Nel Salmo 113 [112],
5s ci viene detto che “Dio si china a guardare nei cieli e
sulla terra”. Ma Benedetto XVI, nell'omelia pronunciata per la
Messa di Natale di tre anni fa, ci invita a considerare come
questo sguardo non sia privo di conseguenze, poiché “il
guardare di Dio -commentò il Santo Padre- è un agire”. In che
modo? “Il fatto ch'Egli mi veda, mi guardi, trasforma me ed il
mondo intorno a me”. Ci solleva, ci prende benevolmente per
mano e ci aiuta a salire. Non a caso, infatti, la Scrittura
precisa: “Dio si china”, cioè “viene, proprio Lui, come bimbo
giù fin nella miseria della stalla, simbolo di ogni necessità
e stato di abbandono degli uomini. Dio scende realmente”.
Concetto, questo, che non a caso ritroviamo anche in Padre
Tomas Tyn OP e proprio in una sua omelia per il Santo Natale:
“San Giovanni aggiunge che il Verbo era la vita -afferma- che
il Verbo possiede la vita. Vedete, la vita non significa
soltanto esistere, durare nell'esistenza. Significa agire, è
agire in sé”.
Per fare che cosa? A cosa siamo chiamati? “Il mondo diventa
cinico -prosegue Padre Tyn- “il mondo diventa morto, privo
dell'anima, cari fratelli! Ma noi cristiani, noi abbiamo la
vita, noi abbiamo la luce, noi abbiamo la gioia, abbiamo la
gioia, cari fratelli, la gioia che nessuno mai potrà
prenderci! Vedete miei cari, questo nostro obbligo, l'obbligo
della carità, tenere accesa la fiaccola della fede. Il mondo,
cari fratelli, che orrore, il mondo non sa celebrare il Santo
Natale!”. Ecco perché e per chi tenere accesa la fiaccola
della fede... “Tutti sentiamo un certo disagio -prosegue Padre
Tyn- Talvolta si sente dire: Natale consumistico. Mangiare
bene a Natale è un dovere, san Tommaso lo dice chiaramente.
San Tommaso dice così: 'come peccherebbe un uomo che non
digiuni in Quaresima, cioè che mangia e banchetta in
Quaresima, così peccherebbe un uomo che digiunasse nelle
grandi solennità della Chiesa”. Dove, allora, alberga la
colpa? Dove viene snaturato, deformato, deturpato il vero
senso del Natale? Nel fatto che “tutte queste Tradizioni,
tutte queste osservanze, tutti quei riti, così commoventi,
così belli, così profondi” vengano privati “dell'anima della
fede! Se non c'è fede -afferma Padre Tyn- non c'è vita, perché
non c'è il Verbo della vita”. Allora: “noi siamo credenti,
dobbiamo esserlo con sicurezza, con convinzione, con gioia,
che esulta in Dio per mezzo del Cristo e che si fa
propagatrice della fede su tutta la faccia della terra!”.
Attenzione, però, perché le nostre opere vanno alimentate.
Scrive San Bernardo di Chiaravalle, nel primo sermone nel
Natale del Signore: “Le opere buone devono essere condite con
il fervore della devozione e con la dolcezza della grazia
spirituale”. Nella dimensione del Natale si vive il senso più
autentico e profondo della misericordia, dunque. La potenza
del Signore già si è manifestata nella creazione delle cose e
nel governarle, segni e prodigi l'hanno resa evidente ai
Giudei; la maestà del Signore già si è manifestata ai
filosofi, “poiché, secondo le parole dell'Apostolo, ciò che di
Dio si può conoscere è loro manifesto (Rm 1,19)”. Ma la
potenza esige sottomissione e la maestà ammirazione, “nessuna
delle due vuole l'imitazione”, commenta San Bernardo. Per
questo, “la bontà della misericordia si manifestò soprattutto
ora, nell'umanità”. Affinché l'uomo, creato a Sua immagine,
“possa conformarsi”. E' la misericordia ad averci salvati, ad
aver salvato tutta l'umanità. Ieri, oggi e domani. Poiché “è
una sorgente che non potrà mai essere esaurita”, è la sorgente
“da cui ci siamo lavati, come sta scritto: 'Egli ci ha amati e
ci ha lavati dai nostri peccati (Ap 1,5)” attraverso il
perdono. E' la sorgente, che estingue la sete: “L'acqua della
sapienza gli darà da bere” (Sir 15,3). Ed ancora: “La sapienza
della carne, voluttuosa, non pura, è morte -precisa l'Abate di
Chiaravalle- la sapienza del mondo, agitata, non pacifica, è
nemica di Dio. Solo la sapienza che viene da Dio dà la
salvezza”, poiché “è pura, non ricerca i suoi interessi, ma
gli interessi di Gesù Cristo, in modo che ciascuno non faccia
la propria volontà, ma consideri quale sia la volontà di Dio”.
