«Se
noi sapessimo vedere sempre questa santa e adorabile
volontà espressa o di beneplacito, sempre approvarla,
aderirvi sempre, compierla con tutto il cuore, con amore e
fedeltà… questa divina volontà trasformerebbe presto la
faccia della terra… Come si ingannano miseramente quelli
che sono schiavi della propria volontà e non hanno fiducia
sufficiente in Dio, loro Padre, loro Salvatore, l’amico
vero, per permettergli di santificarli e renderli felici!
Noi, almeno, amiamo il nostro dolce Maestro così sapiente
e così buono; facciamo con tutto il cuore ciò che vuole;
accettiamo con fiducia ciò che fa. In ciò sta tutto
l’uomo, tutto il cristiano, tutto il religioso; qui si
trovano la via delle più sublimi virtù e il segreto della
felicità per il tempo e per l’eternità».
Queste
le parole finali del libro, dal titolo Il santo
abbandono, edito nel 1995 dalle edizioni San Paolo, di
dom Vital Lehodey, sacerdote cistercense, al secolo,
Alcime-Jude, il quale, già abate, pubblicò questo testo
nel 1919, forte ormai di una solida cultura spirituale, di
una grande capacità di penetrazione psicologica e di una
notevole esperienza di direzione di anime.
Perché, dunque, parlare di un libro pubblicato in Italia
già vari anni fa in un’edizione riveduta e ritoccata dalle
stesse benemerite monache della splendida Abbazia di
Rosano, che curarono la prima edizione tradotta nel 1945?
Ancora oggi la predicazione e la direzione spirituale
insiste sovente sulla necessità di affidarsi a Dio, ma
l’eco che producono nell’anima tali ammonimenti è spesso
foriero di interrogativi incalzanti che faticano a trovare
risposta. Sembra, infatti, talvolta che l’abbandono sia,
per sua natura, qualcosa che rifugge dal rigore
argomentativo della ragione.
Ebbene
questo libro mostra come l’imperativo evangelico di
diventare come bambini richieda, per se stesso, l’impegno
di affrontare con decisione tutti gli interrogativi che la
ragione si pone e di percorrere un cammino di crescita e
di approfondimento spirituale lungo e non facile. «Non c’è
nessuno, specie davanti allo spettacolo di certe sciagure,
ingiustizie o circostanze sconcertanti, – si legge nella
presentazione – che non si sia posto il quesito: “Perché…?
Perché proprio a me? Perché in questo momento?”» (Il
santo abbandono, p. 5). Quando la sofferenza ci
colpisce, penso che tutti noi, pur in modo implicito,
avvertiamo la mano di Dio, anche allorché riusciamo a
distinguere bene che l’origine immediata del male in
questione può essere, di volta in volta, la volontà
perversa dell’uomo, le forze della natura, scatenate dalle
conseguenze del peccato originale, l’impalpabile, ma pur
sempre presente e intuibile azione del maligno. Pertanto,
nell’attimo in cui percepiamo la dolorosa ferita prodotta
in noi da qualche evento penoso, non è così semplice
riuscire a reagire nell’ottica della fede. In quel
momento, ― ci potremmo chiedere ― quali forze agiscono in
noi e fuori di noi? E con quali scopi? La forza del
dolore, inoltre, produce inevitabilmente una reazione
forte di ribellione, rabbia, sconcerto, difficoltà di
controllo dei nostri sentimenti, talvolta anche della
nostra ragione. La fede si appoggia, in seno alla nostra
umanità, soprattutto sulla facoltà dell’intelletto, la
quale, in quei momenti, fatica ad orientarsi. La volontà,
che spinge la ragione a credere, è talvolta immersa nel
vortice di passioni che rivelano tutta la nostra
debolezza. Come prepararsi a quei momenti, che nessun uomo
sulla terra può illudersi di non incontrare?
Sono
gli istanti delle nostre decisioni interiori più
importanti, dell’azione più proficua di Dio in noi. Quale
ragione sappiamo dare della realtà, in quei momenti? Un
bambino piccolo, quando soffre, non sa fare altro che
piangere; un adulto deve saper fare delle scelte mature
che riguardano se stesso, gli altri e il proprio rapporto
con Dio. E allora, è sufficiente e ragionevole accettare
in modo passivo tutto ciò che accade, perché lo manda Dio?
Ma, in tali casi, la rabbia, giustificata conseguenza del
dolore, come fa a non prendere il sopravvento e a non
travolgere il nostro rapporto con Lui? La virtù della
prudenza che rapporto ha con l’abbandono che è dovuto nei
confronti delle vicende che ci accadono senza nostra
responsabilità e di quelle che costituiscono i giusti
castighi per i nostri peccati? E ancora, non è sufficiente
sapere con certezza che Dio non vuole il male? Occorre
avere anche uno sguardo ampio sul Suo rapporto con la
storia, la realtà di ogni singolo uomo.
Fino a
qui arriva la profondità inconsueta del testo di Lehodey.
