Melchisedech
II millennio a.C.
“Melchisedech, re di
Salem, offrì pane e
vino: era sacerdote
del Dio altissimo e
benedisse Abramo con
queste parole: Sia
benedetto Abramo dal
Dio altissimo,
creatore del cielo e
della terra e
benedetto sia il Dio
altissimo, che ti ha
messo in mano i tuoi
nemici”. Così il libro
della Genesi
(14,18-20) cita questo
misterioso
personaggio, vissuto
verso il secondo
millennio avanti
Cristo, re cananeo di
Salem, nome arcaico
della futura città di
Gerusalemme e capitale
del re Davide, ed al
tempo stesso sacerdote
della divinità locale
el-'eljòn, cioè “Dio
altissimo”.
I segni del pane e del
vino, che Melchisedech
presentò al patriarca
biblico Abramo, per il
cristiano divennero
segno di un più alto
mistero, quello
dell’Eucaristia.
Proprio in tale nuova
luce l’episodio di
Melchisedech acquista
un nuovo significato
rispetto a quello
originario. Per
l’autore della Genesi
infatti l’offerta di
pane e vino ad Abramo
ed alle sue truppe
affamate, di passaggio
nel territorio del re
di Salem tornando da
una spedizione
militare contro i
quattro sovrani
orientali per liberare
il nipote Lot, è
intesa quale segno di
ospitalità, di
sicurezza e di
permesso di transito.
Il territorio di Salem
e quindi Gerusalemme
saranno infatti
strappati come è assai
noto ai Gebusei solo
secoli dopo dal re
Davide. Abramo accettò
il benevolo gesto di
Melkisedech e ricambiò
con la decima del
bottino di guerra,
così da attuare un
sorta di patto
bilaterale.
La seconda citazione
antico testamentaria è
data dal Salmo 110,4,
nel quale a proposito
del re davidico si
dice: “Tu sei
sacerdote per sempre,
al modo di Melkisedech”,
forse per assicurare
anche al sovrano di
Gerusalemine una
qualità sacerdotale,
differente dal
sacerdozio levitino,
in quanto Davide ed i
suoi successori
appartennero alla
tribù di Giuda anziché
a quella sacerdotale
di Levi.
Sin qui il cuore
storico del racconto,
per altro non esente
da interrogativi e da
questioni esegetiche
che dilungherebbero
però eccessivamente la
presente trattazione.
E’ invece interessante
evidenziare la
simbologia che il re
di Salem ha acquisito
dalla successiva
tradizione
cristiana.Nel Nuovo
Testamento la Lettera
agli Ebrei (cap. 7)
iniziò infatti ad
intravedere in
Melchisedech il
profilo Gesù Cristo,
sacerdote perfetto.
Infatti l’autore
neotestamentario di
tale libro, volendo
presentare Cristo come
sacerdote in modo
unico e nuovo rispetto
all’antico sacerdozio
ebraico, decise di
ricorrere proprio
all’antica figura di
Melkisedech. Questo
nome significa infatti
“il Re, cioè Dio, è
giustizia”, mentre “re
di Salem” vuol dire
“re di pace”. Si
coniugano così nel
re-sacerdote i due
doni messianici per
eccellenza: la
giustizia e la pace.
Rimarcando poi il
fatto che Abramo si
sia lasciato benedire
da lui, riconoscendone
perciò la supremazia,
afferma implicitamente
la superiorità del
sacerdozio di
Melkisedech rispetto a
quello di Levi
discentente di Abramo.
Non resta dunque così
che concludere che
Cristo, discendente
davidico, è “sacerdote
in eterno alla maniera
di Melkisedech”,
proprio come predetto
dal Salmo 110. È
dunque in questa luce
che la tradizione
cristiana non esitò a
riconoscere nel pane e
nel vino offerti dal
re di Salem ad Abramo
una profezia
dell’Eucaristia.
