltre, per il cristiano, il pericolo o la vittoria vengono giudicati non dal successo delle azioni, ma dalla disposizione del cuore.

Se la causa per la quale si combatte è buona, l’esito della battaglia non potrà essere cattivo, allo stesso modo non sarà stimata buona conclusione quella che non sia stata preceduta da una buona causa e da una retta intenzione.

Se nell’intenzione di uccidere l’avversario ti succederà invece di essere ucciso, tu morirai da omicida [intenzionale]. E se avrai il sopravvento nel desiderio di sopraffare e di vendicarti, vivrai da omicida.

L’omicidio non giova né al morto né a chi vive, né al vinto né al vincitore. Infelice vittoria mediante la quale, vincendo un uomo, soccombi al peccato! E dal momento che sei dominato dall’ira o dalla superbia, invano ti glorierai di aver dominato il tuo avversario.

Vi è tuttavia chi uccide un uomo non per desiderio di vendetta né per brama di vittoria, ma solo per salvare la propria vita. Ma neppure questa affermerò essere una buona vittoria: dei due mali il minore è morire nel corpo che nell’anima. Infatti l’anima non muore per l’uccisione del corpo: ma l’anima che avrà peccato morrà (Ez., 18,4).

3. Qual è dunque il fine ed i vantaggi di quella cavalleria secolare che io non chiamo “milizia” ma “malizia” dal momento che l’uccisore pecca mortalmente e chi muore perisce per l’eternità?

Infatti, per usare le parole dell’Apostolo: chi ara deve arare nella speranza e chi batte il grano nella speranza di coglierne i frutti. (I Cor., 9,10). Pertanto, cos’è, cavalieri, questo errore tanto sbalorditivo, questa follia tanto insopportabile: compiere la vostra malizia con tante spese e fatiche senza nessun’altra ricompensa se non la morte ed il crimine?

Bardate di seta i cavalli, e sopra le vostre armature indossate non so quali bande di stoffa ondeggianti; dipingete le lance e gli scudi e le selle; abbellite con oro, argento e gemme i morsi e gli speroni. E con tanto sfarzo, con un furore vergognoso e una stupidità che vi impedisce la vergogna vi precipitate alla morte.

Ma sono questi ornamenti militari o piuttosto abbigliamenti da donne? Credete forse che la spada del nemico rispetterà l’oro, risparmierà le gemme e non sarà in grado di trapassare la seta? Ed infine tre sono le qualità principalmente necessarie al combattente – cosa che voi stessi molto spesso e concretamente avete sperimentato cioè che il cavaliere sia risoluto, abile e circospetto per la propria salvezza e libero da impedimenti per poter correre e pronto a colpire. Voi, al contrario, lasciate crescere, con uso femmineo, la chioma a molestia degli occhi, impacciate i passi con camicie lunghe e fluenti, seppellite le mani tenere e delicate in maniche ampie e svolazzanti.

Ma, al di sopra di tutto ciò, vi è – cosa che maggiormente atterrisce la coscienza d’un uomo d’armi – al causa leggera e frivola per la quale intraprendete la vita di cavalleria tanto pericolosa.

Tra voi null’altro provoca le guerre se non un irragionevole atto di collera, desiderio d’una gloria vana, bramosia di qualche bene terreno. E certamente per tali motivi non è senza pericolo uccidere o morire.

III - Dei Cavalieri di Cristo.

4. I Cavalieri di Cristo, al contrario, combattono sicuri la guerra del loro Signore, non temendo in alcun modo né peccato per l’uccisione dei nemici né pericolo se cadono in combattimento. La morte per Cristo, infatti, sia che venga subita sia che venga data, non ha nulla di peccaminoso ed è degna di altissima gloria. Infatti nel primo caso si guadagna [la vittoria] per Cristo, nel secondo si guadagna il Cristo stesso. Egli accetta certamente di buon grado la morte del nemico come castigo, ma ancor più volentieri offre se stesso al combattente come conforto.

Affermo dunque che il Cavaliere di Cristo con sicurezza dà la morte ma con sicurezza ancora maggiore cade. Morendo vince per se stesso, dando la morte vince per Cristo.

Non è infatti senza ragione che porta la spada: è ministro di Dio per la punizione dei malvagi e la lode dei giusti (Rom., 13,4; I Pet., 2,14).

Quando uccide un malfattore giustamente non viene considerato un omicida, ma, oserei dire, un «malicida» e vendicatore da parte di Cristo nei confronti di coloro che operano il male, difensore del popolo cristiano. E quando invece viene ucciso si sa che non perisce ma perviene [al suo scopo].

La morte che infligge è una vittoria di Cristo: quella che riceve è a proprio vantaggio. Dalla morte dell’infedele il cristiano trae gloria poiché il Cristo viene glorificato: nella morte del cristiano si manifesta la generosità del suo RE che chiama a se il suo cavaliere per donargli la ricompensa.

Pertanto sul nemico ucciso il giusto si rallegrerà vedendo la vendetta (Ps., 57,12).

Certo non si dovrebbero uccidere neppure gli infedeli se in qualche altro modo si potesse impedire la loro eccessiva molestia e l’oppressione dei fedeli. Ma nella situazione attuale è meglio che essi vengano uccisi, piuttosto che lasciare senza scampo la verga dei peccatori sospesa sulla sorte dei giusti e affinché i giusti non spingano le loro azioni fino alla iniquità.

5. E che, dunque, se ferire di spada fosse del tutto illecito per il Cristiano, perché dunque l’araldo del Salvatore avrebbe prescritto ai soldati di essere contenti dei loro stipendi (Lc., 3,14), e non avrebbe piuttosto interdetto loro l’uso di ogni arma?

Se invece è permesso a tutti – e ciò risponde a verità – o almeno a quelli ordinati espressamente per volere divino all’esercizio delle armi, che non hanno fatto voto di maggior perfezione, da chi, io chiedo, dovrebbe esser tenuta la nostra città di Sion, città della nostra fortezza, se non dal braccio e dal valore dei cristiani, per protezione nostra e di tutti? Così che, avendone scacciati i trasgressori della legge divina, con sicurezza vi entrino i giusti, custodi della verità.

Siano dunque disperse senza timore le nazioni che vogliono la guerra (Ps., 67,31); siano estirpati coloro che ci minacciano, e siano scacciati dalla città del Signore tutti i malfattori che tentano di portar via da Gerusalemme le inestimabili ricchezze del popolo cristiano ivi riposte, che contaminano i luoghi santi, che si trasmettono di padre in figlio il Santuario di Dio.

Sia sguainata la doppia spada dei fedeli sulle teste dei nemici per distruggere qualunque superbia (ad destruendam omnem altitudinem) che osi ergersi contro la conoscenza di Dio, che è la fede cristiana, affinchè le nazioni non dicano: Dov’è il loro Dio? (Ps., 113,2).

6. Quando tutti gli infedeli saranno stati scacciati riprenderà possesso della sua casa e della sua eredità quello stesso che a proposito di essa gridò con collera nel Vangelo: Ecco, la nostra dimora sarà lasciata deserta (Mt., 23,38), e che per bocca del profeta si era lamentato: Ho lasciato la mia casa, ho abbandonato la mia eredità (Ier., 12,7). Egli adempierà in tal modo quella profezia: Il Signore ha riscattato il suo popolo e lo ha liberato; verranno ed esulteranno sulla montagna di Sion e godranno benefici del Signore (Ier., XXXI,11-12).

