Una società come
la nostra,
afflitta dal male
oscuro dell’acedia,
della nausea del
non-senso è
paradossalmente
malata anche del
morbo opposto, la
vanagloria, il
tarlo che corrode
il nostro rapporto
con il fare,
appiattendolo
sull’apparire.
Certo l’acedia
scaccia la
vanagloria e la
vanagloria l’acedia,
ma entrambi questi
vizi saturano
l’aria che
respiriamo oggi.
Già Evagrio
considerava la
vanagloria (kenodoxía)
all’opposto dell’acedia:
“L’acedia snerva
il vigore
dell’anima, ma la
vanagloria
rinvigorisce la
mente, se è malata
la risana, e rende
il vecchio più
robusto del
giovane, purché
siano presenti
numerosi
testimoni”. Così,
se l’acedia è
atonia, la
vanagloria provoca
una sorta di
iper-tonia: in noi
si risvegliano il
vigore e la forza,
e tutto in vista
della lode,
dell’applauso
altrui. La
vanagloria è
davvero una
tentazione
sottilissima e
assai difficile da
discernere, un
vizio multiforme
che ci attacca da
ogni parte, che
“come l’edera, si
abbarbica e
sottrae la linfa
che sorge insieme
alle virtù, e non
si allontana
finché non ne
abbia reciso la
forza”. La
vanagloria,
malattia tipica di
chi si crede
virtuoso, malattia
degli ipocriti, è
in fondo una forma
di prostituzione:
tutto ciò che si
fa, lo si fa per
farsi vedere, per
ostentazione, per
“l’immagine”.
Ma qual è la
natura profonda
della vanagloria?
Quali le ragioni
del suo sorgere?
Fondamentalmente,
la vanagloria
nasce
dall’attribuire
più importanza al
fare che
all’essere, dal
far dipendere il
senso della
propria vita e la
riuscita del
proprio agire dal
consenso e
dall’applauso
altrui. Si mette
il proprio io al
centro del mondo,
come fa il bambino
che esige
l’attenzione su di
sé di tutti gli
sguardi… In tempi
di sfrenato
attivismo e di
ricerca ossessiva
di
auto-affermazione,
occorre lottare
strenuamente
contro questa
tentazione, perché
la posta in gioco
è capitale: le
persone vanno
considerate per
ciò che sono e non
per ciò che fanno;
ogni essere umano
è un nome e un
volto, non un
participio o una
macchina! Chi si
lascia dominare
dalla vanagloria
misura se stesso
solo in base a ciò
che fa e mira ad
affermarsi grazie
al proprio agire
“virtuoso”,
ritenendolo non
una possibilità di
sviluppo della
propria
personalità o di
esercizio dei
propri doni per il
bene di tutti, ma
una via per
imporsi sugli
altri. Si crede
che gli altri ci
valutino per
quello che
facciamo, e dunque
ci si comporta di
conseguenza,
finendo per
imporre loro
questa nostra
visione delle
cose: noi esigiamo
il riconoscimento
altrui,
pretendiamo di
essere stimati. E
non si pensi che
alla base di
questo
comportamento vi
sia una volontà
particolarmente
perversa: a volte
ciò che scatena
l’ansia di
emergere è
semplicemente –
soprattutto per le
persone insicure –
un goffo desiderio
di essere
riconosciuti e
valutati.
La vanagloria si
manifesta dunque
attraverso una
sorta di angoscia
del fare: per
essere apprezzati
dagli altri, si
giunge a
compiacerli in
ogni modo, anche a
costo di compiere
il lavoro dello
schiavo,
mascherando un
enorme super-io
sotto le spoglie
della generosità.
