Ormai è diventato
dominante, nella mentalità di questa nostra società,
affermare che il valore delle scelte non sta nel loro
contenuto specifico ma dipende dall'intensità,
dall'affezione, dalla sincerità, dalla permanenza di
benessere che queste scelte assicurano. Siamo in pieno
soggettivismo etico.
Questo vuoi dire che la famiglia naturale, quella fondata
sul matrimonio - una, indissolubile, feconda, con la
responsabilità della procreazione e dell'educazione,
quella su cui i padri costituenti, tanto omaggiati e
osannati, hanno fondato la nostra società - è diventata
una mera scelta. Una scelta che qualcuno può fare se
ritiene che tale tipologia lo soddisfi.
Anche la famiglia cattolica, che sostanzialmente ha la
stessa dinamica della famiglia naturale ma possiede in più
una rivelazione adeguata della natura della famiglia
stessa e soprattutto l'indicazione di un compito e gli
aiuti che la Grazia dona per attuare pienamente tale
vocazione, è un'altra scelta possibile, che ha le stesse
motivazioni della prima, cioè di immediata corrispondenza.
Poi ci sono le convivenze: anch'esse hanno la stessa
dignità perché sono fatte per corrispondere immediatamente
ai propri istinti, desideri e programmi. Poi c'è la coppia
omosessuale: anch'essa ha la sua dignità che, appunto,
deriva dalle condizioni psico-affettive o sociali per cui
è fatta.
In questo bailamme l'ecclesiasticità italiana rischia di
subire come contraccolpo il fatto che la famiglia
cristiana è difesa in quanto una tra le opzioni possibili
ma non entra in dialettica con nessun'altra fondazione.
Come dire: noi che siamo bravi, che siamo intelligenti,
che abbiamo la fede, che abbiamo anche un pizzico di
eroismo per restare fedeli agli impegni del matrimonio,
possiamo farlo. Gli altri che non vogliono farlo, non lo
fanno e chiuso.
È necessario, a mio parere, che il mondo cattolico
riprenda con vigore quella che il mio maestro, mons.
Giussani, chiamava «la priorità dell'ontologia
sull'etica». C'è un'impostazione globale della realtà
umana, storica, naturale, sociale. Una è la posizione che
è pienamente nella linea della Rivelazione e quindi in
corrispondenza con le esigenze del cuore umano. Il
pluralismo di fatto, che nessuno, e tanto meno il
sottoscritto, si sogna di contestare, non conferisce
valore alle scelte errate che soggettivamente si possono
fare.
La carenza del senso dell'oggettività del reale è una
conseguenza della carenza della ragione e certamente,
oggi, il pericolo non è l'eccesso di fede ma la debolezza
della ragione. Forse se i vescovi cattolici e i sacerdoti
non solo riprendessero a fondo la Fides et Ratto del beato
Giovanni Paolo II ma, in questo anno della fede, la
facessero diventare uno strumento sistematico di
insegnamento, si potrebbe ovviare a quello che è, secondo
me, l'equivoco più grande della nostra società.
Se si concepisce la Chiesa come una struttura sociale
nella quale ciascuno ha tutti i diritti possibili, e
quindi l'autorità diventa in qualche modo la controparte
sindacale di questi detentori di diritti totali, viene
alterata la natura stessa della Chiesa, come ci hanno
ricordato tante volte Benedetto XVI e papa Francesco. La
Chiesa è una realtà organica alla quale si partecipa
totalmente nella misura in cui si accettano le regole che
lo stesso Gesù Cristo ha fissato.
Se il Signore Gesù Cristo ha stabilito che condizione sine
qua non per partecipare validamente all'Eucaristia, che è
fons et culmen totius vitae christianae, è una regolarità
di posizione matrimoniale, diventa perfettamente inutile
che ogni giorno noi siamo assediati da torme di persone
che chiedono il diritto alla Comunione. Ma soprattutto è
grave che noi cominciamo a pensare alla concessione
dell'Eucaristia a coloro che oggettivamente si sono messi
in posizione contraddittoria, a come favorirli, magari in
maniera soft, nel potere partecipare a questi diritti.
Il card. Scola nella sua bellissima relazione generale al
Sinodo dei vescovi sull'Eucaristia e soprattutto le
limpide prese di posizione di Benedetto XVI all'Incontro
mondiale delle famiglie a Milano, a me sembrava che
avessero una volta ancora e definitivamente chiuso la
questione. In ogni caso il problema dei nostri fratelli
divorziati o separati che intendono partecipare, per
quanto in modo contratto, a certi momenti significativi
della vita della Chiesa da cui certamente non sono
esclusi, esige l'impegno di un itinerario da fare con
loro.
Questo è faticoso; non il combattere, anche da parte del
clero, per il riconoscimento o la concessione di certi
diritti che non possono essere né riconosciuti né
concessi, poiché sono state violate le condizioni
essenziali per partecipare in pienezza alla vita della
Chiesa.
Io sono molto colpito in questi tempi dalla necessità di
dover richiamare cose come queste, che sono di assoluto
buon senso ancor prima che di coscienza cristiana. Forse
aveva ragione il Manzoni quando diceva, all'epoca della
grande peste di Milano, che il buon senso si era tenuto
nascosto e prevaleva il senso comune che è la cosa più
equivoca, più generica, più manipolabile e più falsa che
la società possa produrre |