Parole e numeri dell’amore
per il PROSSIMO
La giustizia deve avere un suo rigore e una sua
pienezza, espressa attraverso il 3 e 4, numeri che nel
computo simbolico vengono idealmente sommati così da
raggiungere il 7. Ma, d’altro lato, a imporsi in tutta
la sua grandezza è in ebraico il «hesed», ossia l’amore
generoso e fedele che non conosce confini ed è infinito,
perché tale è il valore del numero 1000
Di mons. Gianfranco Ravasi
Nihil caritate dulcius,
«nulla è più dolce dell’amore», scriveva sant’Ambrogio
nella sua opera dal titolo ciceroniano De officiis. Ma
nulla è anche più difficile da comprimere in una
trattazione come l’amore. Noi, allora, ci accontenteremo
di illustrare in forma essenziale e simbolica i vari
"nomi", ossia le diverse iridescenze del tema
dell’amore, l’entolé megále, come diceva Gesù, ossia il
«comandamento massimo, cardinale, principe» dell’impegno
morale e spirituale cristiano (vedi Mt 22, 34-40).
Cercheremo anche di identificare alcuni "numeri"
simbolici che esaltano l’autentica carità.
Iniziamo col lessico biblico dell’amore.
LE PAROLE
DELL’AMORE
1. Il primo termine fondamentale è prossimo.
Esso è centrale nel nostro discorso e si è consapevoli
che la sua accezione è variegata nelle Scritture.
Abbraccia innanzitutto il fratello, la famiglia, il
clan, la tribù, il popolo eletto, escludendo le altre
nazioni (gojim) e i nemici. Tuttavia già nel Primo
Testamento si segnalano aperture universalistiche e il
perdono del nemico già si presenta non solo con Giuseppe
e i suoi fratelli ma anche con la norma sull’asino del
nemico (Es 23, 4-5) e sull’ospitalità per lo straniero
che si deve «amare come se stessi» (Lv 19, 34).
Certo è che Cristo tende all’estremo questo precetto nel
suo Discorso della Montagna, proponendo il superamento
della giustizia del taglione e l’amore per il nemico,
sempre sulla base dell’esemplarità di Dio, generoso con
malvagi e ingiusti (Mt 5, 38-48).
Suggestiva rimane la parabola del Buon Samaritano, già
significativa per il soggetto assunto come modello, una
figura legata a una comunità detestata da Israele (Lc
10, 25-37). Nel contesto del racconto parabolico, lo
scriba rivolge a Gesù il quesito oggettivo su «chi sia
il prossimo»; Gesù, invece, alla fine rilancia la
domanda modificandola in senso soggettivo e dinamico:
«Chi ha agito da prossimo?». Più che definire la
categoria esterna «prossimo», è necessario «farsi,
essere prossimo» dell’altro in senso efficace; più che
una ricerca sul prossimo, la nostra dev’essere un’azione
da prossimo, con una ricerca del prossimo per aiutarlo.
2. Il secondo vocabolo è amicizia, una
qualità vissuta da Dio stesso che considera «Abramo mio
amico» al quale «non tiene nascosto quello che sta per
fare», discutendone con lui il merito e l’opportunità.
Similmente con Mosè «il Signore parlava a faccia a
faccia, come un uomo parla con un altro» (Es 33, 11). Il
Cristo stesso sperimenta gioie e dolori dell’amicizia
con Lazzaro e coi discepoli.
C’è, però, soprattutto l’amicizia umana, celebrata dal
Siracide in un vero e proprio "elogio" (6, 5-17), che
contiene anche il celebre detto secondo il quale «chi
trova un amico, trova un tesoro». Esemplare è la figura
amicale incarnata da Davide e Gionata, anche se da
taluni il linguaggio biblico "amoroso" adottato in
questo caso è interpretato in chiave politica: «L’anima
di Gionata s’era talmente legata all’anima di Davide che
Gionata lo amò come se stesso… Lo amava come l’anima
sua, come se stesso» (1 Sam 18, 1; 20, 17).
3. Un terzo termine è la misericordia
che potrebbe rimandare alla più ricca radice ebraica rhm,
destinata a mettere in luce la passione e la tenerezza
"viscerale" della madre o anche del padre. La
benedizione iniziale della Seconda Lettera ai Corinzi
(1, 3-4) ben illustra la dimensione teologica di questo
amore fatto di partecipazione appassionata che, per
altro, è presente in quasi tutte le religioni (la maitri
buddhista, la karuna hindu, la zakat musulmana e così
via): «Sia benedetto Dio…, Padre misericordioso e Dio di
ogni consolazione,
il quale ci consola in ogni nostra tribolazione perché
possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in
qualsiasi genere di afflizione con la consolazione con
cui siamo consolati noi stessi da Dio».