Rallegrati, Gerusalemme, e riconosci il tempo in cui sei stata visitata. Godete e lodate anche voi, rovine di Gerusalemme, perché il Signore ha consolato il suo popolo, ha riscattato Gerusalemme; Dio ha mostrato la sua santa potenza al cospetto di tutte le nazioni (Is., 52,9-10). Tu eri caduta; o Vergine d’Israele, e non c’era chi ti risollevasse: sorgi dunque, o vergine, scuoti la polvere, o sventurata figlia di Sion! Alzati, ti dico, e tieniti eretta nello splendore (Is., 52,2), e vedi la gioia che ti viene dal tuo Dio. Non ti chiameranno più derelitta, e la tua terra non sarà più a lungo detta desolata. Poiché il Signore si è compiaciuto di te (Is., 62,64), ed il tuo territorio sarà ripopolato.

Alza gli occhi attorno e guarda: tutti costoro si sono riuniti e sono venuti a te (Is., 49,18). Dall’alto ti è stato inviato questo aiuto.

Per mezzo di questi [dei cavalieri] perfettamente si compie l’antica promessa: Io ti conferirò una gloria che durerà nei secoli e la tua gioia sarà di generazione in generazione; tu berrai il latte delle nazioni, ti nutrirai alle mammelle riservate ai re (Is., 60,15). Ed ancora: Così come la madre consola i suoi figli, così io vi consolerò, ed in Gerusalemme sarete confortati (Is., 66,13).

Non vedete, dunque, quanta abbondante testimonianza la nuova cavalleria ha ricevuto dai tempi antichi, e che quanto abbiamo udito lo vedremo compiersi nella città del Signore degli eserciti (Ps., 49,7)?

Ma non bisogna che l’interpretazione della lettera nuoccia alla comprensione dello spirito: le parole di profeti, che noi speriamo di veder realizzate per l’eternità, le adattiamo a questi nostri tempi in modo che ciò in cui crediamo non svanisca a causa di ciò che vediamo, e affinché la pochezza dei beni di questa terra non faccia scemare la ricchezza della speranza e la testimonianza delle cose presenti non tolga speranza per l’avvenire.

La gloria temporale della città terrena non distrugge i beni celesti, al contrario li garantisce; a patto che noi sappiamo riconoscere in questa [nella Gerusalemme terrena] l’immagine della città del cielo, nostra madre (cfr. Apoc., 21,9-27).

IV – Come vivono i cavalieri di Cristo.

7. Ma ora, per dare un esempio e per confondere i nostri cavalieri secolari, che certamente non militano per Dio ma per il diavolo, trattiamo brevemente dei costumi e della vita dei cavalieri di Cristo: come essi si comportano in guerra e in pace, affinché appaia chiaramente quanto differiscano tra loro la cavalleria di Dio e la cavalleria del secolo.

Innanzitutto non manca la disciplina, né l’obbedienza viene mai disprezzata: poiché, secondo la testimonianza della Scrittura, Il figlio disobbediente perirà (Eccl., XXII,3) e Opporsi alla disciplina è peccato pari all’esercizio della magia, e non voler obbedire è peccato quasi come l’idolatria (I Reg., 15,23).

Ad un cenno del superiore si viene e si va, si veste di ciò che egli donò: né si attende da altre fonti il nutrimento e il vestito. Nel vitto e nell’atteggiamento ci si astiene da ogni cosa superflua, si provvede alla pura necessità.

Si vive in comune, con un genere di vita sobrio e lieto senza spose e figli. E affinché la perfezione evangelica sia completamente realizzata, essi abitano in una stessa casa, con una stessa regola di vita e senza possedere niente di proprio, solleciti di conservare l’unità dello spirito nel vincolo della pace (Eph., 4,3). Diresti che tutta questa gente abbia un cuore solo ed un’anima sola: a tal punto ognuno si sforza di seguire non la propria volontà ma quella di chi comanda.

Non siedono mai oziosi, né gironzolano curiosi; ma quando non sono occupati in guerra (cosa che succede davvero di rado), per non mangiare il pane a ufo riparano le armi e le vesti danneggiate, o rinnovano quelle vecchi, o mettono in ordine ciò che è in disordine, ed infine la volontà del maestro e la comune necessità dispongono il da farsi.

Tra di essi nessuna preferenza: il rispetto è dato al migliore, non al più nobile di natali.

Fanno a gara nell’onorarsi a vicenda (Rom., 12,10); e vicendevolmente portano il loro fardello, per compiere così la legge di Cristo (Gal., 6,2).

Mai una parola insolente, un’azione inutile, una risata sguaiata, una mormorazione per quanto leggera e fatta sottovoce, quando vengono colte in fallo restano impunite. Detestano il gioco degli scacchi e dei dadi; la caccia è tenuta in spregio, né si rallegrano della cattura di uccelli per diporto, cosa molto in voga [altrove].

Sdegnano e aborriscono i mimi, i fattucchieri, i cantastorie, le canzoni scurrili, gli spettacoli dei giocolieri, e così pure la vanità e le follie contrarie alla verità.

Tagliano corti i capelli sapendo che, come dice l’Apostolo, è vergognoso per un uomo curarsi la chioma (I Cor., 11,4). Non si acconciano mai, si lavano di rado, ma sono piuttosto irsuti per la capigliatura negletta, bruttati dalla polvere, abbronzati dall’armatura e dal forte calore.

8. Quando giunge l’ora della battaglia, essi si armano di dentro con la fede e di fuori col ferro e non con l’oro, affinchè i nemici abbiano terrore di loro e non invidia, essi sono armati, cioè non ornati.

Vogliono cavalli forti e veloci e non ricoperti da sgargianti gualdrappe e finimenti di lusso: essi si preoccupano infatti della battaglia e non dello sfarzo, della vittoria, non della gloria, e badano d’esser piuttosto causa di terrore che d’ammirazione. Pertanto non turbolenti ed impetuosi, senza precipitarsi con leggerezza, si ordinano ponderatamente e con ogni cautela e prudenza e si dispongono in assetto di guerra, così come è stato scritto dai nostri padri, come veri figli del [nuovo] Israele pieni di pace s’avanzano per la battaglia (cfr. II Mac., 15,20).

Ma al momento dello scontro, e allora soltanto, smessa la dolcezza di prima, come dicessero: Non devo forse odiare chi Ti odia o Signore, e detestare i Tuoi avversari? (Ps., 138,21) fanno impeto contro i propri avversari, reputano i propri nemici branchi di pecore e mai, pur essendo pochissimi, temono la crudele barbarie e la schiacciante moltitudine. Essi hanno infatti appreso a non confidare nelle proprie forze, ma ad attendere la vittoria dal volere del Dio degli eserciti, al quale, secondo quanto è scritto nel Libro dei Maccabei, pensano sia molto agevole mettere molti nelle mani di pochi; e che per il Dio dei cieli non fa differenza salvare i molti o i pochi, poiché la vittoria non sta nel numero dei combattenti, ma nella forza che vien dall’alto (I Mc., 3,18-19).

E di ciò hanno fatto molto spesso esperienza, così che generalmente uno solo ne incalza quasi mille e due ne hanno messi in fuga diecimila (cfr. Ps., 90).

Così dunque per una singolare ed ammirabile combinazione sono, a vedersi, più miti degli agnelli e feroci dei leoni, a tal punto che esito se sia meglio chiamarli monaci o piuttosto cavalieri. Ma, forse, potrei chiamarli più esattamente in entrambi i modi, poiché ad essi non manca né la dolcezza del monaco né la fermezza del cavaliere. E di questa qualità cosa si potrebbe dire se non che è opera di Dio, ed è degna di ammirazione ai nostri occhi (Cant., 3,7-8)?

