La resistenza
dimenticata dei
samurai cristiani
Giappone, anno
1637: guidati da
Amakusa Shiro, un
samurai di 16
anni,
cinquantamila
cattolici
resistono
eroicamente nel
castello di Hara
per tre mesi
all'assedio
dell'esercito
imperiale. Non
sopravviverà
nessuno.
di Rino Cammilleri
In Occidente
nessuno sa
praticamente nulla
della storia del
cristianesimo
giapponese.
Neanche i
cristiani e,
figurarsi, i
cattolici (sebbene
il cristianesimo
giapponese
coincida quasi
interamente col
cattolicesimo
romano). A parte
un lontano libro
del 1959 di Jean
Monsterleet edito
dalle Paoline e
uno di Ivan Morris
(del 1975 ma
tradotto in
italiano da Guanda
nel 1983), nessuno
ha mai raccontato
quel che andiamo a
raccontare. Nel
primo libro
(Storia della
Chiesa in
Giappone) vi si fa
un cenno. Il
secondo, che parla
d'altro (La
nobiltà della
sconfitta), vi
dedica un capitolo
(dal quale
attingiamo in
mancanza d'altro).
Ma la storia dei
samurai cristiani
di Shimabara è una
delle più eroiche
di tutti i tempi e
ancora oggi i
giapponesi le
tributano la
cosiddetta
simpatia
hoganbijki, che i
leali nipponici
riservano al
valore sfortunato.
Negli anni
Sessanta un famoso
attore del teatro
kabuki era
convinto di essere
la reincarnazione
dell'eroe di
quella vicenda,
Amakusa Shiro, il
samurai sedicenne
a cui fu dedicata
anche una canzone
che nel decennio
successivo scalò
le classifiche.
Nell'immaginario
dei giovani, da
quelle parti,
Amakusa Shiro
tiene il posto che
fu di Garibaldi
per i nonni degli
italiani e di Che
Guevara per i
"libertari"
odierni.
Il cristianesimo
sbarcò in Giappone
nel 1549 con s.
Francesco Saverio,
braccio destro di
s. Ignazio di Loyola. Non ancora
quarantenne,
questo gesuita
aveva convertito
da solo quasi un
milione di persone
in Oriente.
Accompagnato da un
interprete,
predicava sulle
piazze il Vangelo
di Matteo, che
aveva imparato a
memoria in
giapponese. La
diffidenza
iniziale si
tramutò in
curiosità quando
un astante sputò
in faccia al suo
compagno. Questi
si asciugò
rimanendo
impassibile. Il
fatto colpì i
giapponesi, che
apprezzavano
moltissimo il
dominio di sé. Col
tempo, il santo si
rese conto che
erano i suoi abiti
dimessi a destare
disprezzo. Così,
si procurò un
abito più degno e
l'avvehtura
cominciò. In pochi
anni il
cristianesimo in
versione cattolica
divenne una
presenza di tutto
rispetto in
Giappone. Il
Kyushu era
interamente
kirishitan,
cristiano, con
epicentri nelle
città di Hiroshima
e Nagasaki, e la
cosa andava avanti
con crescita
esponenziale. Fino
a quando certi
trafficanti
europei,
protéstanti,
instillarono nei
regnanti della
dinastia Togukawa
il sospetto che la
penetrazione
religiosa del
cattolicesimo
fosse solo il
prodromo di
qualcosa di
peggio, dal punto
di vista politico,
da parte degli
imperi spagnolo e
portoghese. Gli
editti persecutori
non tardarono e
Nagasaki divenne
famosa come" la
collina dei
martiri" per i
roghi, le
crocifissioni, le
morti in acqua
gelata e tutto
quel che la
fantasia
orientale, maestra
nell'infliggere
tormenti,
escogitava via
via. I cristiani
locali entrarono
nelle catacombe e
continuarono a
venerare le loro
icone camuffandole
sotto immagini di
divinità pagane:
per esempio, la
Madonna divenne la
dea Amaterasu.
Nel 1640 il
cristianesimo
giapponese era
ufficialmente
estinto. Solo nel
XIX secolo, sotto
la minaccia delle
cannoniere
americane del
commodoro Perry,
il Giappone
consentì a
riaprirsi ai
traffici
occidentali e
all'invio di
missionari.
Molti di questi
rimasero stupiti
di trovare ancora
cristiani. E ancor
più si stupirono
quando questi li
sottoposero a un
esame di
"cattolicità".
Infatti, gli
indigeni si erano
tramandati di
padre in figlio
una perfetta
distinzione tra
cattolicesimo e
protestantesimo.
Ma facciamo un
passo indietro e
torniamo a
Nagasaki.
