La Crociata, categoria dello spirito cristiano
“L’addio della chiesa allo spirito di
crociata” è un refrain che ricorre da almeno
quarant’anni e che condensa la concezione del
mondo di un certo cristianesimo, che ha fatto
del dialogo ecumenista il suo vangelo. Questa
visione si basa su di una distorsione storica
e su di un’altrettanto grave deformazione
della dottrina della chiesa.
di Roberto de Mattei
“L’addio della chiesa allo spirito di
crociata”
è un refrain che ricorre da almeno
quarant’anni e che condensa la concezione del
mondo di un certo cristianesimo, che ha fatto
del dialogo ecumenista il suo vangelo. Questa
visione si basa su di una distorsione storica
e su di un’altrettanto grave deformazione
della dottrina della chiesa. Nel caso
dell’articolo di Giancarlo Zizola su
Repubblica del 7 giugno, si aggiunge a ciò un
impervio tentativo di attribuire allo stesso
Papa regnante questo slittamento storico e
dottrinale. Benedetto XVI, come egli disse
nella sua prima udienza del 27 aprile 2005, ha
assunto questo nome, non solo in onore di
Benedetto XV, ma anche e soprattutto per
evocare la straordinaria figura del grande
“Patriarca del monachesimo occidentale”, san
Benedetto da Norcia, che “costituisce un
fondamentale punto di riferimento per l’unità
dell’Europa e un forte richiamo alle
irrinunciabili radici cristiane della sua
cultura e della sua civiltà”.
Ma quali sono quelle radici cristiane che,
secondo Benedetto XVI, come per il suo
predecessore Giovanni Paolo II, non solo i
cattolici, ma anche i laici, hanno il diritto
e il dovere di difendere? Queste radici, o se
si preferisce, i frutti di queste radici, sono
sotto i nostri occhi: sono cattedrali,
monumenti, palazzi, piazze, strade, ma anche
musica, letteratura, poesia, scienza, arte.
Questa visibile mappa della memoria è impressa
nel codice genetico della nostra civiltà.
Ebbene le crociate fanno parte, come le
cattedrali, del paesaggio spirituale europeo e
ne esprimono la stessa concezione del mondo.
Lo storico dell’arte Erwin Panofsky
ha studiato il rapporto tra le vetrate gotiche
e la filosofia scolastica, sottolineando come
la luminosità delle cattedrali medievali
corrisponda alla trasparenza di pensiero di
opere come la “Somma Teologica” di san Tommaso
d’Aquino (Erwin Panofsky, “Architettura gotica
e filosofia scolastica”). Dall’epopea delle
crociate traspare – potremmo aggiungere – la
stessa luminosità, la stessa diafana bellezza,
lo stesso slancio verso l’alto, la stessa
forza creatrice, delle opere di san Tommaso
d’Aquino e di Dante. Anche le crociate fanno
parte di quel patrimonio di valori che, come
scriveva Giovanni Paolo II, sono derivati dal
Vangelo e si sono sviluppati in coerenza con
esso (“Memoria e identità”).
“I capolavori artistici nati in Europa nei
secoli passati
sono incomprensibili se non si tiene conto
dell’anima religiosa che li ha ispirati (…)” –
ha affermato ancora Benedetto XVI (udienza
generale del 18 novembre 2009). Lo stesso
potrebbe dirsi delle crociate, che hanno
inciso nei campi di battaglia della Palestina
quella stessa scala di valori che gli
architetti infondevano in quegli anni nella
pietra delle cattedrali. Né le crociate, né le
cattedrali possono essere comprese da chi
ignora il modo di pensare, e soprattutto, la
fede vissuta, che animava i loro artefici.
Nella cattedrale il popolo cristiano si
raccoglieva attorno a un sacerdote che,
celebrando la Messa su di un altare rivolto a
oriente, rinnovava in maniera incruenta il
mistero stesso del cristianesimo:
l’Incarnazione, Passione e morte di Gesù
Cristo. Nelle crociate, questo stesso popolo
prendeva le armi per liberare la Città Sacra
di Gerusalemme, caduta nelle mani dei
maomettani. La tomba vuota del Santo Sepolcro
era, con la Sindone, la testimonianza viva
della Resurrezione e la reliquia più preziosa
della cristianità.