Da qui l'evidenza di come, proprio per tutto questo, il
Bambinello, pur piccolo, non ci abbia donato poco. E ci abbia
insegnato la discrezione.
Nel proprio Vangelo, San Luca evidenzia un dato importante: il
fatto che i pastori vegliassero. In loro -evidenzia Benedetto
XVI nella citata omelia- “il senso di Dio e della Sua
vicinanza era vivo”, non si rassegnavano cioè “all'apparente
lontananza da Lui nella vita di ogni giorno”. Cosa accade ad
un cuore vigilante? Ad esso “può essere rivolto il messaggio
della grande gioia: in questa notte è nato per voi il
Salvatore. Solo il cuore vigilante è capace di credere al
messaggio”. Anche perché, fatto non secondario, “la venuta di
Dio a Betlemme fu silenziosa”. O il cuore tende l'orecchio o
non se ne rende conto. Nessun clamore, infatti, né ovazioni,
né applausi, nessun ingresso teatrale, nessun colpo di scena:
l'Altissimo, l'Onnipotente non si fece annunciare. “Soltanto i
pastori che vegliavano -incalza il Sommo Pontefice- furono per
un momento avvolti nello splendore luminoso del Suo arrivo e
poterono ascoltare una parte di quel canto nuovo, che era nato
dalla meraviglia e dalla gioia degli angeli per la venuta di
Dio”. Ciò accadde allora, ciò accade ancora oggi: “Questo
venire silenzioso della gloria di Dio continua attraverso i
secoli. Là dove c'è la fede, dove la Sua Parola viene
annunciata ed ascoltata, Dio raduna gli uomini e si dona loro
nel Suo Corpo, li trasforma nel Suo Corpo. Egli 'viene'. E
così si desta il cuore degli uomini”. Ieri come oggi. Ecco
perché è così importante tutto questo. Perché “solo se
cambiano gli uomini, cambia il mondo”. E, per cambiare “gli
uomini hanno bisogno della luce proveniente da Dio, di quella
luce che in modo così inaspettato è entrata nella nostra
notte” grazie al Bambino. Anche più avanti e sino all'Orto
degli Ulivi, ripetutamente il testo sacro ci invita a questa
vigilanza reale, concreta, a restare svegli per accorgerci
della venuta del Signore ed esservi di conseguenza preparati.
Sempre. In ogni tempo.
Contemplare incantati il Mistero immenso dell'Incarnazione, la
Bellezza del Mistero di Dio, che si rivela come “Dio con noi”:
è questo ciò che rivive nelle celebrazioni liturgiche del
Tempo di Natale, in particolare nella Santa Messa della Notte,
la cui nota tipica, dominante, è quella dello stupore. Del
resto, “possiamo non stupire?”, si chiede San Bernardo nei
“Discorsi”. Ed incalza: “Potremo mai essere abbastanza
stupefatti? Con Gesù è la Salvezza a venirci incontro”. Da qui
sgorga la gratitudine e sovrabbonda la gioia.
La gioia non è una dimensione da sottovalutare. Oggi da più
parti si tende a rimarcare la fatica del credere, del dubbio,
della fragilità. Che pur non mancano, specie in certi momenti
della vita o di fronte a particolari prove; ma è sbagliato ed
estremamente pericoloso attardarsi su tali aspetti, anche
perché -come dice la Sacra Scrittura- “Dio ama chi dà con
gioia” (2Cor 9,7). Commentò San Leone Magno Papa:
“Rallegriamoci, non vi può essere spazio per la tristezza, là
dove sono le radici della vita, là dove nasce la vita eterna
ed imperitura”. Solo “alla luce del Verbo eternamente
procedente dal Padre e fattosi uomo per la nostra salvezza,
noi riscopriamo la grandezza della nostra umanità”. Allora,
esortava San Leone Magno, “agnosce, Christiane, tuam
dignitatem”, riconosci, o Cristiano, la tua dignità!. Da qui,
l'esclamazione di Atanasio: “Sono cose grandi!”, poiché
realmente ci sottraggono, tutti noi creature ed in ogni tempo,
al peccato ed alla morte. Niente meno.