Il celebre padre
Turoldo, religioso e
poeta del XX secolo,
cantò infatti:
“Nessuno ha mai saputo
di lui, donde venisse,
chi fosse suo padre;
questo soltanto
sappiamo: che era il
sacerdote del Dio
altissimo. Era figura
di un altro, l’atteso,
il solo re che ci
liberi e ci salvi: un
re che preghi per
l’uomo e lo ami, ma
che vada a morire per
gli altri; uno che si
offra nel pane e nel
vino al Dio altissimo
in segno di grazie: il
pane e il vino di
uomini liberi, dietro
Abramo da sempre in
cammino”.In
quest’ottica
Melchisedech entrò a
far parte anche del
patrimonio liturgico
latino, tanto da
meritarsi una
citazione nel
cosiddetto Canone
Romano, cioè dopo il
Concilio Vaticano II
la Preghiera
Eucaristica I: “Tu che
hai voluto accettare i
doni di Abele il
giusto, il sacrificio
di Abramo, nostro
padre nella fede, e
l’oblazione pura e
santa di Melchisedech,
tuo sommo sacerdote,
volgi sulla nostra
offerta il tuo sguardo
sereno e benigno”.Ciò
comporto una certa
influenza anche
nell’ambito
iconografico ed in
tale direzione sono da
segnalare i mosaici
della basilica romana
di Santa Maria
Maggiore, risalenti al
V secolo, in cui la
scena di Melchisedech
è stata collocata nei
pressi dell’altare al
fine di meglio
sottolineare il legame
intrinseco con
l’Eucaristia. Inoltre
sulla parete interna
della facciata della
cattedrale di Reims,
XIII secolo, è
raffigurato l’incontro
tra Abramo e il re
sacerdote proprio come
se si trattasse della
comunione eucaristica.
Infine si cita Rubens
che nel ‘600 inserì la
scena biblica in un
arazzo intitolato “Il
trionfo
dell’Eucaristia”. Il
pane e il vino sono
infatti ormai
definitivamente intesi
come quelli deposti
sulla tavola
dell’ultima cena da
Gesù e la spiegazione
del loro valore è
costituita dalle
parole che Cristo
stesso pronunziò nella
sinagoga di Cafarnao:
“Se uno mangia di
questo pane vivrà in
eterno e il pane che
io darò è la mia carne
per la vita del mondo.
[…] Chi mangia la mia
carne e beve il mio
sangue dimora in me io
in lui” (Gv 6,51.56).
Venerato come santo,
Mechisedech viene
ricordato l’8
settembre nel
calendario della
Chiesa Etiopica,
mentre il nuovo
Martyrologium Romanum
ha inserito in data 26
agosto la
“Commemorazione di San
Mechisedech, re di
Salem e sacerdote del
Dio altissimo, il
quale benedicendo
salutò Abramo che
ritornava vittorioso
dalla guerra. Offrì a
Dio un santo
sacrificio, una
vittima immacolata.
Viene visto come
figura di Cristo re di
giustizia, di pace e
eterno sacerdote,
senza genealogia”.
Tratto da
www.santiebeati.it
UN RITRATTO DI
MELCHISEDECH
L’articolo è tratto da
Jean Daniélou, I santi
pagani dell’Antico
Testamento, trad. it.
a cura di F. Savoldi,
Queriniana, Brescia
1988, pp. 107-113 (ed.
or. Paris 1956).
Tra le grandi figure
non ebraiche
dell’Antico
Testamento,
Mechisedech è una
delle più eminenti. La
Genesi non gli
consacra che un breve
paragrafo, carico però
di significato
(14,18-20), il Salmo
109 ci mostra in lui
il modello del
«sacerdote eterno», la
Lettera agli Ebrei gli
consacra numerosi
passi. I Giudei
cercheranno di
diminuirlo a profitto
di Abramo [1]. Ma i
cristiani esaltano in
lui l’immagine del
sacerdozio del Cristo
e le primizie della
Chiesa delle nazioni
[2].
La festa di san
Melchisedech è
celebrata il 25
aprile. Una chiesa gli
è consacrata a Salem
di Samaria, che la
pellegrina Eteria
visita nel IV secolo
(Cronaca del viaggio,
13-14). La Preghiera
eucaristica I menziona
il suo sacrificio tra
quelli di Abele e di
Abramo.
