«I
cristiani che si vergognano delle
Crociate sono succubi del laicismo
dominante»
di Luigi
Negri
Caro don
Pichetto,
ti scrivo queste righe cercando di
rispondere al tuo intervento sulle
Crociate.
In effetti tu parli di Crociate che
non sono mai esistite: Crociate
sostenute dalla nascente borghesia,
che come ognun sa, alla fine dell’XI
secolo - quando la prima Crociata fu
bandita – non c’era nella società
europea, o comunque era una
minoranza con un potere
limitatissimo.
E poi riprendi le Crociate come
progetto di imposizione violenta del
Cristianesimo a popolazioni
straniere.
Non tocca a me rifare il punto su
questa vicenda secolare su cui la
migliore storiografia, e non solo
quella cattolica, ha dato un
contributo decisivo.
Per dirla con il mio grande amico
Franco Cardini, le Crociate sono
state un grande «pellegrinaggio
armato», protagonista del quale fu,
nei secoli, il popolo cristiano nel
suo complesso.
Una avanguardia di santi, una massa
di cristiani comuni e, nella
retroguardia, qualche delinquente.
Non so quale avvenimento della
Chiesa possa sfuggire a una lettura
come questa.
Sta di fatto che noi – cristiani del
Terzo millennio – alle Crociate
dobbiamo molto.
Dobbiamo che non si sia perduta la
possibilità dei grandi pellegrinaggi
in Terrasanta: nei luoghi della vita
storica di Gesù Cristo e della
nascita della Chiesa.
Alle Crociate dobbiamo che si sia
ritardata la fine della grande
epopea della civiltà bizantina di
almeno due secoli, e si sono
soprattutto salvate dalla
dominazione turca le regioni della
nostra bella Italia, che si
affacciano sul mare Adriatico,
Tirreno e Ionio, falcidiate da
quelle sistematiche incursioni di
corsari e di turchi che hanno
depauperato nei secoli le nostre
popolazioni.
Anche la tua bella Liguria ha dovuto
costruire parte dei suoi paesi e
delle sue piccole città a due
livelli - il livello del mare e il
livello della montagna - per poter
sfuggire a queste invasioni che
hanno fatto morire nel buio della
cosiddetta civiltà araba e islamica
centinaia e migliaia di nostri
fratelli cristiani, a cui era stata
tolta anche la dignità umana e di
cui noi facciamo così fatica a fare
memoria.
Nessuna realtà cristiana esprime la
perfezione della fede che è solo in
Gesù Cristo, ma nessuna esperienza
cristiana è invincibilmente
diabolica. Passare dalla fede alle
opere è compito fondamentale del
cristiano di ogni tempo.
Ora, per recuperare questa bellezza
della storia cristiana bisogna
guardare la realtà secondo tutta
l’ampiezza cattolica. La mia
generazione e quella di molti amici
dopo di me - che per l’intelligenza
e l’apertura di monsignor Luigi
Giussani hanno potuto dialogare
personalmente per esempio con Regine
Pernoud, con Leo Moulin, con Henri
de Lubac, con Hans Urs von
Balthasar, con Joseph Ratzinger, con
Jean Guitton e molti altri - hanno
un sano orgoglio della nostra
tradizione cattolica.
Per questo sentono in modo
assolutamente negativo desumere
acriticamente l’immagine della
Chiesa dalla mentalità laicista che
cerca di dominare la nostra
coscienza e il nostro cuore.
Certo, l’essenza di questa
tradizione cattolica - e che,
quindi, comprende anche le Crociate
- è il desiderio di vivere il
rapporto con Cristo e di annunziarlo
nella concretezza del suo popolo che
è la Chiesa, nelle grandi dimensioni
che rendono il cristiano
autenticamente uomo: la dimensione
della cultura, della carità e della
missione. È questo il Cristo che sta
all’origine di tante iniziative del
passato e del presente. Nessuna
iniziativa lo esprime adeguatamente,
ma l’assenza di qualsiasi capacità
di presenza nel mondo e di giudizio
sulla vita degli uomini e sui
problemi degli uomini fa dubitare
che esista una fede autenticamente
cattolica.
La fede in Cristo può rischiare di
ridursi a essere spunto per mozioni
soggettive e spiritualistiche da cui
metteva in guardia il santo padre
Benedetto XVI all’inizio della sua
splendida enciclica Deus Caritas
Est: un Cristo che rischia di stare
acquattato nel silenzio della
coscienza personale, che non diventa
fattore di vita e di cultura, che
non tende a creare una civiltà della
verità e dell’amore. Ricordo ancora
con commozione quando facevo la
terza liceo una lezione di Giussani
in cui disse letteralmente: «La
comunità cristiana tende a generare
inesorabilmente una civiltà».
Nella mia esperienza pastorale e
culturale ho sempre sentito come
punto di riferimento sostanziale la
grande certezza di Giovanni di
Salisbury che diceva: «Noi siamo
come nani sulle spalle di giganti».
È perché siamo sulle spalle di
giganti che vediamo bene il presente
e intuiamo le linee del futuro. È
questo che rende così appassionata
la nostra responsabilità, senza nessuna
dipendenza dagli esiti, con la
certezza di portare il nostro
contributo, piccolo o grande che
sia, alla grande impresa del farsi
del Regno di Dio nel mondo, che come
dice il Concilio Vaticano II
coincide con la Chiesa e la sua
missione.
Un cordiale saluto
Monsignor Luigi Negri
(Arcivescovo di Ferrara-Comacchio e
abate di Pomposa) |