La prima crociata fu predicata come
meditazione
all’appello di Cristo che dice: “Chi vuole
venire dietro di me rinunci a se stesso,
prenda la sua croce e mi segua” (Mt. 16,
21-27). Quella stessa Croce, attorno a cui si
riuniva il popolo delle cattedrali, era
impressa sulla veste dei crociati ed esprimeva
l’atto con cui il cristiano si diceva disposto
ad offrire la propria vita, per il bene
soprannaturale del prossimo, impugnando le
armi. Lo spirito delle crociate era, e rimane,
lo spirito stesso del cristianesimo: l’amore
al mistero incomprensibile della Croce.
Il professor Jonathan Riley-Smith,
caposcuola del rinnovamento degli studi sulle
crociate, riferendosi a coloro che avevano
risposto all’appello della prima crociata,
afferma che essi erano “infiammati dall’ardore
della carità”, e alla carità, all’amor di Dio,
fa risalire la motivazione profonda di questa
impresa. Offrire la propria vita è infatti la
più grande forma di amore e il più perfetto
atto di carità, poiché ci fa perfetti
imitatori di Gesù secondo le parole del
Vangelo, secondo cui “nessuno ha più grande
amore di colui che dà la sua vita per Lui e
per i suoi fratelli” (Gv. 3, 16; 15, 13). Solo
l’amore, riassunto dal sacrificio di Cristo
sulla Croce, è in grado di sconfiggere la
morte, che è la suprema sofferenza fisica, e
il peccato, che è il supremo male morale. Tale
spirito e stato d’animo, abbondantemente
documentato dalle fonti, non sorge come un
fiume limaccioso dall’inconscio collettivo
dell’occidente, ma dall’atto libero di singoli
uomini che nei secoli luminosi del medioevo
rispondono ad un appello che si rivolge alla
loro coscienza.
La risposta a questo appello
può essere considerata una “categoria dello
spirito” che non tramonta. L’idea di crociata
infatti non è solo un evento storico
circoscritto al medioevo, ma è una costante
dell’animo cristiano che nella storia conosce
momenti di eclissi, ma che sotto diverse forme
è destinata a riaffiorare. Espungere l’idea di
crociata dalla propria “piattaforma
programmatica” significa espungere l’idea
stessa del combattimento cristiano.
L’insegnamento che la vita spirituale è lotta
è particolarmente svolto nelle lettere di san
Paolo dove si trovano in molti luoghi metafore
e immagini tratte dalla vita del guerriero;
l’Apostolo spiega come la vita del cristiano
sia un bonum certamen che va combattuto “da
buon soldato di Gesù Cristo” (II Tim. 2, 3).
“Spogliamoci – egli dice – dalle opere delle
tenebre e indossiamo l’armatura della luce”
(Rom. 13, 12); “Rivestitevi dell’armatura di
Dio per potere resistere agli assalti del
diavolo (…). State dunque cinti della verità,
rivestiti della lorica della giustizia,
calzati della saldezza del Vangelo della pace,
impugnando lo scudo della fede, col quale
potrete estinguere i dardi infuocati del
Maligno, prendere l’elmo della salvezza e il
gladio dello spirito, che è la parola di Dio”
(Ef. 6, 11, 14-17).
Lo spirito di crociata e quello del martirio
hanno una comune origine in questa dimensione
profonda del combattimento spirituale. Il
martirio, come ogni sofferenza, presuppone il
combattimento. La vita stessa di Gesù Cristo
può essere considerata come un costante
combattimento contro l’insieme delle forze
ostili al Regno di Dio: il peccato, il mondo e
il demonio. Che la vita del cristiano sia una
lotta è uno dei concetti che più spesso
risuona nel Nuovo Testamento dove si legge:
“Non sarà coronato se non colui che avrà
legittimamente combattuto” (II Tim. 2, 5). Il
Vangelo del resto, nel suo significato
originario, è annuncio di vittoria militare,
in questo caso la vittoria di Cristo sul male
e sulle potenze delle tenebre.