A circa settanta
chilometri dalla
città sta una
penisoletta,
Shimabara, su cui
sorgeva una
fortezza chiamata
Hara. Nel 1577,
sfidando le leggi
imperiali, il
daimyo locale e
tutta la
cittadinanza
avevano chiesto il
battesimo. Erano
seguiti vent'anni
di mattanza e,
alla fine,
Shimabara era
stata assegnata al
nemico giurato del
cristianesimo
giapponese,
Matsukura. Costui
si ritrovò a
signoreggiare una
zona ostile (per
questo avevano
mandato proprio
lui), diventata il
punto di
confluenza di
tutti i cristiani
perseguitati
altrove.
Soprattutto di
ronin. Veniva
detto·ronin un
samurai che non
aveva più un
signore al cui
servizio
combattere. Sorta
di cavalieri di
ventura, vagavano
alla ricerca di
ingaggio. Quelli
di Shimabara erano
rimasti
disoccupati perché
cristiani.
Ora, la situazione
da quelle parti
era, sì, pesante
ma non solo per i
credenti. In
Giappone le tasse
gravavano sui soli
contadini ed erano
una pletora: sulle
porte, sulle
mensole, su ogni
fuoco, perfino
sulle nascite e le
morti. Il
pagamento doveva
venire effettuato
in riso, cosa che
rendeva la
semicarestia
perenne. Gli
evasori venivano
ricoperti da un
mantello di fibra
vegetale, il mino;
poi, legate loro
le braccia, si
appiccava il
fuoco, così che
quei disgraziati,
saltando e
contorcendosi,
erano costretti a
prodursi nel mino
odori, il "ballo
del mino".
La punizione
colpiva anche le
famiglie: mogli e
figlie, denudate,
venivano tenute
immerse nell'acqua
gelida fino alla
morte. Nell'anno
1637 la fame era
giunta a livelli
insopportabili.
Due capi di
villaggio (shoya,
ex guerrieri
ritiratisi
dall'attività)
provarono a
protestare ma
ebbero, uno, la
moglie incinta
uccisa col sistema
dell'acqua;
l'altro, la figlia
esposta nuda e poi
marchiata con
ferri roventi. Il
giorno precedente
alla festa
cristiana
dell'Ascensione un
contadino vide che
attorno all'icona
che venerava di
nascosto si era
materializzata una
fastosa cornice.
Attirati dal
miracolo parecchi
cristiani si
portarono nella
sua casa. Ma la
notizia si sparse
e arrivarono le
guardie. Tutti i
presenti vennero
presi e
giustiziati. Era
troppo. Il giorno
dopo, i cristiani
uscirono allo
scoperto e
piantarono al
centro della
piazza una grande
bandiera bianca
con una croce
rossa sopra. Anche
i pagani si
unirono alla
protesta perché
per la mentalità
giapponese le
motivazioni
religiose erano
più nobili di
quelle fiscali.
Quando il
responsabile
dell'ordine
pubblico
sopraggiunse finì
linciato e scoppiò
la rivolta.
Duecento ronin e
parecchi shoya
ripresero le armi
e dilagarono per i
villaggi. Elessero
come loro capo il
giovane Amakusa
Shiro per due
motivi. Il primo
era questo: era
figlio di Masuda
Yoshitsegu,
grandissimo
guerriero
diventato famoso
al tempo delle
guerre che avevano
dato il potere ai
Togukawa; veniva
chiamato col nome
leggendario di
Amakusa Jinbei.
Masuda, che era
cristiano, aveva
disobbedito agli
editti persecutori
e si era messo a
percorrere il
Giappone
predicando Cristo.
Naturalmente,
nessuno osava
affrontarlo.
Girava portandosi
dietro il
figlioletto dentro
una specie di
carrozzina di
legno (la sua
figura ha ispirato
una serie di
telefilm). Il
secondo motivo che
indicava Shiro
come leader era
una strana
profezia: un
gesuita, espulso
dal Giappone
venticinque anni
prima, aveva
lasciato una
specie di poesia
diventata ben nota
fra i cristiani
giapponesi: in
essa era predetto
l'arrivo di un
ragazzo ame no
tsukai, "inviato
dal Cielo", che
avrebbe riscattato
la fede in quelle
terre. Infatti, il
giovanissimo Shiro
aveva seguito le
orme paterne come
predicatore.
Quando la faccenda
si fece seria, il
bakufu di Edo (la
capitale
imperiale, oggi si
chiama Tokio)
inviò le truppe al
comando dello
shogun Itakura
Shigemasa. Poi
fece arrestare e
torturare la madre
e le sorelle di
Shiro. Appena la
notizia
dell'arrivo degli
imperiali giunse
al campo dei
ribelli, Shiro
chiese a tutti
quelli che
volevano resistere
di seguirlo nel
castello di Hara.
Così, oltre
cinquantamila
persone, con donne
e bambini, si
asserragliarono
nella fortezza e
attesero. Non
c'era alternativa:
le uniche armi a
disposizione erano
quelle, leggere,
dei ronin, mentre
il nemico aveva
anche i cannoni.
li spalti si
riempirono di
crocifissi, di
stendardi bianchi
con la croce, di
bandiere con
sanchiyago,
Sanfuranshisuko,
Marya, Yesu (s.