Dio stesso ha scelto per sé tali uomini ed ha raccolto dai confini estremi del mondo questi suoi ministri [ministri della Sua giustizia] tra i più valorosi d’Israele per custodire con fedeltà e vigilmente il letto del vero Salomone – cioè il Santo Sepolcro – tutti armati di spada ed esperti quant’altri mai nell’arte della guerra (Ps., 117,23).

V- Il Tempio

9. Il tempio di Gerusalemme,nel quale hanno comune dimora, è una costruzione senza dubbio più modesta dell’antico e di gran lunga più famoso tempio di Salomone, ma non gli è inferiore in gloria. Mentre lo splendore di quello consisteva in cose corruttibili d’oro e d’argento (I Pet., 1,18), nella squadratura delle pietre, nella varietà dei legni; tutto il decoro di questo, al contrario, e l’ornamento che fa gradita la sua bellezza è la devota religiosità dei suoi abitanti ed il loro disciplinatissimo genere di vita.

Il primo tempio s’imponeva all’ammirazione per gli svariati colori; il secondo è degno di venerazione per le svariate virtù e le sante azioni. La santità conviene infatti alla casa di Dio, poiché Egli si compiace non tanto dei marmi lucidati a specchio, quanto dei costumi morigerati ed ama le menti pure più che le pareti dorate (cfr. Ps., 92,5).

Tuttavia l’aspetto di questo tempio è anch’esso ornato, ma di armi, non di gemme. Ed invece delle antiche corone d’oro, le pareti sono ricoperte di scudi appesi tutt’intorno; e invece dei candelieri, degli incensieri, dei vasi. La dimora è provvista d’ogni parte di freni, di selle, di lance.

Queste cose dimostrano apertamente che i cavalieri fervano per la casa di Dio del medesimo zelo del quale una volta violentissimamente infiammato il Condottiero stesso dei cavalieri (militum dux), avendo armato la sua mano santissima non di spada ma di un flagello fatto di funicelle, entrò nel tempio e ne scacciò i mercanti, sparse il denaro dei cambiavalute e rovesciò i banchi dei venditori di colombe, giudicando cosa oltremodo indegna che una casa di orazione fosse macchiata da mercanti di tal fatta (cfr. Mt., 20, 12-13; Jo., 2, 14-16).

Pertanto, trascinata dall’esempio del suo Re, questa armata consacrata, giudicando a ragione di gran lunga più indegno che i suoi santi siano infestati dagli infedeli invece che contaminati dai mercanti, vivono nella casa santa con armi e cavalli; e così avendo rigettato da essa e da tutti i luoghi santi ogni sozza e titanica rabbia degli infedeli, ci si intrattengono notte e giorno in occupazioni tanto utili quanto oneste.

Essi onorano a gara il tempio di Dio con assiduo e sincero ossequio, immolando in esso con devozione perenne, non carni ovine secondo l’antico rito, ma vittime pacifiche: l’affetto fraterno e l’ubbidienza fedele, la povertà volontaria.

10. Questi fatti avvengono in Gerusalemme, ed il mondo intero ne è scosso. Le isole stanno in ascolto; i popoli lontani osservano e da Oriente ad Occidente ribollono come un torrente di gloria universale che straripa, e come l’impeto di un fiume che allieta la città di Dio (cfr. Is., 49,1).

Ma ciò che appare più bello, ed offre più vantaggi è che, in quella folla tanto numerosa che confluisce a Gerusalemme, pochi sono certamente coloro che non siano stati scellerati ed empi, ladri e sacrileghi, omicidi, spergiuri, adulteri.

E, come dalla loro partenza scaturisce un doppio beneficio, essa produce una duplice gioia: dal momento che essi danno tanta gioia al loro prossimo quando se ne vanno, quanta ne danno a coloro in soccorso dei quali si dirigono. Essi sono infatti ben accolti in entrambi i casi, non solo difendendo questi [i cristiani pellegrini a Gerusalemme] ma anche cessando di opprimere quelli [i loro conterranei].

Così si rallegra l’Egitto per la loro partenza, come pure si allieta il monte Sion per averli come protettori ed esultano le figlie di Giuda (Ps., 47,12).

Il primo si rallegra di esser stato liberato da loro, il secondo di esser liberato per opera loro.

Quello di buon grado perde i suoi crudelissimi devastatori; questo con gioia ha accolto i suoi fedelissimi difensori, e mentre questa nazione viene con gran gioia consolata, quello viene abbandonato con uguale gran vantaggio.

Così Cristo sa vendicarsi dei suoi nemici, non solo trionfando su di essi, ma essendo anche solito spesso trionfare per mezzo di essi con tanta più gloria quanto più potentemente.

E’ cosa lieta, a ragione, ed utile: che ora cominci a rendere suoi difensori quelli che sopportò a lungo come suoi persecutori, e Colui che trasformò un tempo Saulo persecutore in Paolo predicatore faccia del suo nemico un suo cavaliere (cfr. Atti., IX).

Pertanto io non mi meraviglio affatto se quella corte celeste, secondo la testimonianza del Salvatore, esulta più per un peccatore pentito che per molti giusti che non hanno bisogno di penitenza (Lc., 15,7): poiché la conversione di un malvagio e di un peccatore senza dubbio giova a tanti quanti erano quelli ai quali aveva nuociuto.

Gerusalemme.

11. Salve, dunque, o Città Santa, che l’Altissimo in persona ha consacrato per sé come suo tabernacolo, in modo che in te e per te venissero salvate tante generazioni (cfr. Apoc., 22,19). Salve, Città del gran Re, dalla quale mai vennero meno fin dall’inizio ed in quasi tutti i tempi miracoli sempre nuovi e lieti per il genere umano. Salve, signora delle genti, guida delle nazioni, retaggio dei Patriarchi, madre dei Profeti e degli Apostoli, Iniziatrice della Fede, gloria del popolo cristiano, tu che Dio sempre, fin dal principio, permise che fossi combattuta affinché potessi essere occasione di valore e di salvezza per i forti.

Salve o Terra Promessa, che un tempo facevi scorrere latte e miele solo per i tuoi figli ed ora fai scorrere i farmaci della salvezza per tutto il mondo, il nutrimento della vita. O Terra, dico, buona ed eccellente, tu che hai ricevuto nel tuo fecondissimo seno il grano celeste dall’arca del cuore del Padre ed hai prodotto, da questa celeste semenza, tanto grande messe di martiri, e nondimeno tu, fertile gleba, hai prodotto frutto dalla stirpe dei fedeli moltiplicandolo trenta, sessanta e cento volte sopra ogni contrada.

Lietissimamente saziati e abbondantemente nutriti dalla tua sconfinata dolcezza coloro che ti hanno conosciuto diffondono ovunque il ricordo della tua soavità inesauribile e narrano a coloro che non ti hanno conosciuta la magnificenza della tua gloria fino agli estremi limiti del mondo. Essi raccontano le meraviglie che in te si compiono. Si dicono di te coses stupende, o Città di Dio (Ps., 86,3)!

Ebbene, anche noi diremo brevi parole di lode e gloria del tuo nome a proposito delle delizie delle quali sei colma fino a straripare.

VI – Betlemme.

