LETTERA ENCICLICA
CARITAS IN VERITATE
DEL
SOMMO PONTEFICE
BENEDETTO XVI
AI
VESCOVI
AI PRESBITERI E AI DIACONI
ALLE PERSONE CONSACRATE
AI FEDELI LAICI
E A TUTTI GLI UOMINI
DI BUONA VOLONTÀ
SULLO SVILUPPO UMANO INTEGRALE
NELLA CARITÀ E NELLA VERITÀ
INTRODUZIONE
1. La carità
nella verità, di cui Gesù Cristo s'è fatto
testimone con la sua vita terrena e, soprattutto,
con la sua morte e risurrezione, è la principale
forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni
persona e dell'umanità intera. L'amore — «
caritas » — è una forza straordinaria, che
spinge le persone a impegnarsi con coraggio e
generosità nel campo della giustizia e della pace.
È una forza che ha la sua origine in Dio, Amore
eterno e Verità assoluta. Ciascuno trova il suo
bene aderendo al progetto che Dio ha su di lui,
per realizzarlo in pienezza: in tale progetto
infatti egli trova la sua verità ed è aderendo a
tale verità che egli diventa libero (cfr Gv
8,32). Difendere la verità, proporla con umiltà e
convinzione e testimoniarla nella vita sono
pertanto forme esigenti e insostituibili di
carità. Questa, infatti, « si compiace della
verità » (1 Cor 13,6). Tutti gli uomini
avvertono l'interiore impulso ad amare in modo
autentico: amore e verità non li abbandonano mai
completamente, perché sono la vocazione posta da
Dio nel cuore e nella mente di ogni uomo. Gesù
Cristo purifica e libera dalle nostre povertà
umane la ricerca dell'amore e della verità e ci
svela in pienezza l'iniziativa di amore e il
progetto di vita vera che Dio ha preparato per
noi. In Cristo, la carità nella verità
diventa il Volto della sua Persona, una vocazione
per noi ad amare i nostri fratelli nella verità
del suo progetto. Egli stesso, infatti, è la
Verità (cfr Gv 14,6).
2. La carità è la
via maestra della dottrina sociale della Chiesa.
Ogni responsabilità e impegno delineati da tale
dottrina sono attinti alla carità che, secondo
l'insegnamento di Gesù, è la sintesi di tutta la
Legge (cfr Mt 22,36-40). Essa dà vera
sostanza alla relazione personale con Dio e con il
prossimo; è il principio non solo delle
micro-relazioni: rapporti amicali, familiari, di
piccolo gruppo, ma anche delle macro-relazioni:
rapporti sociali, economici, politici. Per la
Chiesa — ammaestrata dal Vangelo — la carità è
tutto perché, come insegna san Giovanni (cfr 1
Gv 4,8.16) e come ho ricordato nella mia prima
Lettera enciclica, « Dio è carità » (Deus
caritas est):
dalla carità di Dio tutto proviene, per essa tutto
prende forma, ad essa tutto tende. La carità è
il dono più grande che Dio abbia dato agli uomini,
è sua promessa e nostra speranza.
Sono consapevole
degli sviamenti e degli svuotamenti di senso a cui
la carità è andata e va incontro, con il
conseguente rischio di fraintenderla, di
estrometterla dal vissuto etico e, in ogni caso,
di impedirne la corretta valorizzazione. In ambito
sociale, giuridico, culturale, politico,
economico, ossia nei contesti più esposti a tale
pericolo, ne viene dichiarata facilmente
l'irrilevanza a interpretare e a dirigere le
responsabilità morali. Di qui il bisogno di
coniugare la carità con la verità non solo nella
direzione, segnata da san Paolo, della «
veritas in caritate » (Ef 4,15), ma
anche in quella, inversa e complementare, della
« caritas in veritate ». La verità va cercata,
trovata ed espressa nell'« economia » della
carità, ma la carità a sua volta va compresa,
avvalorata e praticata nella luce della verità. In
questo modo non avremo solo reso un servizio alla
carità, illuminata dalla verità, ma avremo anche
contribuito ad accreditare la verità, mostrandone
il potere di autenticazione e di persuasione nel
concreto del vivere sociale. Cosa, questa, di non
poco conto oggi, in un contesto sociale e
culturale che relativizza la verità, diventando
spesso di essa incurante e ad essa restio.