Perché la chiesa non può abbandonare lo
spirito di crociata?
Molto semplicemente perché non può rinnegare
la propria storia e la propria dottrina. La
storia delle crociate non è una appendice
insignificante della storia della chiesa, ma
si intreccia strettamente con la storia del
papato. Le crociate non sono legate a un
singolo Papa, ma ad una storia ininterrotta di
pontefici, per lo più santi, dal Beato Urbano
II, che promulgò la prima crociata, a san Pio
V e al Beato Innocenzo XI, che promossero
“leghe sante” contro i Turchi a Lepanto,
Budapest e Vienna, tra il XVI e il XVII
secolo. Non è ignoto agli storici che, ancora
nel XX secolo, Pio XII studiò la possibilità
di bandire una “crociata” anticomunista dopo
la rivolta di Ungheria nel 1956.
A quella dei Papi, si aggiunge la
testimonianza dei santi,
a cominciare da Luigi IX, il re crociato per
eccellenza, che con Giovanna d’Arco, anch’essa
a suo modo “crociata”, è patrono della
Francia, la “figlia primogenita della chiesa”.
Contrapporre a queste figure il nostro san
Francesco denota, se non malafede, una
notevole misconoscenza storica. La più
attendibile fonte che abbiamo del viaggio di
Francesco è la testimonianza del suo compagno,
frate Illuminato, che ci racconta come il
santo difese l’opera dei crociati e propose al
Sultano la conversione. E come dimenticare le
legioni di francescani che si unirono, nei
secoli ai crociati, a cominciare da san
Giovanni da Capestrano (1386-1456),
predicatore della grande crociata del XV
secolo, culminata con la liberazione di
Belgrado?
Al nome di san Francesco dovremmo affiancare
quello di santa Caterina da Siena,
patrona d’Italia e Dottore della chiesa di cui
in un recente saggio Massimo Viglione ha
mostrato l’animo profondamente “crociato”
(“L’idea di crociata in Santa Caterina da
Siena”). A Lei potremmo aggiungere un altro
dottore di sesso femminile, questa volta
contemporaneo, santa Teresina del Bambin Gesù,
che in una pagina toccante, rivolgendosi a
Gesù, afferma di voler “percorrere la terra,
predicare il tuo nome, e piantare sul suolo
infedele la tua Croce gloriosa”, riunendo in
un’unica vocazione quelle dell’apostolo, del
crociato, del martire. “Sento – ella scrive –
la vocazione di Guerriero, di Sacerdote, di
Apostolo, di Dottore, di Martire; insomma,
sento il bisogno, il desiderio di compiere per
te, Gesù, tutte le opere più eroiche. Sento
nella mia anima il coraggio di un Crociato, di
uno Zuavo Pontificio: vorrei morire su un
campo di battaglia per la difesa della
Chiesa…”. E il 4 agosto 1897, sul letto di
morte, rivolgendosi alla Superiora, mormora:
“Oh, no, non avrei avuto paura di andare in
guerra. Per esempio, ai tempi delle crociate,
con quale felicità sarei partita per
combattere gli eretici” (“Storia di un’anima”,
in “Opere complete”).
La chiesa non ha mai professato il pacifismo.
Il combattimento cristiano, che è prima di
tutto un atteggiamento spirituale, ma che
comprende la possibilità della legittima
difesa, della guerra giusta e perfino della
“guerra santa”, appartiene alla più pura
tradizione cattolica. Chi professa
l’ecumenismo e il pacifismo a oltranza
dimentica che esistono mali più profondi di
quelli fisici e materiali, e confonde le
conseguenze rovinose della guerra sul piano
fisico, con le sue cause, che sono morali e
risalgono alla violazione dell’ordine, in una
parola a quel peccato che solo può essere
sconfitto dalla Croce. Il mondo moderno, che è
immerso nell’edonismo e ha perso la fede,
giudica come mali, e come mali assoluti, solo
quelli fisici, dimenticando che il male e il
dolore accompagna inevitabilmente la vita
dell’uomo, spesso elevandola.