12. Ecco, prima di tutto, Betlemme, “casa del pane” (Io., 6,51) per il ristoro delle anime sante: in essa per la prima volta si mostrò come Pane vivo Colui che discese dal Cielo, quando la Vergine lo partorì. E lì viene mostrata la mangiatoia ai pii animali e nella mangiatoia il fieno del prato verginale, affinché in tal modo il bue riconosca il suo padrone e l’asino il presepe del Signore suo. Poiché ogni essere mortale è come erba, e tutta la sua gloria come un fiore in un prato (Iso., 40,6). Ma l’uomo non comprendendo l’onore di essere uomo, fu comparato ai bruti privi d’intelligenza e divenne come loro (Ps., 48,13).

Il Verbo, Pane degli Angeli, divenne pasto per i giumenti affinché avessero da ruminare il fieno della sua carne, dal momento che persero del tutto l’abitudine di nutrirsi col Pane della Parole: fino a quando la creatura, restituita dall’Uomo-Dio alla sua dignità originaria, e da bestia trasformata di nuovo in uomo, potrà dire con Paolo: Per quanto abbiamo conosciuto il Cristo solo secondo la carne, ora però non lo conosciamo più così (II Cor., 5,16).

Ma credo che nessuno possa parlare con verità se non colui che abbia come Pietro, ascoltata quella verità dalla bocca stessa della Verità: Le parole che vi ho detto sono spirito e vita: la carne, infatti, non vivifica (Io., 6,64).

Del resto chi ha trovato la vita nelle parole del Cristo non cerca più la carne: egli rientra nel novero dei beati, che non hanno veduto ed hanno creduto (Io., 20,29).

Infatti nessuno ha bisogno del latte se non il bambino, e solo l’animale ha bisogno del fieno. Ma colui che non inciampa nella Parola è uomo perfetto e può cibarsi di cibi solidi; egli mangia il pane il pane del Verbo senza offesa, anche se col sudore della Sua fronte. Anzi, sicuro e senza scandalo egli annunzia la sapienza di Dio ai perfetti, procacciando cibo spirituale a coloro che vivono nello spirito; quando però si rivolge ai fanciulli e al gregge, è cauto nel proporre loro, d’accordo con le loro capacità di comprensione, Gesù e Gesù Crocifisso (I Cor., 2,2).

Lo stesso e medesimo cibo proviene dai pascoli celesti e viene ruminato dal gregge e consumato dall’uomo, nutre il piccolo e dà forza agli uomini.

VII - Nazaret.

13. Vediamo anche Nazaret, il nome della quale è interpretato come “fiore”; in essa fu nutrito il Dio fanciullo che era nato a Betlemme, così come il frutto si forma sul fiore: affinché il profumo del fiore precedesse il sapore del frutto ed il succo santo, che i Profeti odorano, si riservasse nella bocca degli Apostoli. Gli Ebrei si accontentarono del sottile profumo, i cristiani si sono però saziati con l’alimento solido.

Tuttavia Natanaele aveva percepito l’odore di questo fiore che sorpassava per dolcezza ogni altro fiore, e per questo chiese: Può da Nazaret venire qualcosa di buono? (Io., 1,45) e, non contentandosi della sola fragranza, seguì Filippo che gli aveva risposto: vieni e vedi (Io., 1,46).

Anzi, dilettato quanto mai dallo spargersi della sua stupenda dolcezza, avendo respirato la soave fragranza divenne ancor più desideroso di assaporarlo e, guidato dal profumo, fu sollecito ad arrivare al frutto, volendo godere più pienamente ciò che da lontano aveva odorato.

E consideriamo se anche Isacco non abbia odorato qualcosa di questo profumo del quale stiamo trattando. Di lui così dice la Scrittura: Appena ebbe sentito la fragranza delle vesti [di Giacobbe]: «Ecco, gridò, l’odore di mio figlio come il profumo di un campo ubertoso che il Signore ha benedetto!» (Gen., 27,27).

Sentì il profumo delle vesti ma non riconobbe la presenza di chi le portava e, dilettandosi esteriormente della veste come del profumo di un Fiore, non avendo gustato l’interna dolcezza di frutto rimase così privo della conoscenza dell’elezione di suo figlio e del sacro mistero [che tale elezione racchiude].

A cosa si riferisce ciò? La veste dello spirito è la lettera, carne del Verbo. Ma gli Ebrei neppure ora riconoscono né il Verbo nella carne né la divinità nell’Uomo né intravedono il significato spirituale sotto il senso della lettera. Palpando esternamente [come Isacco] la pelle del capro, che esprime la somiglianza col progenitore, cioè col primo ed antico peccatore, non giunse alla nuda verità, Colui che era venuto non a peccare ma per assumere su di sé i peccati degli uomini si manifestò non già: nella carne del peccato, ma in somiglianza materiale della carne del peccato (Rom., 8,3), per l’adempimento di quella missione della quale Egli stesso non fece mistero: Affinché i ciechi vedano, e quelli che vedono divengano ciechi (Io., 9,39).

Tratto in inganno da questa somiglianza il popolo del quale i profeti avevano profetato il Messia, ancor oggi, cieco, benedice colui che ignora e disconosce nei miracoli Colui di cui raccoglie continuamente testimonianza nelle Scritture. Non comprende colui verso cui pure stende la mano per legarlo, flagellarlo, schiaffeggiarlo, e neppure [Io] comprende la sua resurrezione.

Se infatti Lo avessero riconosciuto, non avrebbero mai crocefisso il Signore della gloria (I Cor., 2,8).

Ma percorriamo con una breve descrizione anche gli altri luoghi santi e, se non proprio tutti, almeno alcuni. Dal momento che non possiamo soffermarci su ciascuno in particolare ricordiamo almeno i più illustri.

VIII - Il Monte degli Ulivi e la Valle di Giosafat.

14. Si ascende al Monte degli Ulivi e si discende nella Valle di Giosafat per poter meditare sui tesori della divina misericordia, senza però trascurare la spaventosità del giudizio; poiché, sebbene Dio sia largo nel perdonare, nella sua grande misericordia, tuttavia il suo giudizi è un abisso profondo attraverso il quale Egli si mostra terribile per i figli degli uomini.

David si riferisce al Monte degli Ulivi quando dice: Tu salverai uomini ed animali, o Signore; a tal punto hai moltiplicato, o Dio, la tua misericordia (Ps., 35,7-8)! Ma nel medesimo salmo ricorda anche la valle del giudizio dicendo: Non si alzi contro di me il piede del superbo, né mi nuova la mano del peccatore (Ps., 35,12)! E confessa di essere atterrito da quel giudizio quando in un altro salmo dice: Trafiggi le mie carni col timore di te. Infatti ho tremato davanti ai tuoi giudizi (Ps., 118,120). Il superbo cade a precipizio in questa valle e viene abbattuto: l’umile vi discende e non corre pericolo. Il superbo giustifica il suo peccato, l’umile si accusa, sapendo che per questo Dio non giudica due volte il medesimo errore e che se ci giudicheremo non saremo giudicati (I Cor., 11,31).

15. Il superbo, non comprendendo quanto sia terribile cadere tra le mani del Dio vivente (Eebr., 10,31), leggermente prorompe in perfide parole per scusare i suoi peccatori (Ps., 140,4). Ed è davvero una grande malizia che tu non abbia pietà di te stesso, e che rifiuti l’unico rimedio della confessione dopo il peccato, e che tu voglia piuttosto racchiudere il fuoco nel tuo petto invece di allontanarlo, né hai dato ascolto al giudizio del Sapiente che dice: Abbi pietà della tua anima e piacerai a Dio (Eccl., 30,24). E chi è malvagio con sé stesso con chi mai potrà essere buono? Ora avviene il giudizio del mondo, ora il principe di questo mondo nel verrà scacciato: fuori dal tuo cuore, se tu stesso ti giudicherai con umiltà:

Vi sarà il giudizio del cielo, quando Dio convocherà a sé il cielo e la terra per riconoscere i suoi (Ps., 49,4). Allora temere dovrai di non venire respinto con quello stesso [diavolo] e coi suoi angeli perché sei stato trovato non giudicato.