3. Per questo
stretto collegamento con la verità, la carità può
essere riconosciuta come espressione autentica di
umanità e come elemento di fondamentale importanza
nelle relazioni umane, anche di natura pubblica.
Solo nella verità la carità risplende e può
essere autenticamente vissuta. La verità è luce
che dà senso e valore alla carità. Questa luce è,
a un tempo, quella della ragione e della fede,
attraverso cui l'intelligenza perviene alla verità
naturale e soprannaturale della carità: ne coglie
il significato di donazione, di accoglienza e di
comunione. Senza verità, la carità scivola nel
sentimentalismo. L'amore diventa un guscio vuoto,
da riempire arbitrariamente. È il fatale rischio
dell'amore in una cultura senza verità. Esso è
preda delle emozioni e delle opinioni contingenti
dei soggetti, una parola abusata e distorta, fino
a significare il contrario. La verità libera la
carità dalle strettoie di un emotivismo che la
priva di contenuti relazionali e sociali, e di un
fideismo che la priva di respiro umano ed
universale. Nella verità la carità riflette la
dimensione personale e nello stesso tempo pubblica
della fede nel Dio biblico, che è insieme «
Agápe » e « Lógos »: Carità e Verità,
Amore e Parola.
4. Perché piena
di verità, la carità può essere dall'uomo compresa
nella sua ricchezza di valori, condivisa e
comunicata. La verità, infatti, è
“lógos” che crea “diá-logos” e quindi
comunicazione e comunione. La verità, facendo
uscire gli uomini dalle opinioni e dalle
sensazioni soggettive, consente loro di portarsi
al di là delle determinazioni culturali e storiche
e di incontrarsi nella valutazione del valore e
della sostanza delle cose. La verità apre e unisce
le intelligenze nel lógos dell'amore: è,
questo, l'annuncio e la testimonianza cristiana
della carità. Nell'attuale contesto sociale e
culturale, in cui è diffusa la tendenza a
relativizzare il vero, vivere la carità nella
verità porta a comprendere che l'adesione ai
valori del Cristianesimo è elemento non solo
utile, ma indispensabile per la costruzione di una
buona società e di un vero sviluppo umano
integrale. Un Cristianesimo di carità senza verità
può venire facilmente scambiato per una riserva di
buoni sentimenti, utili per la convivenza sociale,
ma marginali. In questo modo non ci sarebbe più un
vero e proprio posto per Dio nel mondo. Senza la
verità, la carità viene relegata in un ambito
ristretto e privato di relazioni. È esclusa dai
progetti e dai processi di costruzione di uno
sviluppo umano di portata universale, nel dialogo
tra i saperi e le operatività.
5. La carità è
amore ricevuto e donato. Essa è « grazia » (cháris).
La sua scaturigine è l'amore sorgivo del Padre per
il Figlio, nello Spirito Santo. È amore che dal
Figlio discende su di noi. È amore creatore, per
cui noi siamo; è amore redentore, per cui siamo
ricreati. Amore rivelato e realizzato da Cristo (cfr
Gv 13,1) e « riversato nei nostri cuori per
mezzo dello Spirito Santo » (Rm 5,5).
Destinatari dell'amore di Dio, gli uomini sono
costituiti soggetti di carità, chiamati a farsi
essi stessi strumenti della grazia, per effondere
la carità di Dio e per tessere reti di carità.
A questa dinamica
di carità ricevuta e donata risponde la dottrina
sociale della Chiesa. Essa è « caritas in
veritate in re sociali »: annuncio della
verità dell'amore di Cristo nella società. Tale
dottrina è servizio della carità, ma nella verità.
La verità preserva ed esprime la forza di
liberazione della carità nelle vicende sempre
nuove della storia. È, a un tempo, verità della
fede e della ragione, nella distinzione e insieme
nella sinergia dei due ambiti cognitivi. Lo
sviluppo, il benessere sociale, un'adeguata
soluzione dei gravi problemi socio-economici che
affliggono l'umanità, hanno bisogno di questa
verità. Ancor più hanno bisogno che tale verità
sia amata e testimoniata. Senza verità, senza
fiducia e amore per il vero, non c'è coscienza e
responsabilità sociale, e l'agire sociale cade in
balia di privati interessi e di logiche di potere,
con effetti disgregatori sulla società, tanto più
in una società in via di globalizzazione, in
momenti difficili come quelli attuali.