Lo spirito delle crociate e di Lepanto ci
trasmette un messaggio di fortezza cristiana
che è disposizione d’animo a sacrificare i
beni terreni, di fronte a beni più alti, quali
la giustizia, la verità, l’avvenire della
nostra civiltà.
Oggi il nemico che minaccia la chiesa e
l’occidente
è l’attitudine mentale di chi ritiene che sia
finito il tempo di Lepanto e delle crociate e
allo spirito del combattimento cristiano
contrappone una visione del mondo secondo la
quale nulla esiste di assoluto e di vero, ma
tutto è relativo ai tempi, ai luoghi e alle
circostanze. E’ questo il relativismo
denunciato da Giovanni Paolo II quando nelle
sue encicliche “Splendor Veritatis” ed
“Evangelium Vitae” parla di quella “confusione
del bene e del male, che rende impossibile
costruire e conservare l’ordine morale dei
singoli e delle comunità” (SV n. 93). La
battaglia contro il relativismo in difesa
delle radici cristiane della società, a cui ha
chiamato Giovanni Paolo II e oggi invita
Benedetto XVI, è una battaglia in difesa della
nostra memoria storica, senza la quale non c’è
identità nel presente, perché è sulla memoria
che si fonda l’identità degli uomini e dei
popoli. Ma le radici cristiane non
appartengono solo alla memoria o alla storia:
esse sono viventi perché il Crocifisso, che le
riassume, non è solo un simbolo storico e
culturale, ma è una fonte attuale e perenne di
verità e di vita, di sofferenza e di lotta.
La chiesa ha nemici, anche se noi tendiamo a
dimenticarlo perché abbiamo perso quella
concezione militante della vita cristiana,
fondata sulla Croce, che ha sempre
caratterizzato il cristianesimo. La perdita di
questo spirito militante è la conseguenza
dell’edonismo e del relativismo in cui sono
immersi purtroppo anche molti uomini di
chiesa. Benedetto XVI ha parlato spesso di
minoranze “creative”; potremmo aggiungere
“militanti”, perché quella in corso è una
guerra culturale e morale in cui ci si
affronta in termini di principi di concezioni
del mondo. La storia del resto è fatta da
minoranze militanti e anche Zizola appartiene
a una di esse. Si può militare per il bene o
per il male, in un campo o nell’altro, ma solo
chi milita lascia il suo segno nelle vicende
storiche.
Non si illuda Zizola: si può e si deve
sfuggire, per quanto possibile, allo
scontro delle armi, ma non si può sfuggire
allo scontro delle idee. Egli stesso ne
brandisce una come una clava che vorrebbe
abbattere sulle teste dure dei cristiani
fondamentalisti o “lepantiani”. D’altra parte,
le idee che non si scontrano, non si
“incontrano”, ma si fondono, formando a loro
volta nuove idee all’insegna
dell’indifferentismo e del sincretismo.
La chiesa è una società soprannaturale che ha
la missione di annunciare una Verità salvifica
e liberatrice. Essendo un’istituzione immersa
nel mondo si serve, come è giusto, anche di
strumenti politici e diplomatici, ma la
politica per lei è mezzo, mai fine. Giuliano
Ferrara nel Foglio del 7 giugno lo ha ben
visto. Non bisogna confondere un viaggio
diplomatico, come è stato quello recente del
Papa a Cipro, con il messaggio teologico e
spirituale che la chiesa ha il dovere di
annunziare.
Nell’omelia a Nicosia, il 5 giugno, Benedetto
XVI ha peraltro sottolineato che il legno
della Croce non è semplicemente un simbolo
privato di devozione, non è un distintivo di
appartenenza a qualche gruppo all’interno
della società, ma è un segno di speranza, di
amore, di vittoria. “Un mondo senza Croce – ha
detto – sarebbe un mondo senza speranza”.
Anche un mondo senza spirito di crociata
sarebbe un mondo senza speranza, perché
significherebbe la rinunzia alla lotta per
fare della Croce la salvezza di un mondo in
rovine.
(RC n. 56 - Luglio 2010)
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