La figura che incarna idealmente questa misericordia
generosa e operosa è il citato Buon Samaritano, a
differenza del sacerdote e del levita, gelidi osservanti
di norme sacrali di purità. Nella parabola Gesù descrive
con accuratezza tutti i gesti di premura e di
compassione di quell’uomo nei confronti della vittima di
un’aggressione: gli si accosta, gli fascia le ferite, vi
versa olio e vino, lo carica sulla sua cavalcatura, lo
porta in una locanda, si prende cura di lui, ne paga i
costi di assistenza anche per il decorso delle ferite (Lc
10, 34-35). Ma alla radice di tutto c’è proprio la
«misericordia»: «passando accanto [allo sventurato] lo
vide ed esplanchnísthe», col verbo greco della
tenerezza, della compassione autentica e "viscerale",
con la misericordia nel senso etimologico del nostro
vocabolo.
4. Intrecciamo qui sotto un’unica voce un
trittico lessicale neotestamentario (ma anche
classico): philanthropía – philadelphía – philoxenía.
Pur con caratteristiche specifiche, esse s’inanellano
tra loro ed esprimono una
vicinanza amorosa al prossimo sulla base della nostra
comune "adamicità": tutti apparteniamo alla stessa
umanità.
Naturalmente le motivazioni religiose possono essere più
alte. La paternità divina e la redenzione ci rendono
tutti fratelli: «Con sincera philadelphía – cioè amore
fraterno – amatevi intensamente con cuore puro
reciprocamente, essendo stati rigenerati non da seme
corruttibile ma incorruttibile, cioè dalla parola di Dio
viva ed eterna» (1 Pt 1, 22-23).
L’orizzonte si allarga e dalla philanthropía e dalla
philadelphía si giunge all’amore per il diverso e per lo
straniero: «Perseverate nell’amore fraterno (philadelphía).
Non dimenticate l’amore per lo straniero (philoxenía)»
e, quindi, l’ospitalità (Eb 13, 1-2). L’accoglienza
dello straniero è una virtù specifica
all’interno dell’amore del prossimo e scandisce la vera
appartenenza al cristianesimo: «ero forestiero e mi
avete ospitato» (Mt 25, 35), come era un precetto per lo
stesso ebraismo (Lv 19, 33-34: «…Il forestiero dimorante
in mezzo a voi lo tratterete come chi è nato fra di voi;
tu l’amerai come te stesso…»).
5. Eccoci, così, alla koinonía, a quella
«comunione fraterna» tanto cara a livello
programmatico alla comunità giudeocristiana di
Gerusalemme. Si tratta di un incontro tra due virtù
fondamentali delle relazioni sociali, la giustizia e la
solidarietà. La formulazione essenziale è già nel
Deuteronomio: «Se vi sarà in mezzo a te qualche tuo
fratello bisognoso, non indurire il tuo cuore e non
chiudere la tua mano» (15, 7). La sua attuazione
esemplare potrebbe essere il progetto di colletta che
Paolo sostiene tra le varie chiese in favore dei poveri
di Gerusalemme. Il modello cristiano più alto potrebbe
essere la koinonía esaltata come una delle quattro
colonne che reggono la Chiesa delle origini: «Erano
assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli,
nella koinonía, nella frazione del pane e nelle
preghiere» (At 2, 42).
La stessa solidarietà nella sua formulazione concreta:
«Tutti coloro che erano diventati credenti stavano
insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva
proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a
tutti, secondo il bisogno di ciascuno… Nessuno tra loro
era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li
vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato
venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; poi
veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno» (At 2,
44-45; 4, 34-35). La grande tradizione cristiana
raccoglierà questo modello ideale, a partire dal famoso
simbolo del mantello tagliato di san Martino per
attraversare tutti i secoli con una folla di testimoni
di carità, di comunione fraterna, di giustizia e
solidarietà.