6. « Caritas
in veritate » è principio intorno a cui ruota
la dottrina sociale della Chiesa, un principio che
prende forma operativa in criteri orientativi
dell'azione morale. Ne desidero richiamare due in
particolare, dettati in special modo dall'impegno
per lo sviluppo in una società in via di
globalizzazione: la giustizia e il bene comune.
La giustizia
anzitutto. Ubi societas, ibi ius: ogni
società elabora un proprio sistema di giustizia.
La carità eccede la giustizia, perché amare è
donare, offrire del “mio” all'altro; ma non è mai
senza la giustizia, la quale induce a dare
all'altro ciò che è “suo”, ciò che gli spetta in
ragione del suo essere e del suo operare. Non
posso « donare » all'altro del mio, senza avergli
dato in primo luogo ciò che gli compete secondo
giustizia. Chi ama con carità gli altri è
anzitutto giusto verso di loro. Non solo la
giustizia non è estranea alla carità, non solo non
è una via alternativa o parallela alla carità: la
giustizia è « inseparabile dalla carità » [1],
intrinseca ad essa. La giustizia è la prima via
della carità o, com'ebbe a dire
Paolo VI, « la misura minima » di essa (2),
parte integrante di quell'amore « coi fatti e
nella verità » (1 Gv 3,18), a cui esorta
l'apostolo Giovanni. Da una parte, la carità esige
la giustizia: il riconoscimento e il rispetto dei
legittimi diritti degli individui e dei popoli.
Essa s'adopera per la costruzione della “città
dell'uomo” secondo diritto e giustizia.
Dall'altra, la carità supera la giustizia e la
completa nella logica del dono e del perdono (3).
La “città dell'uomo” non è promossa solo da
rapporti di diritti e di doveri, ma ancor più e
ancor prima da relazioni di gratuità, di
misericordia e di comunione. La carità manifesta
sempre anche nelle relazioni umane l'amore di Dio,
essa dà valore teologale e salvifico a ogni
impegno di giustizia nel mondo.
7. Bisogna poi
tenere in grande considerazione il bene comune.
Amare qualcuno è volere il suo bene e adoperarsi
efficacemente per esso. Accanto al bene
individuale, c'è un bene legato al vivere sociale
delle persone: il bene comune. È il bene di quel
“noi-tutti”, formato da individui, famiglie e
gruppi intermedi che si uniscono in comunità
sociale (4). Non è un bene ricercato per se
stesso, ma per le persone che fanno parte della
comunità sociale e che solo in essa possono
realmente e più efficacemente conseguire il loro
bene. Volere il bene comune e adoperarsi
per esso è esigenza di giustizia e di carità.
Impegnarsi per il bene comune è prendersi cura, da
una parte, e avvalersi, dall'altra, di quel
complesso di istituzioni che strutturano
giuridicamente, civilmente, politicamente,
culturalmente il vivere sociale, che in tal modo
prende forma di pólis, di città. Si ama
tanto più efficacemente il prossimo, quanto più ci
si adopera per un bene comune rispondente anche ai
suoi reali bisogni. Ogni cristiano è chiamato a
questa carità, nel modo della sua vocazione e
secondo le sue possibilità d'incidenza nella
pólis. È questa la via istituzionale —
possiamo anche dire politica — della carità, non
meno qualificata e incisiva di quanto lo sia la
carità che incontra il prossimo direttamente,
fuori delle mediazioni istituzionali della
pólis. Quando la carità lo anima, l'impegno
per il bene comune ha una valenza superiore a
quella dell'impegno soltanto secolare e politico.
Come ogni impegno per la giustizia, esso
s'inscrive in quella testimonianza della carità
divina che, operando nel tempo, prepara l'eterno.
