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“L’Osservatore Romano”
Quotidiano Città del Vaticano

A proposito dell'intervento di Giubilini e Minerva sulla legittimità dell'infanticidio

Se questa è una persona

22 marzo 2012

Fonte come da titolazione, rilevato da Ciani Vittorio x l’Ufficio Documentazione Diocesi Piacenza-Bobbio.

Adriano Pessina

Dopo l'ampia e certamente giustificata eco di polemiche e sdegno che ha suscitato l'articolo filosofico di Alberto Giubilini e Francesca Minerva, dal titolo After-birth abortion: why should the baby live? ("Journal of Medical Ethics", 2012), che sostiene la legittimità dell'infanticidio equiparandolo all'aborto, è importante discuterlo con rigore.

Qui intendiamo, perciò, confutare quella tesi e mostrare che persino restando, per metodo e convenzione, ma non per convinzione, dentro la logica degli autori non si possono sostenere le conclusioni che propongono. Il lettore dovrà fare la fatica di seguire un ragionamento che si colloca all'interno di un'impostazione che gli resta estranea, come lo è anche per l'autore di questa riflessione. Ma si tratta di una fatica necessaria se si vuole confutare una teoria dal suo interno.

La tesi principale dell'articolo è semplice: le ragioni ritenute valide per giustificare l'aborto (che si concentrano sul rifiuto della maternità per motivi economici o di tutela della salute fisica e psichica della madre) possono essere estese anche al periodo successivo al parto. Perciò, introducendo un termine che gli autori riconoscono come contraddittorio, l'uccisione del neonato non sarebbe un infanticidio, ma un "aborto post-natale". Per rafforzare l'analogia con l'aborto, si spingono a legittimare l'infanticidio anche qualora ci fosse la possibilità di dare in adozione il neonato che i genitori ritengono, per vari motivi, un "peso insopportabile". Possiamo notare che se si toglie ogni differenza tra aborto e infanticidio si potrebbe definire ogni aborto un infanticidio pre-natale. Del resto, per gli autori il risultato non cambierebbe, perché ritengono legittimo e l'uno e l'altro. Ma il motivo per cui preferiscono coniare il termine aborto-post natale è perché ritengono che l'aborto goda oggi di un consenso che non ha l'infanticidio. Se però cadono le ragioni per legittimare l'infanticidio cadono anche quelle per legittimare l'aborto.

In realtà esiste una differenza importante tra la situazione in cui si pratica e legittima l'aborto e quella dell'infanticidio che, come vedremo in seguito, spiega perché persino coloro che non intendono proibire per legge l'aborto giudicano inaccettabile l'infanticidio, ed è il legame fisico che lega madre e feto fino al momento della nascita.

L'argomentazione proposta dagli autori può essere così riassunta: gli interessi delle persone vanno sempre anteposti a quelli delle "non persone"; gli embrioni, i feti, i neonati non sono persone; quando gli interessi delle persone sono minacciati dalla vita delle "non persone" è legittimo far prevalere l'interesse delle persone; non si reca nessun danno a un neonato "prevenendone il potenziale divenire persona in senso rilevante", cioè uccidendolo. Prendiamo in esame alcuni di questi temi.

Scrivono gli autori: "Noi chiamiamo persona un individuo che è capace di attribuire alla propria esistenza almeno alcuni valori di base come il ritenere una perdita l'essere privati della propria esistenza". Stando a questa definizione, un individuo che perda interesse per la propria vita e chieda di essere ucciso, cesserebbe di essere persona: questa tesi (che di solito, in bioetica, viene citata per legittimare eutanasia e suicidio assistito), forse facilita il compito di chi intende praticare l'eutanasia, ma certamente toglie ogni valore alla esplicita richiesta di morire di un individuo dal momento che verrebbe meno la persona dell'individuo richiedente.

Ciò significa che la richiesta di morte di un individuo non può essere presa in considerazione come fosse la richiesta di una persona: perciò chi si rifiutasse di praticare l'eutanasia non lederebbe il diritto di nessuna persona. Questo argomento va esteso anche alle situazioni in cui alcuni affermano che se il feto o il neonato potessero parlare ed esprimersi richiederebbero, in particolari condizioni, loro stessi di essere uccisi. Ma così facendo, stando alla tesi degli autori per cui è persona chi ha interesse a vivere, rientrerebbero nella cosiddetta categoria delle "non persone" e quindi non ci sarebbe nessun dovere di assecondare questa ipotetica richiesta e chiunque si prendesse cura di loro non farebbe alcun torto né violerebbe l'autonomia della persona.