6. Una considerazione merita anche l’eros,
una categoria dell’amore particolarmente esaltata e
analizzata dalla cultura greca e dalla moderna
psicanalisi. L’ormai classico saggio di Anders Nygren,
Eros e agape (1930), ha attentamente vagliato sia nella
Bibbia sia nella tradizione cristiana la tensione ma
anche gli incroci tra eros e agape, l’altro vocabolo
greco dell’amore. L’eros è desiderio, aspirazione e
tensione verso l’altro; l’agape è sacrificio, donazione
verso l’altro. L’eros è via dell’uomo a Dio; l’agape è
innanzitutto via di Dio verso l’uomo. L’eros è conquista
dell’uomo; l’agape è grazia. L’eros è utoaffermazione
nobile e gloriosa; l’agape è amore disinteressato e dono
di sé. L’eros è determinato dalla bellezza della persona
amata; l’agape ama e crea il valore dell’amato. Ciò non
toglie – come ha ribadito Benedetto XVI nella Deus
caritas est – che l’eros, componente tipica dell’umanità
che con esso trasfigura la mera sessualità, s’intrecci
con l’amore. La dimostrazione più alta e affascinante è
indubbiamente offerta dal Cantico dei cantici (che pure
non conosce un
vocabolo ebraico analogo all’eros greco, per altro
assente nel Nuovo Testamento): questo poemetto biblico
di 1250 parole è innanzitutto celebrazione di
un’esperienza umana personale e totale. Essa comprende
anche una riconciliazione con l’eros e col linguaggio
del corpo, senza falsi pudori e senza sbavature
pornografiche (la pornografia è, infatti, non solo
negazione dell’amore ma anche dell’eros), senza
spiritualismi puritani ed evanescenti e senza carnalità
esasperate e pesanti. Si leggano i tre canti del corpo
della donna e dell’uomo nei cc. 4; 5 e 7 per scoprire
non solo che «tanto il punto di partenza quanto il punto
d’arrivo del fascino – reciproco stupore e ammirazione –
sono la femminilità della sposa e la mascolinità dello
sposo nell’esperienza diretta della loro visibilità»
(come diceva Giovanni Paolo II in una sua catechesi sul
Cantico del 1984), ma anche per comprendere il rilievo
della corporeità nella vicenda d’amore: noi non
"abbiamo" un corpo ma "siamo" un corpo e nell’eros
questa differenza emerge nitidamente. Certo, sull’eros
nel Cantico si accende la fiaccola dell’amore che lo
supera e lo invera in una dimensione ulteriore e
trascendente.
7. Eccoci giunti, così, al termine
neotestamentario specifico per indicare l’amore, agápe,
presente 116 volte come sostantivo, 143 volte come verbo
(agapáo) e 61 volte nella forma aggettivale agapetós,
"amato". È il vertice del lessico dell’amore, l’agápe
teteleioméne, "l’amore perfetto" (1 Gv 4, 12). Esso ha
la sua celebrazione innica nella stupenda pagina paolina
di 1 Cor 13: «Se anche parlassi le lingue degli uomini e
degli angeli, ma non avessi l’agape, sarei un bronzo
echeggiante o un cembalo tintinnante…» e così via fino
alla proclamazione finale: «Sono tre le realtà che
permangono: la fede, la speranza e l’agape. Ma di tutte
più grande è l’agape!» Questo canto illumina il corteo
di virtù che accompagnano l’agape: magnanimità, bontà,
umiltà, disinteresse, generosità, rispetto, benignità,
perdono, giustizia, verità, tolleranza, costanza…
Di fronte ad essa anche doni altissimi come la profezia,
la conoscenza teologica e la fede capace di «trasportare
le montagne» impallidiscono. Lo stesso dono delle
"lingue", segno di esperienze estatico-mistiche, diventa
– se privo di agape – il rimbombo di un gong o il
frastuono dei cembali dei riti orgiastici della dea
Cibele. In agguato c’è, comunque, sempre il tradimento
di questa virtù teologale e sociale. Curioso, ad
esempio, è lo stravolgimento operato da George Orwell
nel suo romanzo Fiorirà l’aspidistra attraverso la
sostituzione della parola "denaro" ad agape: «Anche se
parlassi tutte le lingue, se non ho denaro, divengo un
bronzo risonante… Se non ho denaro, sono nulla… Il
denaro tutto crede, tutto spera, tutto sopporta…».
I NUMERI DELL’AMORE
PER IL PROSSIMO
A tutti è noto quanto rilevante sia per le Scritture la
simbologia numerica; si pensi che solo l’Apocalisse
incastona nelle sue pagine ben 283 numeri cardinali,
ordinali e frazionali! Vorremmo anche noi in forma
piuttosto libera, sulla scia della tradizione giudaica e
cristiana, identificare alcuni numeri significativi
dell’amore. Si tratta in verità di curiose equazioni che
si richiamano tra loro. Ne indicheremo quattro che si
combinano idealmente a coppia.
1. Prima equazione: 7 a 77. Ci troviamo
qui nel polo antitetico dell’ideale spettro cromatico
dell’amore: si tratta, infatti, dei numeri dell’odio,
esaltati con veemenza da Lamek nel suo terribile canto
della violenza a spirale, della spada sempre
insanguinata: «Io uccido un uomo per una mia ferita e un
ragazzo per un mio livido! Se Caino è vendicato 7 volte,
Lamek lo sarà 77 volte!» (Gn 4, 23-24).