L'azione dell'uomo sulla terra, quando è ispirata
e sostenuta dalla carità, contribuisce
all'edificazione di quella universale città di
Dio verso cui avanza la storia della famiglia
umana. In una società in via di globalizzazione,
il bene comune e l'impegno per esso non possono
non assumere le dimensioni dell'intera famiglia
umana, vale a dire della comunità dei popoli e
delle Nazioni (5), così da dare forma di unità e
di pace alla città dell'uomo, e renderla in
qualche misura anticipazione prefiguratrice della
città senza barriere di Dio.
8. Pubblicando
nel 1967 l'Enciclica
Populorum progressio,
il mio venerato predecessore
Paolo VI ha illuminato il grande tema dello
sviluppo dei popoli con lo splendore della verità
e con la luce soave della carità di Cristo. Egli
ha affermato che l'annuncio di Cristo è il primo e
principale fattore di sviluppo (6) e ci ha
lasciato la consegna di camminare sulla strada
dello sviluppo con tutto il nostro cuore e con
tutta la nostra intelligenza (7), vale a dire con
l'ardore della carità e la sapienza della verità.
È la verità originaria dell'amore di Dio, grazia a
noi donata, che apre la nostra vita al dono e
rende possibile sperare in uno « sviluppo di tutto
l'uomo e di tutti gli uomini » (8), in un
passaggio « da condizioni meno umane a condizioni
più umane » (9), ottenuto vincendo le difficoltà
che inevitabilmente si incontrano lungo il
cammino.
A oltre quarant'anni
dalla pubblicazione dell'Enciclica, intendo
rendere omaggio e tributare onore alla memoria del
grande Pontefice
Paolo VI, riprendendo i suoi insegnamenti
sullo sviluppo umano integrale e
collocandomi nel percorso da essi tracciato, per
attualizzarli nell'ora presente. Questo processo
di attualizzazione iniziò con l'Enciclica
Sollicitudo rei socialis, con cui il Servo
di Dio
Giovanni Paolo II volle commemorare la
pubblicazione della
Populorum progressio in occasione del suo
ventennale. Fino ad allora, una simile
commemorazione era stata riservata solo alla
Rerum novarum. Passati altri vent'anni,
esprimo la mia convinzione che la
Populorum progressio merita di essere
considerata come « la
Rerum novarum dell'epoca contemporanea »,
che illumina il cammino dell'umanità in via di
unificazione.
9. L'amore nella
verità — caritas in veritate — è una grande
sfida per la Chiesa in un mondo in progressiva e
pervasiva globalizzazione. Il rischio del nostro
tempo è che all'interdipendenza di fatto tra gli
uomini e i popoli non corrisponda l'interazione
etica delle coscienze e delle intelligenze, dalla
quale possa emergere come risultato uno sviluppo
veramente umano. Solo con la carità, illuminata
dalla luce della ragione e della fede, è
possibile conseguire obiettivi di sviluppo dotati
di una valenza più umana e umanizzante. La
condivisione dei beni e delle risorse, da cui
proviene l'autentico sviluppo, non è assicurata
dal solo progresso tecnico e da mere relazioni di
convenienza, ma dal potenziale di amore che vince
il male con il bene (cfr Rm 12,21) e apre
alla reciprocità delle coscienze e delle libertà.
La Chiesa non ha
soluzioni tecniche da offrire (10) e non pretende
« minimamente d'intromettersi nella politica degli
Stati » (11). Ha però una missione di verità da
compiere, in ogni tempo ed evenienza, per una
società a misura dell'uomo, della sua dignità,
della sua vocazione. Senza verità si cade in una
visione empiristica e scettica della vita,
incapace di elevarsi sulla prassi, perché non
interessata a cogliere i valori — talora nemmeno i
significati — con cui giudicarla e orientarla. La
fedeltà all'uomo esige la fedeltà alla verità
che, sola, è garanzia di libertà (cfr
Gv 8,32) e della possibilità di uno
sviluppo umano integrale. Per questo la Chiesa
la ricerca, l'annunzia instancabilmente e la
riconosce ovunque essa si palesi. Questa missione
di verità è per la Chiesa irrinunciabile. La sua
dottrina sociale è momento singolare di questo
annuncio: essa è servizio alla verità che libera.
