di Marco Meschini
«Riflettete: presso Dio non hanno alcun valore
né la posizione né l’abito». Chi sollecita il
lettore a riflettere e pensare? Non è un filosofo,
come ci si potrebbe attendere, né un teologo e nemmeno
un chierico, anche se il testo venne scritto intorno
al 1128, ovvero in pieno Medioevo. No, chi scrive è un
miles, un «cavaliere». Un uomo più avvezzo alla lancia
e alla spada che al calamo e alla pergamena. Per
giunta un «cavaliere di Cristo», un miles Christi. O
per meglio dire un «povero commilitone di Cristo»:
pauperes commilitones Christi si fanno infatti
chiamare lui e quel manipolo di altri cavalieri che,
laggiù in Terra Santa, hanno appena dato avvio a una
nuova, inaudita esperienza.
Sono i templari, così chiamati perché il re di
Gerusalemme ha donato loro, come casa madre, il Tempio
di Salomone, cioè la moschea di al-Aqsa sulla spianata
del Tempio a Gerusalemme. E hanno proposto uno stile
di vita fuori dell’ordinario: rimarranno cavalieri - e
quindi spargeranno il sangue, quando necessario -, ma
saranno nel contempo monaci. Il templare è un ibrido:
da un lato stringe i voti di povertà, castità e
obbedienza, dall’altro continua a impugnare la spada.
Un monstrum, anzi un «nuovo genere di uomini» come
scrive in quegli anni il loro grande testimonial, san
Bernardo di Clairvaux, il gigante di quel secolo che
redige per loro un’opera famosa, L’elogio della nuova
cavalleria.
Siamo nei decenni che seguono la prima Crociata. Nel
1099 Gerusalemme è tornata cristiana, e ora si tratta
di mantenere i territori riconquistati. Di proteggere
i pellegrini. Di combattere per Cristo, appunto. Ma
non, come avevano fatto i crociati, per un periodo
limitato, bensì in maniera permanente. L’impeto
iniziale, che si sarebbe ripresentato solo con le
crociate maggiori tra XII e XIII secolo, doveva
divenire istituzione. A questa esigenza di base
rispose l’ordine dei templari: all’inizio nove
cavalieri - ma il numero è più ideale che reale -,
cioè quasi nulla di fronte alla sfida immensa. E sfida
duplice: combattere contro i musulmani e, insieme,
convincere i cristiani che la loro idea non era
follia.
Ecco dunque che Ugo di Payns, l’ideatore, il primo
«cavaliere di Cristo» armato di coraggio e di spada,
detta la sua lettera. «Riflettete».
Alcuni dicono che non siamo necessari: ma è solo
perché la nostra funzione è meno nobile di chi prega
soltanto. Eppure «spesso sono le cose meno
nobili ad essere le più utili: il piede tocca la
terra, ma porta il peso di tutto il corpo». Il fatto è
che noi, scrive Ugo, consacriamo «la nostra vita a
portare le armi contro i nemici della fede e della
pace per la difesa dei cristiani». Ma non per
amore della violenza: «In tempo di pace
combattiamo contro gli impulsi della carne grazie ai
digiuni; in tempo di guerra combattiamo con le armi i
nemici della pace che fanno dei danni o che vogliono
farli».
La sua lettera è una delle novità rilevanti del nuovo
lavoro di Simonetta Cerrini, La rivoluzione dei
templari (Mondadori, pagg. 238, euro 18,50), da oggi
in libreria. Cerrini è esperta come pochi al mondo dei
testi originari (e originali) dei templari e con
questo volume propone una rilettura completa delle
loro origini. Comprensiva appunto della famosa
lettera, nota agli addetti ai lavori sin dal 1958 ma
erroneamente attribuita a un altro Ugo, Ugo di san
Vittore. Gli studi della Cerrini mostrano invece in
maniera convincente che quella lettera va attribuita a
Ugo di Payns. Insomma un segreto svelato con la
ragione, e non con teorie fumose come troppo spesso
accade a proposito di templari.
I meriti dell’autrice non si fermano qui. E si
estendono al ripensare l’esperienza templare non in
un’ottica di storia militare o politica, bensì di
storia della cultura. Il libro, infatti, pone al
centro dell’indagine i testi (quelli veri appunto)
della fondazione: gli scritti dei primi testimoni e i
manoscritti della Regola, in latino come in volgare.
Emerge così una spiritualità densa e cosciente, segno
del fatto che quegli uomini d’arme non solo avevano
un’anima, ma che pure la coltivavano. Non
ambivano a primeggiare, ma a servire come appunto
fanno «i piedi del corpo».
E ancora: nella sua lettera Ugo spiega bene come si
deve «odiare non l’uomo, ma il male»,
e che quindi persino lo spargere il sangue deve
avvenire nel contesto di un’operazione di pace. È un
passaggio rilevantissimo: che un san Bernardo
distinguesse tra omicidio e malicidio, cioè tra fatto
e intenzione, è cosa ben nota. Ma che sullo stesso
filo di pensiero corresse la mente dei primi templari
è una conferma eccezionale e, insieme, uno spalancarsi
d’orizzonti. Perché così si può e si deve ripensare
all’ordine come al protagonista d’una forma laica di
vita cristiana, proprio in un periodo - quello
susseguente la grande riforma «gregoriana» dell’XI
secolo - in cui più nette si delineavano le differenze
tra chierici e laici, soprattutto in relazione alla
sfera del sacro.
Credo meno, invece, alla speranza confessata dalla
Cerrini e da altri (penso all’amico comune Franco
Cardini) di una «via del dialogo e della convivenza»,
dati i rapporti instaurati dai templari con i
musulmani nel XII secolo. Che si conoscessero è ovvio,
visto che lottavano entrambi sulla e per la medesima
terra. Si stimavano anche, è vero, ma solo in parte,
perché la stima derivò da un duraturo rapporto fatto
anche di aspre battaglie; e come non stimare un nemico
che sa resisterti? Ma il «dialogo» di Ugo e degli
altri templari parlava parole alquanto nette: i
musulmani sono «nemici della pace», «fanno danni o
vogliono farli». Non odiamoli, quindi. Ma
contrastiamoli. Conviviamo anche, se necessario. Ma
pronti a bloccarli.
Da IL GIORNALE del 30.VI.2008