Giacomo, s.
Francesco, Maria e
Gesù). Ogni tre
giorni Shiro
riuniva tutti
nella piazza
d'armi e
pronunciava
un'esortazione
religiosa da
omoikiritaru
kirishitan
("cristiano
devoto") in vista
del gosho (la vita
eterna).
Nel frattempo, i
governativi
incendiavano tutti
i villaggi attorno
e ne sterminavano
gli abitanti.
Quando ebbero
fatto terra
bruciata attorno
ad Hara, cominciò
l'assedio vero e
proprio.
Centomila soldati,
agli ordini di
vari signori (tra
cui Matsukura), si
accamparono
attorno mentre
venivano
apprestate le
torri d'assedio.
Lo spettacolo era
in stile: nel
campo degli
imperiali, risse,
duelli, uccisioni
a causa delle
rispettive
rivalità di
appartenenza
feudale; in quello
assediato si
sentivano solo
inni e preghiere
corali. I
cristiani
avrebbero potuto
fare strage degli
operai costretti
dalle corvées
obbligatorie a
scavare ed erigere
terrapieni. Invece
si limitarono a
far piovere nel
campo nemico
yabumi, frecce con
fogli arrotolati
attorno, ove
spiegavano per
iscritto le loro
ragioni. Del[a
pietà cristiana
nei confronti dei
poveracci forzati
a lavorare sotto
le mura cercarono
di trarre profitto
gli imperiali: un
centinaio di
ninjutsukai("uomini
invisibili", gli
assassini di
professione che il
cinema ha
mitizzato col nome
di ninja) si
introdussero, col
favore delle
tenebre, nel
castello. Ma ne
tornarono solo
due. Non solo. In
un paio di riprese
gli assediati
riuscirono, con
sortite micidiali,
a portare
scompiglio nel
campo avversario.
A quel punto
intervenne
Matsudaira
Nobutsuma, il
luogotenente
dell'imperatore,
che guidò
personalmente i
rinforzi.
Incredibilmente
anche questo nuovo
attacco venne
respinto.
L'infuriato
Shigemasa allora
ordinò l'attacco
generale che volle
condurre in prima
fila. Finì ucciso
insieme a
quattromila dei
suoi uomini
migliori. Ormai la
situazione era
grottesca: un
esercito
sterminato non
riusciva ad aver
ragione di un
pugno di contadini
praticamente senza
armi. Il disonore
era assicurato e
tutti gli occhi
dell'arcipelago
erano puntati su
Shimabara. Per
salvare la faccia
l'imperatore
concesse clemenza
e il perdono per
chi si fosse
arreso. Aggiunse
anche la promessa
di una generosa
distribuzione di
riso. Ma quelli
fecero sapere che
volevano solo una
cosa: poter
professare
liberamente la
loro religione
così come era
permesso ai
buddhisti, ai
taoisti, ai
confuciani e agli
shintoisti.
L'imperatore, che
non poteva
permettersi di
rimangiarsi il suo
editto, fece
tornare le
trattative in alto
mare. Già, il
mare.
Proprio da quella
parte arrivò il
pericolo. I
mercanti olandesi,
protestanti,
furono ingiunti di
fornire man forte
agli imperiali se
volevano
continuare a
commerciare col
Giappone.
Così, il balivo
Nicolaus
Couckebaker mandò
una nave a
cannoneggiare Hara
per due settimane
di fila. Quando
gli spalti furono
completamente
smantellati e gran
parte delle mura
erano crollate,
vennero portate
avanti, legate, la
madre e le sorelle
di Shiro. Era
l'ultima offerta.
Che fu rifiutata.
Partì l'assalto
finale, che durò
due giorni e due
notti. Ormai quasi
tutti i ronin
erano morti e così
gli shoya. Anche
il cibo era finito
da un pezzo.
L'ultima
resistenza fu
disperata: i
cristiani, anche
le donne e i
feriti,
combatterono con
quel che avevano
sottomano,
scodelle, bastoni,
sedie.
Nessuno
sopravvisse. La
spiaggia si
ricoprì di
undicimila pali su
cui stavano
conficcate
altrettante teste.
Le rimanenti
vennero ammassate
su tre navi,
insieme ai nasi
tagliati delle
donne, per essere
portate come
trofeo a Edo. Ma
gli imperiali
avevano perso
oltre settantamila
uomini armati,
addestrati e
perfettamente
equipaggiati. La
penisola venne
colonizzata da
confuciani e
buddhisti mentre
il Giappone
entrava nel sakoku,
la chiusura di due
secoli al mondo
esterno.
Purtroppo, per
Nagasaki (e
Hiroshima) non
sarebbe stato,
quello, l'ultimo
martirio.
IL TIMONE N. 27 -
ANNO V -
Settembre/Ottobre
2003 - pag. 18 -
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