Aperta alla verità, da qualsiasi sapere provenga,
la dottrina sociale della Chiesa l'accoglie,
compone in unità i frammenti in cui spesso la
ritrova, e la media nel vissuto sempre nuovo della
società degli uomini e dei popoli (12).
CAPITOLO PRIMO
IL
MESSAGGIO
DELLA POPULORUM
PROGRESSIO
10. La rilettura
della
Populorum progressio,
a oltre quarant'anni dalla pubblicazione,
sollecita a rimanere fedeli al suo messaggio di
carità e di verità, considerandolo nell'ambito
dello specifico magistero di
Paolo VI e, più in generale, dentro la
tradizione della dottrina sociale della Chiesa.
Sono poi da valutare i diversi termini in cui
oggi, a differenza da allora, si pone il problema
dello sviluppo. Il corretto punto di vista,
dunque, è quello della Tradizione della fede
apostolica (13), patrimonio antico e nuovo,
fuori del quale la
Populorum progressio sarebbe un documento
senza radici e le questioni dello sviluppo si
ridurrebbero unicamente a dati sociologici.
11. La
pubblicazione della
Populorum progressio
avvenne immediatamente dopo la conclusione del
Concilio Ecumenico Vaticano II. La stessa
Enciclica segnala, nei primi paragrafi, il suo
intimo rapporto con il
Concilio (14).
Giovanni Paolo II, vent'anni dopo, nella
Sollicitudo rei socialis sottolineava, a
sua volta, il fecondo rapporto di quella Enciclica
con il
Concilio e, in particolare, con la
Costituzione pastorale
Gaudium et spes (15). Anch'io desidero
ricordare qui l'importanza del
Concilio Vaticano II per l'Enciclica di
Paolo VI e per tutto il successivo Magistero
sociale dei Sommi Pontefici. Il
Concilio approfondì quanto appartiene da
sempre alla verità della fede, ossia che la
Chiesa, essendo a servizio di Dio, è a servizio
del mondo in termini di amore e di verità. Proprio
da questa visione partiva
Paolo VI per comunicarci due grandi verità. La
prima è che tutta la Chiesa, in tutto il suo
essere e il suo agire, quando annuncia, celebra e
opera nella carità, è tesa a promuovere lo
sviluppo integrale dell'uomo. Essa ha un ruolo
pubblico che non si esaurisce nelle sue attività
di assistenza o di educazione, ma rivela tutte le
proprie energie a servizio della promozione
dell'uomo e della fraternità universale quando può
valersi di un regime di libertà. In non pochi casi
tale libertà è impedita da divieti e da
persecuzioni o è anche limitata quando la presenza
pubblica della Chiesa viene ridotta unicamente
alle sue attività caritative. La seconda verità è
che l'autentico sviluppo dell'uomo riguarda
unitariamente la totalità della persona in ogni
sua dimensione (16). Senza la prospettiva di
una vita eterna, il progresso umano in questo
mondo rimane privo di respiro. Chiuso dentro la
storia, esso è esposto al rischio di ridursi al
solo incremento dell'avere; l'umanità perde così
il coraggio di essere disponibile per i beni più
alti, per le grandi e disinteressate iniziative
sollecitate dalla carità universale. L'uomo non si
sviluppa con le sole proprie forze, né lo sviluppo
gli può essere semplicemente dato dall'esterno.
Lungo la storia, spesso si è ritenuto che la
creazione di istituzioni fosse sufficiente a
garantire all'umanità il soddisfacimento del
diritto allo sviluppo. Purtroppo, si è riposta
un'eccessiva fiducia in tali istituzioni, quasi
che esse potessero conseguire l'obiettivo
desiderato in maniera automatica. In realtà, le
istituzioni da sole non bastano, perché lo
sviluppo umano integrale è anzitutto vocazione e,
quindi, comporta una libera e solidale assunzione
di responsabilità da parte di tutti. Un tale
sviluppo richiede, inoltre, una visione
trascendente della persona, ha bisogno di Dio:
senza di Lui lo sviluppo o viene negato o viene
affidato unicamente alle mani dell'uomo, che cade
nella presunzione dell'auto-salvezza e finisce per
promuovere uno sviluppo disumanizzato. D'altronde,
solo l'incontro con Dio permette di non “vedere
nell'altro sempre soltanto l'altro” (17), ma di
riconoscere in lui l'immagine divina, giungendo
così a scoprire veramente l'altro e a maturare un
amore che “diventa cura dell'altro e per l'altro”
(18) .