Per quanto riguarda le "non persone", come i feti e i neonati, gli autori ritengono però che uno "status morale particolare può essere assegnato a una "non persona" in virtù del valore che una persona (come la madre) gli attribuisce". Questa tesi è importante: gli autori ritengono che però non valga nella situazione in cui il figlio, considerato un peso insopportabile, non goda di questo particolare riconoscimento da parte della madre che non lo vuole più.

Stando alla loro premessa, si può tuttavia obiettare che una volta partorito, il figlio, per quanto sia diventato un peso, potrebbe rientrare nei progetti di coloro che sono favorevoli all'adozione e di quanti ritengono che si debbano sempre garantire delle possibilità alle "non persone" di diventare persone. Il "danno" della madre a cui sarebbe impedito di uccidere il figlio che considera "non persona" sarebbe inferiore al danno arrecato al progetto e all'interesse delle persone che considerano il neonato una persona, cioè gli attribuiscono uno statuto morale.

Perciò, anche stando al criterio degli autori, dovrebbe perciò essere proibito ogni aborto post-natale che danneggia gli interessi di tutte le persone che attribuiscono uno status morale al neonato. Perciò, contrariamente a quanto sostengono gli autori, l'adozione risulta essere una scelta che può essere imposta come alternativa a chi vuole praticare l'aborto post-nascita perché tale scelta danneggia un interesse e un progetto prevalente di altre persone che si vedono private di un valore morale su cui hanno investito al punto di riconoscergli il diritto alla vita.

Un altro concetto che occorre prendere in considerazione è quello che fa capo al tema del danno. Per gli autori, affinché si possa parlare di danno occorre che esista qualcuno che ne abbia la percezione: perciò non si arreca alcun danno al bambino ucciso perché non è in grado di esserne consapevole. Solo le persone possono essere danneggiate, non le "non persone".

Questa tesi rafforza quanto abbiamo detto prima: tutte le persone che attribuiscono valore all'essere umano "non persona" sarebbero danneggiate dall'uccisione del neonato. A ciò si aggiunga un'altra considerazione: il concetto di danno può essere legittimamente usato anche nei confronti del venir meno di ciò che non è persona, perché indica una perdita effettiva. Infatti, parliamo di danno ambientale quando distruggiamo un giardino, una pianta, anche se il giardino e la pianta non sanno di essere danneggiate. E il concetto di danno sussiste in sé anche qualora le persone non lo percepiscano come tale. Ci devono essere motivi proporzionati al danno della distruzione perché la distruzione (e la morte) sia da preferire alla conservazione e alla tutela della vita.

Facciamo un esempio semplice e intuitivo: se compero un cucciolo di cane e dopo qualche giorno mi diventa di peso, perché scopro che è costoso mantenerlo, o che è malato, che debbo portarlo dal veterinario per seguirne la crescita, stando alla logica degli autori dovrei ucciderlo piuttosto che regalarlo o darlo al canile. Ma anche rispetto a un cane "non persona" noi diremmo che l'atto dell'uccisione è sproporzionato rispetto alla tutela degli interessi del padrone e al valore di un vivente che potrebbe continuare a vivere senza danneggiare chi peraltro lo ha comperato e in qualche modo se ne è assunto una responsabilità.

Ora, non sappiamo se gli autori ritengono che non ci siano differenze tra un cane neonato e un essere umano neonato soltanto perché entrambi sono definibili, secondo loro, come "non persone", ma risulta evidente e intuitivo che l'atto dell'uccisione di questi neonati sarebbe oggettivamente sbagliata perché sproporzionata rispetto alla tutela dell'interesse dei loro "proprietari".

Non dimentichiamo che lo stesso aborto è stato inizialmente approvato proprio facendo leva su quei casi in cui si poneva l'alternativa tra la vita (e non semplicemente un generico interesse) della madre e l'esistenza del figlio. Tutte le successive argomentazioni a favore dell'aborto hanno introdotto una evidente sproporzione tra l'atto in sé (uccidere quello che gli autori definiscono un essere umano "non persona") e le motivazioni psicologiche e sociali che fanno riferimento a danni a cui si potrebbe ovviare senza procedere all'aborto stesso.