Attorno alle brevi e
misteriose righe della
Genesi, si
costruiscono
meravigliose leggende.
Il Libro dei Segreti
di Enoc, uno scritto
giudeo- cristiano del
secondo secolo, gli
attribuisce una
concezione miracolosa
e lo mostra sottratto
alla morte e sollevato
in Cielo
dall’Arcangelo Michele
[3]. La Caverna dei
tesori siriaca ne fa
un precursore di
Giovanni Battista [4].
Alcuni gnostici, i
Melchisedechiani,
vedranno in lui una
manifestazione dello
Spirito santo [5].
Ma la realtà è ancor
più mirabile.
Melchisedech è il
grande Sacerdote della
religione cosmica.
Egli raccoglie in sé
tutto il valore
religioso dei
sacrifici offerti
dalle origini del
mondo sino ad Abramo e
attesta il gradimento
di Dio. Melchisedech è
«il sacerdote
dell’Altissimo, che ha
fatto il cielo e la
terra» (Gen. 14,13).
Egli conosce il vero
Dio, non sotto il nome
di Jahvé, che sarà
rivelato a Mose per
esprimere le ricchezze
nuove che l’alleanza
manifesta, ma sotto il
nome di El, che è
quello del Dio
creatore, conosciuto
attraverso la sua
azione nel mondo. Ed è
questa un’ulteriore
attestazione della
conoscenza di Dio
attraverso il cosmo
che già Enoc ci aveva
mostrato.
Melchisedech è
sacerdote di questa
prima religione
dell’umanità, che non
è limitata ad Israele,
ma che abbraccia tutti
i popoli. Egli non
offre il sacrificio
nel Tempio di
Gerusalemme, ma il
mondo intero è il
Tempio da cui si
innalza l’incenso
della preghiera [6].
Egli non offre il
sangue dei montoni e
dei tori, il
sacrificio espiatorio,
ma offre la pura
oblazione del pane e
del vino, il
sacrificio di
ringraziamento.
Ed è proprio il
ringraziamento che
egli offre, per la
vittoria di Abramo, al
quale Dio lo ha
inviato. Egli riceve
la decima da Abramo,
cioè la parte
prelevata su tutti i
beni, per servire al
culto di Dio. Se
Abramo è l’iniziatore
di un’alleanza nuova e
più perfetta, rende
però omaggio alla
legittimità di questa
prima alleanza tra le
mani del suo gran
sacerdote.
Ci si ricorda, in un
altro momento della
storia, di Gesù che
riceve sulle rive del
Giordano il battesimo
da Giovanni Battista
prima di vederlo
inchinarsi davanti a
lui [7]. Egli è re e
sacerdote raccogliendo
in sé le due unzioni
che saranno divise,
tra David e Aronne, e
non saranno più
raccolte che in Gesù.
Così, senza alcun
bisogno di fare
appello alla leggenda,
ci appare la grandezza
di Melchisedech.
Il sacrificio è
l’azione religiosa per
eccellenza, l’atto con
il quale l’uomo
riconosce il sovrano
dominio di Dio su di
sé e su tutte le cose,
con l’offerta delle
primizie dei suoi
beni, come faceva
Abele, agli inizi del
mondo, offrendo le
primizie dei suoi
greggi. Così, alle
origini dell’umanità,
sorgono i due gesti
essenziali. Abele che
inventa il rito e
Caino che fabbrica
l’utensile, i due
gesti le cui vestigia
attesteranno dopo
millenni la presenza
dell’uomo.
Dappertutto dove vi è
sacrificio vi è
religione, e dove non
vi è sacrificio,
azione sacerdotale,
non vi è religione. La
religione è infatti
l’atto stesso per cui
l’uomo riconosce la
sua totale
appartenenza a Dio. E
il sacrificio è
l’espressione
visibile, il
sacramento di questo
atto interiore di
adorazione.