12. Il legame tra
la
Populorum progressio
e il
Concilio Vaticano II non rappresenta una
cesura tra il Magistero sociale di
Paolo VI e quello dei Pontefici suoi
predecessori, dato che il
Concilio costituisce un approfondimento di
tale magistero nella continuità della vita della
Chiesa (19). In questo senso, non contribuiscono a
fare chiarezza certe astratte suddivisioni della
dottrina sociale della Chiesa che applicano
all'insegnamento sociale pontificio categorie ad
esso estranee. Non ci sono due tipologie di
dottrina sociale, una preconciliare e una
postconciliare, diverse tra loro, ma un unico
insegnamento, coerente e nello stesso tempo sempre
nuovo (20). È giusto rilevare le peculiarità
dell'una o dell'altra Enciclica, dell'insegnamento
dell'uno o dell'altro Pontefice, mai però perdendo
di vista la coerenza dell'intero corpus
dottrinale (21). Coerenza non significa chiusura
in un sistema, quanto piuttosto fedeltà dinamica a
una luce ricevuta. La dottrina sociale della
Chiesa illumina con una luce che non muta i
problemi sempre nuovi che emergono (22). Ciò
salvaguarda il carattere sia permanente che
storico di questo « patrimonio » dottrinale (23)
che, con le sue specifiche caratteristiche, fa
parte della Tradizione sempre vitale della Chiesa
(24). La dottrina sociale è costruita sopra il
fondamento trasmesso dagli Apostoli ai Padri della
Chiesa e poi accolto e approfondito dai grandi
Dottori cristiani. Tale dottrina si rifà in
definitiva all'Uomo nuovo, all'« ultimo Adamo che
divenne spirito datore di vita » (1 Cor
15,45) e che è principio della carità che « non
avrà mai fine » (1 Cor 13,8). È
testimoniata dai Santi e da quanti hanno dato la
vita per Cristo Salvatore nel campo della
giustizia e della pace. In essa si esprime il
compito profetico dei Sommi Pontefici di guidare
apostolicamente la Chiesa di Cristo e di
discernere le nuove esigenze
dell'evangelizzazione. Per queste ragioni, la
Populorum progressio, inserita nella
grande corrente della Tradizione, è in grado di
parlare ancora a noi, oggi.
13. Oltre al suo
importante legame con l'intera dottrina sociale
della Chiesa, la
Populorum progressio è strettamente connessa
con il magistero complessivo di
Paolo VI
e, in particolare, con il suo magistero sociale.
Il suo fu certo un insegnamento sociale di grande
rilevanza: egli ribadì l'imprescindibile
importanza del Vangelo per la costruzione della
società secondo libertà e giustizia, nella
prospettiva ideale e storica di una civiltà
animata dall'amore.
Paolo VI comprese chiaramente come la
questione sociale fosse diventata mondiale (25) e
colse il richiamo reciproco tra la spinta
all'unificazione dell'umanità e l'ideale cristiano
di un'unica famiglia dei popoli, solidale nella
comune fraternità. Indicò nello sviluppo,
umanamente e cristianamente inteso, il cuore del
messaggio sociale cristiano e propose la
carità cristiana come principale forza a servizio
dello sviluppo. Mosso dal desiderio di rendere
l'amore di Cristo pienamente visibile all'uomo
contemporaneo,
Paolo VI affrontò con fermezza importanti
questioni etiche, senza cedere alle debolezze
culturali del suo tempo.
14. Con la
Lettera apostolica
Octogesima adveniens
del 1971,
Paolo VI trattò poi il tema del senso della
politica e del pericolo costituito da visioni
utopistiche e ideologiche che ne
pregiudicavano la qualità etica e umana. Sono
argomenti strettamente collegati con lo sviluppo.
