«Riflettete: presso Dio non hanno
alcun valore né la posizione né l’abito». Chi sollecita il
lettore a riflettere e pensare? Non è un filosofo, come ci
si potrebbe attendere, né un teologo e nemmeno un chierico,
anche se il testo venne scritto intorno al 1128, ovvero in
pieno Medioevo. No, chi scrive è un miles, un «cavaliere».
Un uomo più avvezzo alla lancia e alla spada che al calamo e
alla pergamena. Per giunta un «cavaliere di Cristo», un
miles Christi. O per meglio dire un «povero commilitone di
Cristo»: pauperes commilitones Christi si fanno infatti
chiamare lui e quel manipolo di altri cavalieri che, laggiù
in Terra Santa, hanno appena dato avvio a una nuova,
inaudita esperienza.
Sono i templari, così chiamati perché il re di Gerusalemme
ha donato loro, come casa madre, il Tempio di Salomone, cioè
la moschea di al-Aqsa sulla spianata del Tempio a
Gerusalemme. E hanno proposto uno stile di vita fuori
dell’ordinario: rimarranno cavalieri - e quindi spargeranno
il sangue, quando necessario -, ma saranno nel contempo
monaci. Il templare è un ibrido: da un lato stringe i voti
di povertà, castità e obbedienza, dall’altro continua a
impugnare la spada. Un monstrum, anzi un «nuovo genere di
uomini» come scrive in quegli anni il loro grande
testimonial, san Bernardo di Clairvaux, il gigante di quel
secolo che redige per loro un’opera famosa, L’elogio della
nuova cavalleria.
Siamo nei decenni che seguono la prima Crociata. Nel 1099
Gerusalemme è tornata cristiana, e ora si tratta di
mantenere i territori riconquistati. Di proteggere i
pellegrini. Di combattere per Cristo, appunto. Ma non, come
avevano fatto i crociati, per un periodo limitato, bensì in
maniera permanente. L’impeto iniziale, che si sarebbe
ripresentato solo con le crociate maggiori tra XII e XIII
secolo, doveva divenire istituzione. A questa esigenza di
base rispose l’ordine dei templari: all’inizio nove
cavalieri - ma il numero è più ideale che reale -, cioè
quasi nulla di fronte alla sfida immensa. E sfida duplice:
combattere contro i musulmani e, insieme, convincere i
cristiani che la loro idea non era follia.
Ecco dunque che Ugo di Payns, l’ideatore, il primo
«cavaliere di Cristo» armato di coraggio e di spada, detta
la sua lettera. «Riflettete». Alcuni dicono che non siamo
necessari: ma è solo perché la nostra funzione è meno nobile
di chi prega soltanto. Eppure «spesso sono le cose meno
nobili ad essere le più utili: il piede tocca la terra, ma
porta il peso di tutto il corpo». Il fatto è che noi, scrive
Ugo, consacriamo «la nostra vita a portare le armi contro i
nemici della fede e della pace per la difesa dei cristiani».
Ma non per amore della violenza: «In tempo di pace
combattiamo contro gli impulsi della carne grazie ai
digiuni; in tempo di guerra combattiamo con le armi i nemici
della pace che fanno dei danni o che vogliono farli».
La sua lettera è una delle novità rilevanti del nuovo lavoro
di Simonetta Cerrini, La rivoluzione dei templari
(Mondadori, pagg. 238, euro 18,50), da oggi in libreria.
Cerrini è esperta come pochi al mondo dei testi originari (e
originali) dei templari e con questo volume propone una
rilettura completa delle loro origini. Comprensiva appunto
della famosa lettera, nota agli addetti ai lavori sin dal
1958 ma erroneamente attribuita a un altro Ugo, Ugo di san
Vittore. Gli studi della Cerrini mostrano invece in maniera
convincente che quella lettera va attribuita a Ugo di Payns.
Insomma un segreto svelato con la ragione, e non con teorie
fumose come troppo spesso accade a proposito di templari.
I meriti dell’autrice non si fermano qui. E si estendono al
ripensare l’esperienza templare non in un’ottica di storia
militare o politica, bensì di storia della cultura. Il
libro, infatti, pone al centro dell’indagine i testi (quelli
veri appunto) della fondazione: gli scritti dei primi
testimoni e i manoscritti della Regola, in latino come in
volgare. Emerge così una spiritualità densa e cosciente,
segno del fatto che quegli uomini d’arme non solo avevano
un’anima, ma che pure la coltivavano. Non ambivano a
primeggiare, ma a servire come appunto fanno «i piedi del
corpo».
E ancora: nella sua lettera Ugo spiega bene come si deve
«odiare non l’uomo, ma il male», e che quindi persino lo
spargere il sangue deve avvenire nel contesto di
un’operazione di pace. È un passaggio rilevantissimo: che un
san Bernardo distinguesse tra omicidio e malicidio, cioè tra
fatto e intenzione, è cosa ben nota. Ma che sullo stesso
filo di pensiero corresse la mente dei primi templari è una
conferma eccezionale e, insieme, uno spalancarsi
d’orizzonti. Perché così si può e si deve ripensare
all’ordine come al protagonista d’una forma laica di vita
cristiana, proprio in un periodo - quello susseguente la
grande riforma «gregoriana» dell’XI secolo - in cui più
nette si delineavano le differenze tra chierici e laici,
soprattutto in relazione alla sfera del sacro.
Credo meno, invece, alla speranza confessata dalla Cerrini e
da altri (penso all’amico comune Franco Cardini) di una «via
del dialogo e della convivenza», dati i rapporti instaurati
dai templari con i musulmani nel XII secolo. Che si
conoscessero è ovvio, visto che lottavano entrambi sulla e
per la medesima terra. Si stimavano anche, è vero, ma solo
in parte, perché la stima derivò da un duraturo rapporto
fatto anche di aspre battaglie; e come non stimare un nemico
che sa resisterti? Ma il «dialogo» di Ugo e degli altri
templari parlava parole alquanto nette: i musulmani sono
«nemici della pace», «fanno danni o vogliono farli». Non
odiamoli, quindi. Ma contrastiamoli. Conviviamo anche, se
necessario. Ma pronti a bloccarli.
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