Questo gesto lo
ritroviamo presso
tutti i popoli del
mondo. Esso appare
nella forma più
elementare nei popoli
dell’Africa o dell’
Australia, raggiunge
la più alta vetta
d’interiorità in India
dove Brahma, il flamen
latino, diviene un
nome della divinità.
Esso rivestirà a volte
forme barbare, nel
sacrificio di
fanciulli al Moloch
fenicio o nei
sacrifici di
prigionieri alle
divinità azteche. Ma
per quanto ingenuo o
pervertito, esso
resterà sempre
l’espressione dell’
esigenza più
irreprimibile
dell’uomo, quella di
mantenere il suo
legame con Dio da cui
proviene, e che è la
ratifica stessa della
sua esistenza.
La grandezza di
Melchisedech non è
solo di essere la più
perfetta espressione
del suo ordine
proprio, ma di essere
la figura di colui che
sarà il gran sacerdote
eterno e che offrirà
il perfetto
sacrificio. È quanto
annunciava, in un
testo importantissimo,
il Salmo 109: «Tu sei
sacerdote in eterno,
secondo l’ordine di
Melchisedech». Il
Salmista annunciava
così che alla fine dei
tempi sarebbe apparso
l’ultimo grande
sacerdote, colui che
sarebbe stato il gran
sacerdote in eterno,
perché avrebbe
esaurito la realtà del
sacerdozio e perché
non sarebbe stata
possibile l’esistenza
di altri dopo di lui.
È questo testo che la
Lettera agli Ebrei
applicherà a Gesù,
attestando come si
realizzi in Lui (4,6).
Bisogna rileggere il
testo straordinario in
cui la Lettera agli
Ebrei ci mostra in
Melchisedech la figura
del Cristo: «Or questo
Melchisedech, re di
Salem, Sacerdote del
Dio Altissimo, che
andò incontro ad
Abramo, mentre
ritornava dopo aver
sconfitto vari re e lo
benedì, a cui Abramo
dette la decima di
ogni cosa, il cui nome
significa prima di
tutto “Re di
giustizia”, e per di
più è Re di Salem,
cioè “Re di pace”,
senza padre, madre,
senza antenati, e del
quale si ignora il
principio e la fine,
questo Melchisedech,
vera figura del Figlio
di Dio, rimane
sacerdote per sempre»
(7,1-3).
Così per Paolo i
titoli stessi di
Melchisedech si
caricano di un
misterioso simbolismo,
la giustizia e la pace
si riuniscono in lui,
la giustizia e la pace
di cui il Salmo 84,11
dice che si sono
abbracciate. Non è
però questo il fatto
più strano. Paolo
sembra mostrarci
Melchisedech quasi
sorgente nel mondo
«senza padre e senza
madre». Non ne fa in
qualche modo un
personaggio celeste?
In realtà Paolo parte
qui dal fatto notevole
che a differenza degli
altri personaggi della
Bibbia, di cui ci
vengono date lunghe
genealogie,
Melchisedech non è
collegato ad alcuna
razza e non gli si dà
alcuna discendenza.
Ciò non significa
minimamente, per
Paolo, che egli non
abbia avuto in realtà
antenati e
discendenti. Ma
l’assenza di una loro
menzione nella Bibbia
appare a Paolo come
una figura di colui
che non avrà padre
perché viene dal
cielo, e che non si
iscriverà in una
successione
sacerdotale [8].
San Paolo vuol
sottolineare qui un
tratto essenziale del
sacerdozio di Cristo,
che è di essere
definitivo, in modo
che egli è il gran
sacerdote eterno, dopo
il quale non ve n’è un
altro. Per questo
oppone il sacerdozio
di Melchisedech, che
non rientra in una
successione, a quello
di Aronne, che invece
vi rientrava. La
successione dei
sacerdoti nel
sacerdozio levitico ne
sottolineava
l’imperfezione: «Se la
perfezione fosse stata
realizzata con il
sacerdozio levitico,
quale necessità c’era
che sorgesse un altro
sacerdote, secondo
l’ordine di
Melchisedech?» (Eb
7,11).