Siamo di fronte alla vendetta senza limiti e senza la
parità offesa-pena che, come vedremo, introdurrà la
legge del taglione.
È la frattura di ogni equilibrio sociale. Al giudizio
pieno e severo sul delitto di Caino (7 volte) si oppone
– sempre attraverso il ricorso al numero della pienezza,
ma in una forma esasperata – l’eccesso vendicativo (77
volte).
2. Seconda equazione: 7 a 70 x 7. Ora
ci spostiamo all’estremo opposto dello spettro, quello
positivo dell’amore totale, incarnato nel perdono
cristiano. Di fronte a Pietro che ripropone per il
perdono il 7 della pienezza («Quante volte dovrò
perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a
7 volte?»), Gesù replica introducendo un numero tendente
verso l’infinito, sempre nella linea del settenario:
«Non ti dico fino a 7, ma fino a 70 volte 7» (Mt 18,
21-22). È evidente l’ammiccamento, sia pure per
contrasto, all’equazione di Lamek: nell’amore, al 7
volte di Pietro, si oppone il 70 volte 7 di Cristo,
illustrato poi dalla parabola dei
due debitori, ove un’altra equazione numerica illustra
quella formulata nel principio generale: ai 100 denari
si confrontano i 10.000 talenti (Mt 18, 23-35).
3. Terza equazione: 1 a 1. Essa non è
esplicita ma sottesa alla cosiddetta legge del taglione,
vocabolo modellato sul latino talis: tale la colpa, tale
la pena. Si legge, infatti, nell’Esodo: «Vita per vita,
occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede
per piede, bruciatura per bruciatura, ferita per ferita,
livido per livido» (21, 23). La durezza della
formulazione esemplificativa può celare l’evidente
progresso che si registra rispetto all’equazione di
Lamek. In realtà ora abbiamo la codificazione della
giustizia distributiva ed è un passo
rilevante verso una migliore normativa giuridica. In
positivo si potrebbe trascrivere questa legge pensando
proprio al precetto dell’amare il prossimo come se
stessi (1 a 1 anche in questo caso).
Oppure alla cosiddetta "regola d’oro" presente nel libro
di Tobia (4, 15): «Non fare a nessuno ciò che non piace
a te».
Essa nel Talmud appare in questa frase appassionata:
«Non fare al prossimo tuo ciò che è odioso a te: questa
è tutta la Legge, il resto è solo spiegazione» (Shabbat
31a). Gesù la trasformerà in chiave esplicitamente
positiva: «Tutto quanto volete che gli uomini facciano a
voi, anche voi fate a loro: questa infatti è la Legge e
i Profeti» (Mt 7, 12).
4. Quarta equazione: 3 / 4 a 1000. Per
certi versi è il superamento dell’equazione del taglione
il cui valore di giustizia permane ma è travalicato
nella logica superiore dell’amore. È ciò che è applicato
all’agire di Dio sia nel primo comandamento del Decalogo
(Es 20, 5-6), sia nell’auto-rivelazione dei Sinai, «la
carta d’identità biblica di Dio», come l’ha definita
Albert Gelin (Es 34, 6-7). Noi ora citiamo integralmente
solo la formula decalogica più schematica: «Io, il
Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso che punisce la
colpa dei padri nei figli fino alla 3a e 4a generazione,
per coloro che mi odiano ma che dimostra il suo amore
fedele fino a 1000 generazioni, per quelli che mi amano
e osservano i miei comandi». Nell’altro passo l’amore
misericordioso divino è ancor più marcato: «Il Signore,
il Signore, Dio misericordioso e grazioso, lento all’ira
e ricco di amore e fedeltà, che conserva il suo amore
per 1000 generazioni e perdona la colpa, la ribellione e
il peccato».
Attraverso il linguaggio "generazionale" (destinato a
sottolineare l’aspetto sociale e non esclusivamente
personale del peccato) si esalta, da un lato, la
giustizia: essa deve avere un suo rigore e una sua
pienezza, espressa attraverso il 3 e 4, numeri che nel
computo simbolico vengono idealmente sommati così da
raggiungere il 7. Ma, d’altro lato, a imporsi in tutta
la sua grandezza è in ebraico il hesed, ossia l’amore
generoso e fedele che non conosce confini ed è infinito,
perché tale è il valore del numero 1000. Dal numero
freddo e implacabile dell’odio giungiamo, così, al
vertice caloroso e gioioso dell’amore che non conosce
numeri ma tende all’infinito come il Dio che è amore (1
Gv, 4, 8.16). A chi seguirà questa equazione piena
dell’amore potrebbe essere riservata la beatitudine del
Siracide: «Beati coloro che si sono addormentati
nell’amor» (48,11).
Da Avvenire del 9 novenbre
2008
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