D’altronde l’uomo spirituale, che giudica ogni sua azione, da nessuno è giudicato (cfr. I Cor., 11,15).

Per questo il giudizio incomincia nella casa di Dio: perché il Giudice, che conosce i suoi, li trovi giudicati: e non abbia più nulla di loro da giudicare, dal momento che sono da giudicare coloro che non condividono le fatiche degli uomini e con gli uomini non sono flagellati (Ps., 72,5).

IX – Il Giordano.

16. Quanto è lieto il Giordano di ricevere nel suo grembo i cristiani, lui che si gloria di esser stato consacrato dal battesimo del Cristo (cfr. IV Reg., 5,12). Senza dubbio mentì quel lebbroso siriano che preferì non so quali acque di Damasco a queste d’Israele, dal momento che il nostro Giordano ha provato tante volte il suo devoto servizio a Dio sia quando si aprì ad Elia (cfr. IV Reg., II), sia quando si offrì asciutto ad Eliseo, (sia per ricordare un fatto più antico) quando frenando mirabilmente l’impeto delle sue correnti, permise il passaggio di Giosuè ed il suo popolo (Jos., III).

E, infine, quale tra i fiumi è più nobile di questo che la Trinità stessa ha consacrato a sé con una presenza davvero evidente (cfr. Lc., 3,21-22)? Il Padre fu udito. Lo Spirito Santo fu visto. Il Figlio fu battezzato.

A ragione, quindi, anche il popolo tutto dei fedeli esperimenta nell’anima per volontà di Cristo la stessa virtù che Naaman sentì nel suo corpo dopo aver seguito i consigli del Profeta (cfr. IV Reg., 5,14).

Il Calvario.

17. Si esce fuori [da Gerusalemme] dirigendosi verso il Calvario, lè dove il vero Eliseo, deriso da stolti fanciulli, infuse nei suoi il suo eterno sorriso, dei quali disse: Ecco me ed i miei fanciulli che il Signore mi ha dato (Is., 8,18). Questi sono i fanciulli giusti che il Salmista, in contrasto con la malignità degli altri sprona alla lode cantando: Lodate il Signore; fanciulli, lodate il nome del Signore (Ps., 112,1). Poiché sulla bocca dei santi fanciulli e dei lattanti la lode sarà portata a compimento, essa che svanì dalle labbra degli invidiosi dei quali è detto: Ho nutrito e cresciuto dei figli, ma essi mi hanno disprezzato (Is., 1,2).

Salì sulla croce quel nostro Eliseo [lett. “il Calvo” poiché Eliseo, che era calvo, è prefigurazione del Cristo, cfr. III Reg., 12,28] esposto al mondo in favore del mondo (mundo pro mundo expositus): a viso aperto, e fronte scoperta, compiendo la purificazione dell’umanità carica di peccati, non arrossì per la vergogna di una morte crudele ed obbrobriosa né inorridì di fronte a quella pena.

Non v’è da meravigliarsi: perché avrebbe dovuto arrossire Egli che ci lavò dai peccati (Apoc., 1,5), non come l’acqua che pulisce ma trattiene in sé le impurità, ma come raggio di sole che arde le impurità e conserva la sua purezza?

La sapienza di Dio tutto raggiunge grazie alla sua purezza.

XI – Il Sepolcro.

18. Tra tutti i luoghi santi e degni d’amore il Sepolcro ha, in un certo senso, il primo posto. Si prova un non so che di teneramente devoto più dove Egli riposò da morto che dove dimorò da vivo. Il ricordo della sua morte muove a pietà più di quello della sua vita. Penso che ciò avvenga perché la morte sembra più crudele e la vita più dolce e la quiete del sonno lusinga l’umana debolezza più della fatica del vivere, il quieto stato della morte più che il diritto sentiero della vita.

La vita di Cristo mi offre un modello per la vita; ma la sua morte mi offre la redenzione dalla morte. La sua vita mi insegnò a vivere, ma la sua morte distrusse la morte.

Laboriosa è stata la sua vita, preziosa la sua morte. Entrambe furono necessarie.

Ma a cosa potrebbe giovare la morte del Cristo ad uno che vive empiamente e a che cosa la sua vita ad uno che muoia da dannato?

Forse che la morte del Cristo, ancor oggi, serve a liberare dalla morte eterna coloro che fino alla morte hanno vissuto in colpa? E la santità della sua vita ha liberato i Santi Padri vissuti prima della sua venuta?

Così sta scritto: Quale dei viventi non vedrà la morte e potrà strappare la sua anima dalle grinfie dell’abisso (Ps., 88,49)?

Erano dunque per noi egualmente necessarie e l’una e l’altra, e la sua vita giusta è la sua morte impavida. Vivendo insegnò a vivere e morendo rese sicuro il morire: è morto per risorgere ed ha fondato la speranza della resurrezione per coloro che muoiono. Ma a ciò Egli aggiunse un terzo beneficio, senza il quale neanche il resto sarebbe servito: la remissione dei peccati. Difatti, per quanto concerne la vera e suprema beatitudine, cosa avrebbe potuto giovare a chi era tenuto prigioniero anche solo dal peccato originale una vita per quanto retta e di lunga durata? Il peccato ha infatti preceduto la morte e se l’uomo l’avesse evitato non avrebbe assaporato la morte (mortem non gustasset) in eterno.

19. Peccando l’uomo perse la vita e trovò la morte: Dio stesso l’aveva infatti predetto – e rispondeva a giustizia – che se l’uomo avesse peccato sarebbe morto. Cosa avrebbe potuto ricevere di più giusto se non la pena del taglione?

Dio infatti è la vita dell’anima, e questa è la vita del corpo. Avendo l’uomo peccato col libero arbitrio, di sua propria volontà ha rinunciato alla vita: che perda dunque, di conseguenza, la possibilità di dare a sua volta la vita, contro la sua propria volontà.

Spontaneamente respinse la Vita, ha rifiutato di vivere: sia incapace di darla a chi vuole e quando vuole.

L’anima che non ha voluto essere governata da Dio sia impotente a reggere il corpo. Dal momento che non ha ubbidito a chi è sopra di lei, perché dovrebbe comandare a chi è al di sotto di lei? Il Creatore ha trovato ribelle la sua creatura [l’anima], così pure l’anima trovi ribelle la creatura [il corpo] a lei asservita.

L’uomo ha trasgredito la legge divina: scopra quindi nelle sue membra un’altra legge che si rifiuta di ubbidire alla legge della sua volontà e che lo imprigiona nella legge della caduta (cfr. Rom., 7,25). Inoltre il peccato, secondo le Scritture, ci separa da Dio (Is., 59,2) e quindi così pure la morte ci separi dal corpo.

L’anima non può separarsi da Dio se non per mezzo del peccato, il corpo non può separarsi dall’anima se non per mezzo della morte. E’ forse troppo spietata questa pena che si limita a prescrivere che il suddito subisca lo stesso male che ha commesso contro il suo Creatore? Niente di più consequenziale, indubbiamente, del fatto che, essendo la morte spirituale colpevole e volontaria, abbia causato altresì la morte corporale, punitiva e necessaria.

