La debolezza della
ragione.
Il discorso del presidente
Obama al Cairo
di Massimo Introvigne
Il discorso
del presidente degli Stati
Uniti Barack Hussein Obama
pronunciato all’Università
del Cairo il 4 giugno 2009
(che cito dal testo
ufficiale diffuso dal sito
della Casa Bianca:
http://www.whitehouse.gov/the_press_office/Remarks-by-the-President-at-Cairo-University-6-04-09/
) dimostra, anzitutto, che
a differenza di buona
parte della stampa europea
gli speechwriter
del presidente americano
sono attenti lettori dei
discorsi di Benedetto XVI.
Senza mai citare il
Pontefice, alcuni passaggi
sono ripresi quasi
letteralmente. E tuttavia,
mentre ripete la lettera
di Benedetto XVI, Obama si
allontana dallo spirito
dei testi pontifici: e sta
qui la debolezza di fondo
del suo discorso.
Per un
confronto, sarà
sufficiente riassumere
l’essenziale del magistero
di Benedetto XVI in tema
di rapporti con l’islam.
Il Papa riconosce che è
difficile che cristiani e
musulmani (e anche,
naturalmente, cristiani e
buddhisti, induisti o
atei) raggiungano un
consenso sulla base dei
rispettivi testi sacri o
credenze in materia di
religione. Il confronto
interreligioso di natura
teologica offre materia
per interessanti congressi
internazionali, ma di rado
porta a un vero consenso
con serie conseguenze
pratiche. Questo va
cercato invece
argomentando non dal
Corano o dalla
Bibbia ma dalla
ragione, che è comune a
tutti gli uomini e che di
per sé non è né cristiana
né musulmana, né buddhista
né atea. Attraverso la
ragione è possibile
scoprire quella legge
naturale che costituisce,
secondo l’espressione di
Benedetto XVI, “la
grammatica della vita
sociale” e che consente di
fissare verità condivise e
regole del gioco valide
per tutti. Argomentando,
appunto, anzitutto dalla
ragione il Pontefice –
parlando ai musulmani a
Castel Gandolfo dopo il
discorso di Ratisbona nel
2006, in Turchia nello
stesso 2006 e in Terra
Santa nel 2009 – non si
limita a principi generali
ma mostra in concreto su
che cosa, sulla base della
legge naturale, cristiani
e musulmani possono
convenire. Si tratta
anzitutto dei principi non
negoziabili in materia
d’inizio e fine della vita
(con il no all’aborto e
all’eutanasia) – su cui un
certo consenso già esiste
–, quindi di temi
delicati, che il Papa
invita l’islam ad
approfondire proprio sulla
base della ragione,
riassunti nei tre elementi
del ripudio della violenza
e del terrorismo, dei
diritti fondamentali
garantiti agli uomini così
come alle donne e della
libertà religiosa.
Benedetto XVI non si
nasconde che il filo del
dialogo fra fede e ragione
– che storicamente è
dialogo fra cultura
religiosa ed eredità della
filosofia greca –
nell’islam, come aveva
rilevato a Ratisbona, a un
certo punto si è
interrotto, perché la
linea maggioritaria del
pensiero islamico si è
ritratta di fronte al
rischio che l’uso della
ragione e della filosofia
portasse da una parte
all’ateismo e dall’altra
al panteismo. Ma auspica
che questo filo possa
essere riannodato, e in
ogni caso il comune
riferimento alla ragione è
l’unica via per evitare lo
scontro e il conflitto
permanenti.
Al Cairo
Obama riprende l’idea di
una “verità che trascende
nazioni e popoli – è una
verità che non è nuova,
che non è né nera né
bianca né marrone, che non
è né cristiana né
musulmana né ebrea”.
Declinando le conseguenze
di questa verità “che
trascende nazioni e
popoli”, Obama segue lo
stesso schema di Benedetto
XVI: condanna senza
appello della violenza e
del terrorismo, diritti
delle donne, libertà di
religione. Il tono è
diverso – con qualche
concessione retorica all’audience
musulmana che diventa
errore sociologico e
storico, come quando i
fondamentalisti sono
definiti una minoranza
“piccola ma potente”
(potente certo, ma non poi
tanto piccola: si tratta
di almeno cento milioni di
persone) o s’idealizza la
tolleranza dei musulmani
in Andalusia e a Cordoba,
confrontandola con
“l’Inquisizione” cattolica
– ma l’architettura rimane
molto simile a quella
reiteratamente proposta
dal Pontefice.
E tuttavia
manca qualcosa che non è
secondario ma essenziale.
Quando Benedetto XVI fa
appello alla verità, il
fondamento filosofico
proposto – che è al cuore
della nozione stessa di
Occidente, ma nello stesso
tempo è universale – è che
vi siano principi e leggi
iscritte nella natura
stessa delle cose, che la
ragione (una ragione,
dunque, “forte”) è in
grado di conoscere. Nel
discorso di Obama non c’è
nessun riferimento a una
legge naturale che la
ragione può discernere. Né
ci potrebbe essere: perché
ogni teoria della legge
naturale sarebbe in aperto
contrasto – meglio, in
clamorosa contraddizione –
con tutto quanto Obama
pensa e fa in materia, per
esempio, di aborto e con
un atteggiamento generale
che privilegia i
cosiddetti “nuovi diritti”
rispetto a principi morali
universali e non
negoziabili, di cui anzi
si nega l’esistenza, che è
tipico del presidente
americano e del suo
partito e che determina i
noti contrasti con i
vescovi cattolici degli
Stati Uniti e con altri
ambienti religiosi.