Essi avevano dei
predecessori e
dovevano avere dei
successori: «I
sacerdoti ebrei
formano una lunga
serie, perché la morte
impediva loro di
essere duraturi» (7,23
) [9]. A ciò si oppone
il sacerdozio del
Cristo: «Gran
sacerdote dei beni
futuri, è entrato una
volta per sempre nel
Santuario dei cieli,
dopo averci ottenuta
una redenzione eterna»
(9,11).
Egli è sacerdote per
sempre, poiché il
sacrificio che ha
offerto è acquisito
per sempre. I
sacrifici che venivano
offerti fino ad allora
esprimevano lo sforzo
dell’uomo di
riconoscere la
sovranità divina. Ma
il loro sforzo non
aveva successo a causa
dell’eccessiva
sproporzione tra la
fragilità dell’uomo e
la santità di Dio.
Sacrifici pagani di
Melchisedech,
sacrifici ebraici di
Aronne, tutti si
urtavano contro la
soglia invalicabile.
Essi non penetravano
nel santuario, e la
loro stessa
ripetizione ne
attestava il
fallimento.
Per questo, nella
pienezza dei tempi, il
Figlio di Dio, unito
alla natura dell’uomo
da un legame
indistruttibile, si è
fatto obbediente fino
alla morte e fino alla
morte della croce,
manifestando con la
sua obbedienza
l’infinita amabilità
della volontà divina e
rendendo così a Dio
una gloria perfetta.
Ora la gloria di Dio è
il fine stesso della
creazione.
Così, nell’azione
sacerdotale di Gesù
Cristo, Dio è stato
perfettamente
glorificato in modo
che nessuna gloria
nuova gli può essere
data. Tutti gli altri
sacrifici sono così
aboliti e noi non
potremo ormai offrire
al Padre che l’unico
sacrificio di Gesù
Cristo, di cui ogni
eucaristia è il
sacramento attraverso
l’unico sacerdozio di
Gesù Cristo, di cui
ogni sacerdozio è la
partecipazione.
Abolendo però così
tutti i sacrifici
antichi, Gesù Cristo
non li distrugge, ma
li compie. Attraverso
lui tutti i sacrifici
di tutte le nazioni,
ogni sforzo dell’uomo
per glorificare Dio è
rivolto al Padre e
giunge sino a Lui:
«Per ipsum et cum ipso
et in ipso est tibi
Deo Patri omnipotenti
omnis honor et
gloria».
E la menzione del
sacrificio di
Melchisedech, «sanctum
sacrificium,
immaculatam hostiam»,
nella Preghiera
eucaristica I, attesta
che non sono solo i
sacrifici del Tempio
d’Israele, ma anche
quelli del mondo
pagano che sono così
ripresi e assunti nel
sacrificio del Sommo
Sacerdote eterno.
***
NOTE
[1] M. Simon,
Melchisédech dans la
polémique entre juifs
et chrétiens,
in Rev. Hist. Phil.
Relig. (1937), pp. 58
e sgg.
[2] Vd. G. Wuttke,
Melchisedech des
Priestkönig von Salem,
Giessen
1927.
[3] Ed. Vaillant, pp.
81-85.
[4] M. Simon, art.
cit., pp. 87-91.
[5] G. Bardy,
Melchisedech dans la
tradition patristique,
in Rev.
Bibl.
(1926), pp. 596-610;
1927, pp. 25-45; B.
Capelle, Notes de
théologie ambrosienne,
in R.T.A.M. (1931),
pp. 183-190.
[6] Vd. J. Daniélou,
Le signe du Temple,
pp. 9-14.
[7] Vd. J. Daniélou,
Le mystère de l’Avent,
pp. 60-79, dove tutto
è
più ampiamente
sviluppato.
[8] Vd. G.T. Kennedy,
St. Paul’s Conception
of the Priesthood of
Melchisedech,
Washington 1951, pp.
71-107.
[9] Vd. C. Spicq, L’Épitre
aux Hébreux, II, pp.
181-214.
dal sito
www.letterepaoline.it
- 15 ottobre 2009 |