20. Poiché l’uomo era stato condannato in conformità alla sua duplice natura a questa doppia morte, l’una dello spirito, dovuta alla sua volontà e l’altra del corpo come conseguenza della prima, l’Uomo-Dio, per la sua potenza e benevolenza, venne in aiuto all’una e all’altra con la sua morte, insieme corporale e volontaria, e con quella sua unica morte sconfisse la nostra doppia morte. E a ragione, infatti di quelle nostra due morti una ci fu imputata come risultato della nostra colpa, l’altra come dovuto castigo.

Il Cristo accettò il castigo e, pur essendo indenne da colpa, morendo di sua spontanea volontà soltanto nel corpo guadagnò per noi la vita e la remissione. Del resto, se non avess sofferto nel corpo, non avrebbe prosciolto il nostro debito: se non fosse morto spontaneamente la sua morte non avrebbe avuto merito.

Ma, se come si è detto, la morte è il risultato meritato per la colpa, e la morte è il debito per la colpa, dal momento che il Cristo ha rimesso i peccati ed è morto per i peccatori, ormai quanto dovevamo è stato pagato e il debito sciolto.

21. E poi, come sappiamo che Cristo ha il potere di rimettere i peccati? Senza dubbio perché Egli è Dio e può ciò che vuole. E come sappiamo che Egli è Dio? I miracoli lo provano. Ho compiuto opere che nessun altro potrebbe per tacere poi l’oracolo dei Profeti e la testimonianza della voce del Padre discesa dall’alto su di lui nella magnificenza della gloria dei cieli. Ché se Dio è a nostro favore, chi è contro di noi? E se Dio ci giustifica chi ci condannerà? (Rom., 8,31 e 8,33-34).

A Lui ed a Lui solo noi confermiamo ogni giorno: Contro te, unicamente, ho peccato (Ps., 50,6).

Chi meglio, anzi, chi altri ha la facoltà di perdonare il peccato fatto contro di lui? O, come non lo potrebbe Egli che può tutto? E, infine, io ho facoltà di perdonare, se voglio, le colpe commesse contro di me: e Dio non potrebbe rimettere quelle fatte contro di lui?

Se chiunque ha la facoltà di rimettere i peccati, Lui onnipotente – solo lo può lui contro il quale si pecca – beato colui al quale Egli non addosserà colpa.

Egli, abbiamo conosciuto come Cristo, per la potenza della sua divinità, ha la facoltà di condonare le colpe.

22. Quanto alla sua volontà [di rimettere i peccati] chi mai potrà dubitarne? Infatti chi ha rivestito la nostra carne e subito la nostra stessa morte credi forse che ci negherà la sua giustizia? Egli che volontariamente s’incarnò, che volontariamente patì, che volontariamente fu crocefisso, ci negherà proprio il suo perdono? Se per la sua deità è chiaro che Egli può rimettere i peccati, con la sua umanità dimostra chiaramente che questo è il suo valore.

Ma da quali fatti possiamo trarre ancor motivo di credere che Egli scacciò da noi la morte? Dal fatto che Egli la sopportò pur non avendola meritata. Per quale motivo dovrebbe dunque esigere di nuovo da noi ciò che Egli ha già pagato per noi?

Colui che concesse il perdono del peccato donandoci la sua giustizia scioglie il debito della morte e riporta alla vita. Uccisa dunque la morte, ritorna la vita. Cancellando il peccato torna la giustizia. La morte è stata dispersa nella morte del Cristo e la sua giustizia ci viene concessa. Ma come ha potuto morire Colui che era Dio? Perché era anche vero uomo. E in che modo la sua morte ha potuto giovare alla morte dell’uomo? Poiché Egli era anche giusto.

Dunque, in quanto era uomo poté morire, ma in quanto era giusto non poteva morire affatto.

Un peccatore non può certo estinguere con la sua morte il debito di un altro peccatore, dal momento che la morte di ognuno vale come debito personale: ma Colui che non deve morire per saldare il suo debito, morì forse invano per gli altri? Quanto poi indegnamente muore chi non merita di morire, tanto più giustamente vive colui a favore del quale è morto.

23. «Ma che giustizia è quella – dirai – ove un innocente abbia a morire per un malvagio?». Non si tratta di giustizia, ma di misericordia. Se giustizia fosse il Cristo non sarebbe morto senza motivo, ma per pagare il dovuto. Se Fosse morto per debito [nei confronti della Giustizia divina], Egli sarebbe morto sicuramente ma colui per il quale muore non vivrebbe.

Ma pure non trattandosi propriamente di giustizia, tuttavia la sua morte non è contro giustizia. D’altronde non poteva essere giusto nel rigore e misericordioso insieme.

Ma anche se di diritto un giusto possa bastare a dare giustificazione per un peccatore, per quale legge dovrebbe essere sufficiente un giusto per molti peccatori? Secondo giustizia la morte di uno solo dovrebbe essere sufficiente a ridare la vita a uno solo.

A ciò risponda ora l’Apostolo: Come infatti per la colpa di uno solo la condanna si è abbattuta su tutto il genere umano: così a causa della giustizia di uno solo è stata resa giustizia per tutti gli uomini. Come infatti per la disubbidienza di uno solo sono stati peccatori molti; così pure per l’ubbidienza di uno solo molti sono resi giusti (Rom., 5, 18-19).

Ma perché mai Colui che ha potuto restituire la giustizia a molti non avrebbe potuto restituire loro anche la vita? Per mezzo di un uomo la morte, per mezzo di un Uomo la vita.Come tutti periscono in Adamo, così pure tutti in Cristo hanno la vita (I Cor., 15,21).

E che? Uno solo peccò e tutti ne pagano il fio e l’innocenza di uno solo verrà ascritta a quel solo? Il peccato di uno solo ha causato la morte di tutti, e la rettitudine di uno solo restituirà la vita a uno solo?

La giustizia di Dio vale più a condannare il genere umano, dunque, che a ripristinarlo nella giustizia? O poté più Adamo nel male che Cristo nel bene? Il peccato di Adamo è stato addebitato anche a me e la giustizia di Cristo invece non mi appartiene? La disubbidienza di quello mi ha perduto e l’obbedienza di Cristo non mi gioverà?

24. Ma noi tutti abbiamo contratto le colpe del delitto in Adamo – tu dici – poiché un Adamo in Adamo noi tutti abbiamo peccato: «eravamo in lui quand’egli peccò e dalla sua carne siamo stati generati attraverso la concupiscenza della carne».Tuttavia, noi nasciamo molto più direttamente da Dio secondo lo spirito che da Adamo secondo la carne: quanto meno se crediamo di poter essere annoverati anche noi tra coloro dei quali l’Apostolo dice: Egli ci ha eletti in se stesso – cioè il Padre nel Figlio – prima della costruzione del mondo (Eph., 1,4).

Anche l’Evangelista Giovanni testimonia che siamo nati da Dio, quando dice: Quelli che non sono mai nati dal sangue né dalla volontà della carne, né dalla volontà dell’uomo, ma da Dio (Jo., 1,13). Ed ancora scrisse Giovanni nell’Epistola: Chiunque sia nati da Dio non commette peccato (Jo., 3,9), poiché la sua generazione celeste lo conserva.