Su che cosa
dunque Obama pretende di
fondare una verità capace
di “trascendere nazioni e
popoli”? In verità
tertium non datur: le
due ali con cui l’uomo
cerca di volare, come
insegna Giovanni Paolo II
più volte citato da
Benedetto XVI, sono la
ragione e la fede. Se non
ci si vuole fondare su una
nozione forte di ragione,
una ragione debole finirà
per fare appello alla
fede, che però rischierà
di essere assunta in modo
confuso o di diventare
fideismo. Al Cairo Obama
invoca la “visione di
Dio”: una visione, sembra
di capire, che
“conosciamo” attraverso
un’analisi di quanto le
scritture sacre delle
grandi religioni hanno in
comune. Da questo punto di
vista, paradossalmente,
Obama appare molto più
fideista del Papa. Citando
il Corano, il
Talmud e la
Bibbia Obama pensa di
avere trovato “la singola
regola che sta al cuore di
ogni religione – facciamo
agli altri quello che
vorremmo che gli altri
facessero a noi”. Questa
credenza, dice Obama, “non
è nuova”. In effetti non
lo è. La cosiddetta
“regola aurea” – non fare
agli altri quello che non
vorresti che gli altri
facessero a te – è
certamente, per alcuni
versi, un antico principio
di buon senso, che i
cristiani condividono.
Tuttavia – dal filosofo
tedesco Immanuel Kant in
poi – molti hanno messo in
luce come si tratti di uno
schema formale che dev’essere
riempito: chi sono gli
altri? Come facciamo a
conoscerne la volontà?
Questa volontà che
attribuiamo agli altri è
necessariamente conforme
alla ragione e al bene? Se
rimane uno schema vuoto,
la “regola aurea” non ha
conseguenze pratiche e
resta solo una pia
aspirazione, più o meno
sentimentale, al buonismo
universale.
Non
potendo, per non smentire
il suo relativismo in
campo morale, fare appello
alla legge naturale e a
una ragione forte e
fiduciosa di potere
giungere a verità
universali, Obama si trova
costretto a proporre o una
ragione debole – qualche
cosa che ricorda i
tentativi di costruire a
tavolino etiche universali
alla Hans Küng – o il
faticoso e ultimamente
sterile tentativo di
partire dalle scritture
sacre delle religioni per
discernerne il presunto
spirito comune che ci
permetterebbe di conoscere
la stessa “visione di Dio”
per l’umanità (una
prospettiva che, appunto,
Benedetto XVI ha
ampiamente abbandonato,
sostituendola con
l’appello alla ragione).
In questo
fondamento debole della
ricerca di consenso con
l’islam – un fondamento
che non persuaderà i
musulmani che vogliono
rimanere musulmani – sta
il limite essenziale del
discorso di Obama al
Cairo. L’attenzione di
molti si concentra, a
proposito di questo
discorso, su aspetti
strettamente politici: la
dichiarazione secondo cui
l’Iran ha diritto a un
“programma nucleare
pacifico” (il cui
trasferimento sul piano
militare – che Obama
condanna – potrebbe poi
peraltro avvenire
rapidamente e al di fuori
di ogni possibile
controllo, ammesso e non
concesso che non sia già
avvenuta), e l’appello
alla soluzione dei due
Stati per risolvere il
conflitto
israeliano-palestinese.
Anche Benedetto XVI in
Terra Santa ha ricordato
la storica preferenza
della Santa Sede per la
“two-state solution”
(forse anche perché
opzioni diverse, al
momento, appaiono
politicamente ancora meno
praticabili), ma non si è
nascosto il rischio che,
nell’attuale temperie
medio-orientale, questa
soluzione resti “un
sogno”. Nel discorso di
Obama, retorica a parte,
non c’è molto di più
perché, se è vero che si
chiede a Israele un passo
indietro sugl’insediamenti
di coloni nei territori
palestinesi, si esige pure
da Hamas di “riconoscere
il diritto d’Israele a
esistere”. Dal momento che
questo riconoscimento è
vietato a Hamas dal suo
stesso statuto, per
passare dal sogno alla
realtà c’è ancora molta
strada da fare.
Su
Afghanistan (dove dichiara
di voler intensificare
l’impegno) e Iraq (dove
promette un cauto
disimpegno, dicendosi
comunque “convinto che
gl’iracheni stiano meglio
oggi che sotto la tirannia
di Saddam Hussein”) Obama
ribadisce posizioni note.
La novità, semmai, sta
nell’apertura di credito
in bianco all’Iran e a Hamas, ingrediente
obbligatorio di un
messaggio che si vuole a
tutti i costi nuovo, ma
che non sembra per ora
accompagnata da alcuna
concessione da parte dei
destinatari.
Tuttavia,
non è per i riferimenti ai
coloni israeliani e
neppure al nucleare
iraniano che Obama
presenta il suo discorso
come “storico” e occupa le
prime pagine dei giornali
di tutto il mondo. È per
la pretesa di fondare una
nuova ricerca di consenso
tra l’Occidente e l’islam
sull’appello a verità
comuni. Questo consenso –
come insegna Benedetto XVI
– è difficile ma non è
impossibile, purché si
tratti delle verità di una
ragione forte che si
oppone a ogni relativismo.
Se la ragione è debole, o
cerca precari appoggi in
una pretesa e
sincretistica “visione
comune” delle religioni,
tutto l’edificio, per
quanto sembri svettare
orgogliosamente verso il
cielo, è in realtà
costruito sulla sabbia. E
non potrà che cadere.
Tratto da:
http://www.cesnur.org/2009/mi_obama.htm
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