Gli autori trascurano di considerare un elemento non secondario: la categoria di "non persona" abbraccia enti che restano pur sempre differenti a livello di valore per le persone. Per quanto un neonato, un cucciolo di cane, un verme, un sasso siano "non persone", perché non esprimono verbalmente alcun interesse a sussistere, sono però enti differenti che possono essere e di fatto sono oggetto di differente considerazione da parte delle persone. Uccidere un cucciolo di cane o un verme, distruggere un sasso o una pianta può provocare danni esistenziali molto differenti a seconda del legame affettivo ed effettivo che le persone hanno con queste "non persone". E il danno che si arreca alla realtà, alla società e alla comunità è diverso a seconda delle "non persone" che si distruggono. La distruzione e la morte provocano una situazione irreversibile e perciò nel caso dell'uccisione di un essere umano, anche qualora non fosse valutato come persona, tutti coloro che hanno progetti e interessi su di lui ricevono un danno irreversibile e quindi incommensurabile. Per questo motivo l'adozione si presenta come una soluzione doverosa alla pretesa distruttiva di chi considera un peso l'esistenza di altri, fossero pure giudicate "non persone".

In linea di principio queste osservazioni dovrebbero valere anche per l'aborto, con una differenza: per impedire che una donna abortisca la società dovrebbe imporle con la forza, qualora non riuscisse con la persuasione, a condurre a termine la gravidanza e questo potrebbe essere interpretato come un atto di violenza nei suoi confronti per chi non attribuisce all'embrione il carattere di persona. Ma qualora potessi mitigare il possibile conflitto tra madre e figlio in grembo (in termini di assistenza medica, psicologica) fosse pure considerato non ancora persona, perché non dovrei proporre strategie alternative alla pura distruzione o morte del feto?

Pur restando all'interno dei criteri proposti dagli autori, possiamo affermare che si può e deve garantire sia l'interesse della madre sia la vita del neonato semplicemente sottraendo quest'ultimo al suo potere distruttivo. Il principio generale che gli autori propongono in conclusione del loro ragionamento è, infatti, ambivalente. Se alle persone "dovrebbe essere data la possibilità di non essere costrette a fare qualcosa che non sono in grado di sopportare" ciò dovrebbe valere anche per coloro che non sono in grado di sopportare l'infanticidio.

In realtà la questione è più complessa, perché a tutti gli agenti morali è spesso richiesto di fare qualcosa che non sopportano: molti dei doveri a cui si è costretti possono presentarsi soggettivamente come insopportabili, ma questo non rende legittima la scelta di sottrarsi a essi. Gli autori, infatti, illustrano bene i diritti che le persone hanno nei confronti delle "non persone", ma trascurano di considerare i doveri che esse hanno, in primo luogo nei confronti di quegli esseri umani che, sulla base del loro comunque fallace modello teorico, sarebbero persone in potenza. La società, a cui può essere attribuito il carattere di persona giuridica, ha tutti gli interessi a tutelare l'esistenza di quelle che gli autori definiscono "non persone" per almeno due motivi: il primo, perché al suo interno ci sono persone che si sentono danneggiate dall'infanticidio e dell'embrionicidio; il secondo perché è interesse della società sviluppare nelle persone morali la consapevolezza che la morte di un essere umano supposta "non persona" sia comunque differente dalla distruzione di un vivente "non persona" o di una cosa "non persona". Ed è importante che gli atti che vengono compiuti siano proporzionati rispetto alla tutela dei propri interessi.

Al termine di questa analisi è però doveroso ribadire che l'impianto teorico proposto dagli autori è drammaticamente riduttivo, incapace di dar ragione della complessità delle relazioni tra i genitori e i figli e dei legami affettivi e morali che dovrebbero governarle. Emerge un'immagine proprietaria e cosale dei figli che è funzionale al disegno di avallare aborto e infanticidio, ma è totalmente priva di qualsiasi spessore fenomenologico e dimentica che persino nell'esperienza dell'aborto volontario risulta drammaticamente evidente che non si ha a che fare semplicemente con una "non persona".

La separazione tra il concetto di essere umano e persona umana finisce con avallare un impoverimento semantico ed etico dell'esperienza della genitorialità e impedisce di coglierne anche il valore sociale.


(©L'Osservatore Romano 22 marzo 2012)


 Scudetto della Congregazione T.S.B.

 

 
   

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