«Ma il desiderio corporeo – si potrebbe obiettare – attesta il legame carnale; e il peccato che sentiamo nella carne chiaramente rivela che discendiamo, secondo il corpo, dalla carne del peccatore». Ma nondimeno viene sentita non dalla carne ma nello spirito (in corde) quella generazione spirituale almeno da quelli che possono affermare con Paolo: Noi possediamo la facoltà di sentire il Cristo (I Cor., 2,16), nella quale facoltà sentono d’esser giunti tanto addentro da poter dire con tanta sicurezza: Lo spirito stesso rende testimonianza al nostro spirito che noi siamo figli di Dio (Rom., 8,16). Ed ancora: Noi non abbiamo ricevuto lo spirito di questo mondo(Rom., 13,4; I Pet., 2,14).

Lo spirito che è da Dio per conoscere ciò che da Dio ci viene elargito (I Cor., 2,12).

Per mezzo dello spirito che proviene da Dio la carità è stata infatti diffusa nei nostri cuori, come attraverso la carne che da Adamo discende la concupiscenza resta annidata nelle nostre membra. E come questa, che discende dal progenitore del corpo, non si separa mai dalla carne in questa vita mortale, così la carità, procedendo dal Padre degli spiriti, non viene mai meno almeno dall’indole dei suoi figli migliori.

25. Se pertanto siamo nati da Dio ed eletti in Cristo, quale giustizia è dunque quella che la nascita umana e terrena abbia a nuocere più di quanto giovi la provenienza divina e celeste; e che la discendenza corporea abbia a sopraffare l’elezione da parte di Dio e che la concupiscenza della carne, limitata nel tempo, abbia a dettar legge al Suo eterno disegno? E perché mai, dunque, se abbiamo avuto la morte a causa d’un solo uomo, non dovremmo avere la vita a maggior ragione per opera di un solo uomo, e per di più, di quell’Uomo [Cristo]?

Se in Adamo tutti noi troviamo la morte, perché non potremmo esser riportati alla vita dal Cristo con potenza infinitamente superiore?

Poiché, dunque: Il dono e il delitto non segnano le medesime vie. Il giudizio provocato dal peccato di un solo uomo ha portato alla condanna, mentre la grazie concessa dopo tanti peccati ci ha giustificati (Rom., 5,16).

Cristo ha potuto rimettere i peccati essendo Dio ed essendo uomo ha potuto morire e morendo prosciogliere il debito della nostra morte poiché Egli è giusto, ed Egli solo bastò per la giustizia e la vita di tutti, come da uno solo era derivata all’umanità la morte e il peccato.

26. Ma la Provvidenza dispose che anche il Cristo si degnasse di vivere alcun tempo uomo tra gli uomini avendo un poco differita la sua morte, per rivolgere gli animi al desiderio dei beni invisibili, con parole di verità spesso ripetute, per sostenere la Fede con opere degne d’ammirazione, per istruire con una vita vissuta secondo giustizia.

E così l’Uomo-Dio, avendo vissuto al cospetto degli uomini nella sobrietà, nella rettitudine, nel sentimento del dovere, avendo parlato secondo verità, operato miracoli, patito essendo innocente, cosa avrebbe ormai potuto mancare alla nostra salvezza? Si aggiunga la grazia della remissione dei peccati, che Egli gratuitamente ci ha rimesso, e l’opera della nostra salvezza è completa.

Non è da temere che la potestà o la volontà di condonare i peccati venga meno a Dio avendo Egli sofferto, e sofferto tanto grandi dolori per i peccatori perché noi, com’è giusto, ci dimostriamo solleciti ad imitarne gli esempi e a venerarne i miracoli.

Viviamo dunque confidenti nella sua dottrina e grati per le sue sofferenze.

27. Dunque, ogni aspetto di Cristo ci fu giovevole, tutto fu salutare, tutto necessario. E la fragilità umana non giovò meno della sua maestà: poiché se comandando con la potenza della sua divinità tolse il giogo del peccato, morendo con la fragilità dell’umana natura ha abbattuto i diritti della morte. Per cui l’Apostolo dice a ragione: Quello che è debole in Dio è la cosa più forte per gli uomini (I Cor., 1,25).

Ma pure quella sua follia per la quale gli piacque salvare il mondo, confutando la sapienza del mondo, confondendo i sapienti poiché pur essendo Cristo della stessa natura di Dio, Dio in Dio, s’abbassò fino a prendere la natura del servitore (Phil., 2,6-7); poiché potente si fece bisognoso per amor nostro, da grande piccolo, da sommo umile, da forte bisognoso; poiché ebbe fame, sete, si stancò con le marce e sopportò tutte le altre sofferenze per volontà sua, non per necessità, la sua follia, dunque, non fu per noi la via della sapienza, il modello della giustizia, l’esempio della santità? Per questo l’Apostolo dice: Quel che in Dio è stoltezza, per gli uomini è sapienza somma (I Cor., 1,25).

La sua morte liberò quindi dalla morte; la vita dall’errore; la grazia dal peccato. La sua morte ha vinto grazie alla sua giustizia, poiché Egli, Giusto, pagando ciò che non aveva preso, recuperò di diritto ciò che aveva perduto. La sua vita raggiunse lo scopo (adimplevit) grazie alla sua sapienza, e resta per noi modello di vita e specchio di comportamento. Inoltre la sua grazia ci ha rimesso i peccati in virtù di quel potere per cui Egli realizza ogni suo desiderio.

La morte di Cristo è, dunque, la morte della mia stessa morte: poiché Egli morì perché io vivessi.

E come potrebbe non vivere colui a favore del quale la vita stessa ha accettato di morire?

O chi temerà sotto la guida della Sapienza di errare nell’adempimento delle leggi o nella conoscenza?

O da chi sarà ritenuto colpevole colui che la Giustizia ha assolto? Egli stesso si proclama vita nel Vangelo dicendo: Io sono la vita (Jo., 4,6). E le altre due cose sono testimoniate dall’Apostolo che afferma: Egli è stato fatto per noi Giustizia e Sapienza di Dio Padre (I Cor., 1,30).

28. Ma se la legge dello spirito di vita in Gesù Cristo ci ha liberato dalla legge del peccato e della morte (Rom., 8,2), perché dunque continuiamo a morire e non siamo immediatamente rivestiti d’immortalità? Perché si compia la verità di Dio. Infatti, poiché Dio ama la misericordia e la verità (Ps., 83,12), è necessario – come egli ha stabilito – che l’uomo muoia; ma è altresì necessario che risorga da morte, affinché Dio non dimentichi la misericordia.

Dunque la morte, anche se non dominerà in eterno, tuttavia rimane – sebbene temporaneamente – presso di noi d’accordo con la verità di Dio, come il peccato, pur non dominando completamente nel nostro corpo mortale, tuttavia non è del tutto venuto meno in noi.

Per questo Paolo, mentre gioisce da una parte per essere stato liberato dalla legge del peccato e dalla morte, dall’altra sin lamenta di essere ancora oppresso in qualche modo da entrambe le leggi, sia quando esclama miserevolmente contro il peccato: trovo una legge differente nelle mie membra (Rom., 7,23), sia quando, schiacciato dalla legge della morte geme aspettando la redenzione del suo corpo.

