L’abside di una
chiesa è la parete che non chiude. È il monte abbassato.
Il burrone riempito. Il sentiero raddrizzato. È lo spazio
aperto da Cristo, dall’avvento di «colui che è, che era e
che viene» (Ap 1,8). Quelle pietre che a semicerchio
fuoriescono dalle mura squadrate ricordano che ogni
celebrazione della liturgia è cammino verso il ritorno di
Cristo. Attestano la speranza nella parusia.
Cristo, infatti, è il veniente per
eccellenza, o erchòmenos,
colui che è in atto di venire (Mc 11,9). Anche ora, in
questo momento. Ci sarà il momento in cui tutto sarà
palese, quando il cosmo intero sarà giunto al traguardo e
si aprirà il tempo della nuova terra e del nuovo cielo, il
tempo della nuova Gerusalemme, della città che non ha più
bisogno né del sole né della luna, perché la gloria di Dio
stesso la illumina (Ap 21,23). Ma tutto questo non è
ancora. Anche se è già visibile agli occhi della fede.
Perché in Cristo «tutto è compiuto» (Gv 19,30). E nei
sacramenti l’eschaton, ciò che sarà, è già presente
e in atto. «Se uno è in Cristo – scrive San Paolo – è una
creazione nuova: il mondo vecchio è passato, ecco tutto si
è fatto nuovo» (2Cor 5,17).
Viviamo nel tempo del "già e non
ancora". Per spiegarlo,
Gregorio Magno utilizza l’immagine dell’aurora: il sole ha
cominciato a sorgere, ma le tenebre cercano di stringersi
ancora alle cose del mondo, spalancano le fauci e sbattono
la coda, perché sanno che resta loro poco tempo (Ap
12,12). Per questo l’abside è costruito volto ad oriente,
per accogliere i primi raggi del sole che sorge e vince le
tenebre. L’abside è il segno esteriore della fede che,
vivendo del mistero pasquale, ovvero di Cristo risorto, si
rivolge piena di speranza all’incontro definitivo, non più
velato, con Cristo.
La fine non è, quindi, attesa di
uno spegnimento, di un
fiaccarsi dei tempi, di uno sprofondare nell’inerzia della
notte. Cristo ha distrutto le potenze della morte in vista
dell’incorruttibilità. Per dirla con Clemente Alessandrino
«Cristo ha mutato il tramonto in Oriente».
Quando si vede la croce del
presbiterio inscritta nell’abside
o rappresentata, come per esempio
nel mosaico di Sant’Apollinare in Classe a Ravenna, torna
alla mante che Cristo nel giorno della Parusia porterà sul
corpo i segni della croce. È questo un mistero che lascia
ammirati. Il corpo umano, con tutte le sue ferite, è
dentro il mistero della Trinità! Certo, un corpo
trasfigurato, ma che comunque non ha abolito le ferite.
Anche i dipinti che ritraggono
Cristo “Giudice dei vivi e dei morti” ne mostrano le
stimmate. Egli, nella sua
onnipotenza, non scuote via da sé, come se fosse
pulviscolo, la propria umanità. Non lo ha fatto sul
Golgota e non lo ha fatto ascendendo al cielo. Egli è uomo
e Dio. Per questo è giudice: perché è la misura assoluta
del rapporto tra l’umano e il divino. Egli lo ha
testimoniato nella sua verità. Alla verità a cui ciascun
uomo è chiamato. La distanza dal suo esempio sarà oggetto
del giudizio dell’ultimo giorno.
E su questo tema del giudizio è
ancora l’abside che ci può aiutare,
ricordandoci la misericordia di Dio. L’abside infatti, con
la sua forma che esorbita, segna come un sovrappiù. Indica
il tempo della pazienza di Dio. «Il Signore non ritarda
nell'adempiere la sua promessa, come certuni credono; ma
usa pazienza verso di voi, non volendo che alcuno perisca,
ma che tutti abbiano modo di pentirsi» (2Pt 3,9). Il
Signore è misericordioso e quindi attende: lascia tempo
affinché gli uomini si convertano e coloro che si
convertono si perfezionino. |