Affermò Padre Tyn nella citata omelia: “Certo, se siamo
animaletti più o meno evoluti, come vorrebbe farci credere una
certa pseudoscienza, è chiaro che la nostra responsabilità
morale è poca cosa. E no! Il Verbo venne in mezzo a noi, il
Verbo si fece carne! Perché? Perché il Verbo voleva ricondurre
l'uomo alla dignità della sua condizione originale, alla
santità della sua prima origine divina”. Ed ancora: “La
salvezza dell'uomo è una restaurazione dell'uomo! Per essere
ricreati, secondo il progetto originario architettonico del
Re. Voler essere generati significa ricevere vita da Dio,
niente meno che questo, ricevere vita eterna da Dio! Ecco,
cari fratelli, qual è la nostra dignità, qual è la nostra
responsabilità”. Allora, l'invito che nei citati “Discorsi” ci
fa San Bernardo è a “diventare” noi stessi “un'altra Betlemme
di Giuda”, affinché il Signore non disdegni di “essere vostro
ospite”: “Non a Gerusalemme, la città dei Re della Giudea,
nasce Gesù -spiega- ma a Betlemme, il più piccolo dei
capoluoghi di Giuda. Piccola Betlemme, ormai esaltata dal
Signore: l'Altissimo si è fatto minimo in te”. Essere un'altra
Betlemme significa allora “nutrirsi del Pane della Parola
divina”, per quanto se ne sia indegni; significa vivere
“mediante la fede”e lasciar che da essa sgorghi di conseguenza
la giustizia, anche quando lasci “a desiderare la vostra
testimonianza di vita. Che la Giudea sia il luogo della vostra
testimonianza; rivestitevi di fede e di bellezza”. Solo
“allora potrete accogliere senza paura Colui che nasce a
Betlemme di Giuda, Gesù Cristo, Figlio di Dio”.
Dove poter svolgere tutto questo? Quali gli ambiti? Questi ci
vengono indicati con chiarezza da San Domenico di Guzman, il
fondatore dell'Ordine dei Predicatori, che aveva individuato
due enormi sfide per la Chiesa: l'esistenza di popoli non
ancora evangelizzati e la lacerazione religiosa, che
indeboliva la vita cristiana. Commentò Benedetto XVI nella
catechesi dell'udienza generale del 3 febbraio 2010, svoltasi
in Aula Paolo VI e dedicata proprio a San Domenico: “L'azione
missionaria verso chi non conosce la luce del Vangelo e
l'opera di rievangelizzazione delle comunità cristiane
divennero così le mete apostoliche che Domenico si propose di
perseguire”. E che nulla han perso in termini di attualità:
pensiamo quanto siano concrete come prospettive anche ai
nostri giorni in società dilaniate dal relativismo, ferite dal
positivismo, aggredite dalla secolarizzazione. Come riuscire
in tale compito, certamente impegnativo? Il Santo Padre ci
dice: con lo studio. “Domenico, con un gesto coraggioso
-richiama Benedetto XVI- volle che i suoi seguaci acquisissero
una solida formazione teologica e non esitò ad inviarli nelle
Università del tempo”. Le Costituzioni dell'Ordine, del resto,
“danno molta importanza allo studio come preparazione
all'apostolato. Esorto dunque tutti, pastori e laici -invita
il regnante Pontefice- a coltivare questa 'dimensione
culturale' della fede, affinché la bellezza della Verità
cristiana possa essere meglio compresa e la fede possa essere
veramente nutrita, rafforzata ed anche difesa”.
Per questo, San Domenico offre anche due mezzi indispensabili,
due armi formidabili, perché tale improbo compito abbia pieno
successo ad maiorem Dei gloriam: la devozione mariana, “che
egli coltivò con tenerezza -ricorda il Papa- e che lasciò come
eredità preziosa ai suoi figli spirituali, i quali nella
storia della Chiesa hanno avuto il grande merito di diffondere
la preghiera del Santo Rosario, così cara al popolo cristiano
e così ricca di valori evangelici, una vera scuola di fede e
di pietà”; inoltre, altro strumento utile indicatoci da San
Domenico per la Buona Battaglia cui San Paolo ci chiama, la
preghiera di intercessione per il successo del lavoro
apostolico. Con tali difese, impossibile fallire. Si può, in
quanto creature soggette al peccato, inciampare, si può
cadere, ma poi ci si rialza e si riprende il nostro cammino
spirituale.
Allora, non solo durante la Santa Messa di Natale, bensì ad
ogni celebrazione liturgica si tenga presente come proprio lì,
nell'Eucaristia, non vi sia un punto d'arrivo, come lì non
finisca tutto, bensì tutto abbia realmente inizio. Proseguiamo
il nostro cammino. Con gioia.
Mauro Faverzani |