29. Tali considerazioni, o altre di questo genere, vengono suggerite al sentimento cristiano della meditazione sul Santo Sepolcro, secondo la ricchezza interiore di ciascuno nel percepire tali sentimenti; penso comunque che una grande dolcezza di devozione venga instillata dal contatto diretto in chi è capace di penetrare nel senso del luogo santo, e che non sia di poca utilità guardare, sia pure con gli occhi del corpo, il luogo del riposo del Signore. Esso, per quanto sia ormai vuoto delle Sacre Membra, tuttavia è pieno dei nostri più lieti misteri. Nostri, certamente, nostri, se solo con ardore e fermezza crediamo in quello che l’Apostolo dice: Noi siamo stati sepolti con il battesimo, nella morte, affinché come il Cristo è resuscitato da morte per la gloriosa potenza del Padre così anche noi camminiamo in una nuova vita (Rom., 6,4-5). Infatti se fummo innestati a LU in una morte simile alla sua, ugualmente saremo in una resurrezione simile alla sua.

Quant’è soave per i pellegrini, dopo la grande fatica del lungo viaggio, dopo i numerosi pericoli in terra e nel mare, riposare infine lì dove sanno che ha riposato il loro Signore! Credo che per la grande gioia essi non avvertano più nemmeno la fatica del viaggio né si curino delle spese affrontate; ma come se avessero conseguito il premio del travaglio e la ricompensa del cammino, secondo la sentenza della Scrittura: Si riempirono di intenso giubilo avendo trovato il Sepolcro (Job., 3,22).

Non è difatti per un caso imprevisto, né per un’effimera considerazione del favore popolare che il Sepolcro raggiunse un nome tanto celebre, poiché Isaia aveva predetto di esso tanto palesemente e così tanto tempo addietro: E vi sarà in quei tempi la radice di Jesse, eretta come insegna dei popoli, ad essa le genti si volgeranno e il suo sepolcro sarà glorioso (Jsa., 11,10).

Ecco dunque perfettamente adempiuto ciò che abbiamo letto nei Profeti: cosa nuova per chi osserva ma vecchia per chi legge. Così dalla novità proviene gioia e dall’antichità [dalla tradizione profetica] discende autorevolezza.

E sul Sepolcro basti quanto si è detto.

XII – Beftage

30. Che dire di Beftage, piccolo villaggio di sacerdoti, che quasi avevo dimenticato, dov’è racchiuso il mistero della confessione e del ministero sacerdotale?

Beftage significa infatti «casa della bocca». Sta scritto: Presso di te è la parola,nella tua bocca e nel tuo cuore (Deut., 30,14; Rom., 10,8).

Ricordati pertanto di conservare la parola non solo nella bocca ma anche nel cuore. Certamente la parola opera nel cuore del peccatore una contrizione salutare: la parola detta elimina il pudore dannoso, affinché esso non sia d’ostacolo alla necessaria confessione.

Così dice la Scrittura: Vi è un pudore che produce peccato e un pudore che procura gloria (Eccl., IV,25).

Il giusto pudore è vergognarsi di aver peccato o di star peccando e riverire - quand’anche sia assente qualsiasi giudice umano – lo sguardo divino con tanta più vergogna di quello umano quanto più, e a ragione, consideri Dio più vicino a te di qualunque uomo (46), e si sa che Egli viene offeso tanto più gravemente da chi pecca quanto remotissimo è in Lui il peccato. Non v’è dubbio che un pudore di tal fatta mette in fuga il peccato e procura la gloria: esso non permette che il peccato s’insinui, oppure, essendo caduti in peccato, lo punisce con la contrizione, e lo scaccia con la confessione. Purché si possegga quel merito che è la testimonianza della nostra coscienza.

Ma se qualcuno ha persino vergogna di confessare la causa stessa della propria vergogna, tale pudore produce peccato e il merito viene meno dalla coscienza, mentre la contrizione si sforza di scacciare il male dal profondo del cuore: questo pudore inopportuno chiude l’uscio delle labbra e non ne permette l’uscita.

Piuttosto converrebbe dire, secondo l’esempio di David: Non impedirò le mie labbra Signore, tu lo sai (Ps., 39,10).

Il Salmista rimproverando se stesso per codesto pudore stolto e senza ragione, disse: Poiché ho taciuto si consumarono le mie ossa (Ps., 31,3).

Per questo egli desidera che un uscio sia posto attorno alle sue labbra (cfr. Ps., 140,3) affinché apprenda ad aprire la bocca alla confessione e a tenerla chiusa per discolparsi.

Apertamente egli chiede ciò al Signore con la preghiera, sapendo che la confessione e la magnificenza sono opera di Dio (Ps., 110,3).

E un gran bene sarà questa duplice confessione, quando saremo capaci di proclamare apertamente la nostra malizia – logicamente – e parimenti la magnificenza della bontà divina e della divina virtù. Ma tale confessione è un dono di Dio. Infatti David dice: Non sviare il mio cuore in parole malvagie, a cercare scuse per i miei peccati (Ps., 140,4).

Per questo è necessario che i sacerdoti, ministri della Parola, siano vigili con sollecitudine ed attenzione su entrambe le cose, cioè ad instillare parole di contrizione nel cuore dei peccatori, ma stando attenti a non atterrirli affinché esprimano la loro confessione. Aprano il cuore così da non ostruire la bocca, ma non assolvano chi non giudicheranno completamente confessato dalla sua colpa, anche se contrito: dal momento che con il cuore si crede per la giustizia ma con la bocca si professa la fede per avere salvezza (Rom., 10,10).

Altrimenti la confessione viene meno, come quella d’un morto (cfr. Eccl., 17,26). Pertanto chi ha la parola sulla bocca e non nel cuore, o è colpevole o è vuoto; chi l’ha solo nel cuore o è superbo o vile.

XIII – Betania

31. Sebbene stia procedendo molto celermente, non debbo tuttavia passare sotto silenzio Betania, «la casa dell’obbedienza», villaggio di Maria e di Marta, là dove Lazzaro resuscitò: qui viene raccomandata la riflessione sui due tipi di vita [attiva e contemplativa], la mirabile clemenza di Dio verso i peccatori, la virtù dell’obbedienza congiunta con quella della penitenza. Basti qui chiarire ciò che né la diligenza nelle buone azioni, né la quiete delle sante contemplazioni, né le lacrime di pentimento potranno essere accette fuori di «Betania» da Colui che stimò così grandemente l’obbedienza al Padre fino alla morte volle perdere la vita piuttosto che l’obbedienza.

E sono sicuramente queste le ricchezze che la profezia promette secondo la parola di Dio dicendo: Il Signore consolerà Sion, consolerà le sue rovine; renderà delizioso il suo deserto e farà della sua solitudine un giardino del Signore, e in essa si troveranno letizia, gratitudine e voci di laude (Is., 51,3).

Queste delizie del mondo, questo tesoro celeste, questa eredità dei popoli fedeli, sono state dunque consegnate alla vostra fedeltà, o miei diletti, alla vostra prudenza, al vostro coraggio.

Sarete dunque in grado di custodire questi beni celesti a voi affidati con fedeltà e sicurezza se non confiderete mai nella vostra prudenza e nella vostra forza ma solo nell’aiuto del Signore, sapendo che l’uomo non sarà mai sostenuto dalla propria forza (I Reg., 2,9), e ripetendo quindi col Profeta: Signore, mio sostegno, mio rifugio, mio liberatore (Ps., 17,3).

Ed ancora: Custodirò per te la mia forza perché tu, o Dio, sei il mio difensore. Mio Dio, la tuia misericordia mi verrà incontro (Ps., 58,10-11).

E infine: Non a noi Signore, non a noi, ma al tuo Nome dà gloria (Ps., 113,1); affinché in ogni opera sia benedetto Colui che addestra le nostre mani alla battaglia, le nostre dita alla guerra (Ps., 143,1).

 

Scudetto della Congregazione T.S.B.

 

 
   

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