Si entra così in
un vortice
pericolosissimo:
se gli altri non
ci riconoscono ciò
che a nostro
parere dovrebbe
esserci
riconosciuto, essi
divengono degli
ingrati, dei
nemici, persone
contro cui fare
guerra; e tutto
questo mentre si
perde qualsiasi
fiducia in sé e
così appare sempre
più difficile
ingaggiare la vera
lotta, quella
contro i fantasmi
che abitano il
proprio cuore. Ma
chi è preda della
vanagloria va
incontro a un
rischio ancor più
pericoloso: cerca
ossessivamente di
essere applaudito
e ammirato, e così
facendo si prepara
a una caduta
abissale, nel
giorno in cui il
fare o l’aver
fatto cessano di
accompagnare la
sua figura, il
personaggio che si
è abilmente
costruito: e la
caduta è tanto più
pericolosa, quanto
più egli ha
compiuto
un’inarrestabile
ascesa…
E non si
dimentichi che
questo male è
frequente nelle
persone religiose
che assumono quei
tratti che i
Vangeli
stigmatizzano nei
farisei e negli
addetti alla
religione.
Costoro,
identificandosi
alla funzione
rivestita, fanno
prevalere il ruolo
sulla loro realtà,
diventano doppi
predicando ciò che
non credono
possibile e non
praticano:
organizzano la
loro azione per
esibirsi e ogni
giorno si sforzano
di edificare la
propria
reputazione morale
e di santità. A
costoro Gesù ha
annunciato che
“prostitute e
peccatori li
precederanno nel
regno dei cieli”.
Sì, la
kenodoxía è
tanto grave quanto
sottile, perché è
facile
dissimularla
dietro a parvenze
di bontà, ascesi e
santità; siamo
abilissimi a
trovare
giustificazioni
per celare la
vanagloria proprio
mentre la
coltiviamo in noi
con la massima
cura. Il rischio
estremo causato da
questa passione
consiste
nell’assumere in
permanenza una
maschera, affinché
gli altri non
vedano le nostre
debolezze e i
nostri limiti. E
così si finisce
paradossalmente
per far emergere
in sé l’io
autarchico,
quello di chi
sogna di poter
venire a capo di
sé senza dover
dipendere
dall’agire
effettivo, quasi
che la realtà e
gli altri
impedissero
sistematicamente
il fiorire del
proprio
immaginario
talento nascosto.
Ben lo ha colto
Robert Musil nel
suo L’uomo
senza qualità:
“L’abitante di un
paese ha almeno
nove caratteri:
carattere
professionale,
carattere
nazionale,
carattere statale,
carattere di
classe, carattere
geografico,
carattere
sessuale,
carattere conscio,
carattere
inconscio, e forse
anche carattere
privato; li
riunisce tutti in
sé, ma essi
scompongono lui,
ed egli non è in
fondo che una
piccola conca
dilavata da tutti
quei rivoli, che
v’entran dentro e
poi tornano a
sgorgarne fuori
per riempire
assieme ad altri
ruscelletti una
conca nuova.
Perciò ogni
abitante della
terra ha ancora un
decimo carattere,
e questo altro non
è se non la
fantasia passiva
degli spazi non
riempiti; esso
permette all’uomo
tutte le cose meno
una: prendere sul
serio ciò che
fanno i suoi altri
nove caratteri e
ciò che accade di
loro; vale a dire,
con altre parole,
che gli vieta
precisamente ciò
che lo potrebbe
riempire”.
Il passo
successivo
consiste
nell’assumere i
modi dell’io
minimo,
talmente rinchiuso
nel proprio
angusto orizzonte
da divenire
incapace di una
minima presa di
coscienza della
realtà che lo
circonda, fino a
cadere in giudizi
e comportamenti
grossolanamente
ridicoli. La lotta
contro questa
dissoluzione
nell’effimero
richiede un esame
di coscienza
spietato e
sincero, a partire
da una domanda
semplicissima: per
chi e per che cosa
si agisce? Per
piacere agli
uomini o per
trovare la propria
consistenza
nell’essere in
verità se stessi
davanti agli altri
e all’Altro? Solo
per chi accetta di
rispondere a tale
domanda si potrà
aprire quel
cammino
finalizzato ad
accordare più
importanza
all’essere che al
fare, nella
rinnovata
consapevolezza che
solo un agire
gratuito e
trasparente può
dare
autenticamente
senso alla vita.
Enzo Bianchi
Presso le nostre
edizioni Qiqajon:
La Stampa, 6
gennaio 2008 |