In esso si distingue bene tra la volontà espressa di Dio,
consistente nei comandamenti, nelle Sue ispirazioni
interiori, i comandi dei superiori, a cui siamo tenuti, e
quella di beneplacito, che si esprime attraverso le
vicende quotidiane, così che possiamo ben discernere,
volta per volta, dove volgere l’ossequio della nostra
volontà. Precisare, infatti, che la prima è sempre
superiore alla seconda è senz’altro molto importante per
evitare ogni forma di quietismo, di errata rassegnazione o
di confusione buonista. Oggi più che mai occorre
dichiarare con forza che sicuramente il male che ci
circonda è frutto del peccato originale e conseguenza dei
peccati personali, ma che esso è anche permesso da Dio o
come castigo o come prova. Pertanto, per reagire in modo
corretto occorre tenere presente, da un lato, che il
castigo è trasformato in redenzione, in virtù del Sangue
di Cristo, effuso sulla Croce per amore, e, dall’altro,
che di fronte al male o a qualunque evento che può
capitare va sempre esercitata la virtù della prudenza che
sa ad esso reagire, facendo leva sulla fortezza, per
guardare ai comandi divini e alle Sue ispirazioni come
luce per orientarsi e per mantenere la fedeltà. A questi
richiami preziosissimi all’ordine preciso che dobbiamo
rispettare nella nostra ubbidienza a Dio, si aggiunge
anche l’accurata spiegazione della preparazione dell’anima
mediante il distacco dai beni materiali e da quelli
spirituali perché essa possa, a poco a poco, rivolgersi a
Dio solo. E’ infatti nei momenti di massima sofferenza che
l’anima percepisce la delusione prodotta dalle tante cose
a cui si attaccava per vivere e si trova inevitabilmente a
faccia a faccia con Dio, senza però vederlo, immersa
nell’oscurità che sempre accompagna la fede. La volontà
dell’uomo di affermarsi, di sopravvivere a tutti i costi
si incontra, talvolta si scontra, con la Volontà di Dio,
che ama sempre, talvolta rimproverando, talvolta
accogliendo, talvolta richiamando, talaltra attendendo una
risposta. Le si presenta così l’occasione per fare una
scelta tra le cose e Dio, tra se stessa e Dio, al fine di
decidere in modo più risoluto di mettere il Creatore al
primo posto nella sua vita. Sono momenti preziosi per
chiarire le proprie intenzioni più profonde, correggere le
direzioni fondamentali della propria vita, per incontrare
Dio e per accogliere le purificazioni dell’anima dalle
scorie del nostro orgoglio o dell’amor proprio, che
soltanto certe mortificazioni, talvolta sconcertanti,
possono operare in noi, mediante l’azione della grazia.
Solo Dio, invero, come viene bene messo in evidenza, sa
fin dove deve e può arrivare la purificazione e quale
valore essa abbia, come pure solo Lui sa compiere,
ordinariamente attraverso prove dolorose, il capolavoro
della nostra vita spirituale. Senza la liberazione totale
da ogni oscurità interiore, infatti, non possiamo certo
aspirare di presentarci al cospetto di Dio nella visione
beatifica. Intuire anche solo confusamente ciò ci aiuta ad
aderire alla Sua volontà, a trovare la forza di baciare la
Mano che ci percuote.
Ecco
che Lehodey presenta a noi, che spesso siamo appiattiti
nel contingente, un modo di vedere la storia universale e
quella nostra particolare con occhi diversi, indicandoci
sempre e la forza della giustizia divina che non cede alle
nostre indiscrete debolezze e la tenerezza della sua
misericordia che sa risollevarci, vista spesso attraverso
la lente degli scritti di san Francesco di Sales e di
sant’Alfonso Maria De’ Liguori: «Tra la malizia dell’uomo
e la santità di Dio si stabilisce una strana
collaborazione. L’infinitamente santo non può cessare di
odiare il male, tuttavia lo tollera per non togliere agli
uomini il libero uso della loro libertà, ma la giustizia
inderogabile chiederà conto a ciascuno a suo tempo: alle
nazioni e alle famiglie fin da quaggiù, perché esse non
hanno, in quanto tali, l’eternità; agli individui in
questo mondo o nell’altro. Intanto Dio vuole utilizzare,
per raggiungere i suoi fini, la malizia degli uomini e le
loro colpe, come le loro buone disposizioni e le loro
opere sante, in modo che anche il disordine dell’uomo
rientri nell’ordine della Provvidenza… “Nerone è un
mostro, ma fa dei martiri. Diocleziano spinge i furori
della persecuzione fino ai loro limiti estremi, ma prepara
la reazione e l’avvento di Costantino. Ario è un demonio
incarnato che vorrebbe strappare a Cristo la sua divinità,
ma provoca le definizioni della Chiesa su questa stessa
divinità. I barbari, gettandosi sul vecchio mondo, lo
inondano di sangue, ma preparano al vangelo una
popolazione capace di essere cristiana. Le crociate
sembrano fallire perché non salvano Gerusalemme, ma
salvano l’Europa. La rivoluzione francese travolge tutto,
ma provoca la rinascita del vigore e della vita nella
società cristiana, obbligata alla resistenza”» (p. 162,
dove si cita A. DESURMONT, Providance, pt. I, c.
VIII). |