Purtroppo le ideologie negative fioriscono in
continuazione. Dall'ideologia tecnocratica,
particolarmente radicata oggi,
Paolo VI aveva già messo in guardia (26),
consapevole del grande pericolo di affidare
l'intero processo dello sviluppo alla sola
tecnica, perché in tal modo rimarrebbe senza
orientamento. La tecnica, presa in se stessa, è
ambivalente. Se da un lato, oggi, vi è chi
propende ad affidarle interamente detto processo
di sviluppo, dall'altro si assiste all'insorgenza
di ideologie che negano in toto l'utilità
stessa dello sviluppo, ritenuto radicalmente
anti-umano e portatore solo di degradazione. Così,
si finisce per condannare non solo il modo
distorto e ingiusto con cui gli uomini talvolta
orientano il progresso, ma le stesse scoperte
scientifiche, che, se ben usate, costituiscono
invece un'opportunità di crescita per tutti.
L'idea di un mondo senza sviluppo esprime sfiducia
nell'uomo e in Dio. È, quindi, un grave errore
disprezzare le capacità umane di controllare le
distorsioni dello sviluppo o addirittura ignorare
che l'uomo è costitutivamente proteso verso l'«
essere di più ». Assolutizzare ideologicamente il
progresso tecnico oppure vagheggiare l'utopia di
un'umanità tornata all'originario stato di natura
sono due modi opposti per separare il progresso
dalla sua valutazione morale e, quindi, dalla
nostra responsabilità.
15. Altri due
documenti di
Paolo VI non strettamente connessi con la
dottrina sociale — l'Enciclica
Humanae vitae, del 25 luglio 1968, e
l'Esortazione apostolica
Evangelii nuntiandi, dell'8 dicembre 1975
— sono molto importanti per delineare il senso
pienamente umano dello sviluppo proposto dalla
Chiesa. È quindi opportuno leggere anche
questi testi in relazione con la
Populorum progressio.
L'Enciclica
Humanae vitae
sottolinea il significato insieme unitivo e
procreativo della sessualità, ponendo così a
fondamento della società la coppia degli sposi,
uomo e donna, che si accolgono reciprocamente
nella distinzione e nella complementarità; una
coppia, dunque, aperta alla vita (27). Non si
tratta di morale meramente individuale: la
Humanae vitae
indica i forti
legami esistenti tra etica della vita ed etica
sociale, inaugurando una tematica magisteriale
che ha via via preso corpo in vari documenti, da
ultimo nell'Enciclica
Evangelium vitae
di
Giovanni Paolo II (28). La Chiesa propone con
forza questo collegamento tra etica della vita e
etica sociale nella consapevolezza che non può
“avere solide basi una società che — mentre
afferma valori quali la dignità della persona, la
giustizia e la pace — si contraddice radicalmente
accettando e tollerando le più diverse forme di
disistima e violazione della vita umana,
soprattutto se debole ed emarginata” (29).
L'Esortazione
apostolica
Evangelii nuntiandi,
per parte sua, ha un rapporto molto intenso con lo
sviluppo, in quanto « l'evangelizzazione —
scriveva
Paolo VI — non sarebbe completa se non tenesse
conto del reciproco appello, che si fanno
continuamente il Vangelo e la vita concreta,
personale e sociale, dell'uomo » (30). « Tra
evangelizzazione e promozione umana — sviluppo,
liberazione — ci sono infatti dei legami profondi
» (31): partendo da questa consapevolezza,
Paolo VI poneva in modo chiaro il rapporto tra
l'annuncio di Cristo e la promozione della persona
nella società. La testimonianza della carità di
Cristo attraverso opere di giustizia, pace e
sviluppo fa parte della evangelizzazione,
perché a Gesù Cristo, che ci ama, sta a cuore
tutto l'uomo. Su questi importanti insegnamenti si
fonda l'aspetto missionario (32) della dottrina
sociale della Chiesa come elemento essenziale di
evangelizzazione (33). La dottrina sociale della
Chiesa è annuncio e testimonianza di fede. È
strumento e luogo imprescindibile di educazione ad
essa.
16. Nella
Populorum progressio,
Paolo VI ha voluto dirci, prima di tutto, che
il progresso è, nella sua scaturigine e nella sua
essenza, una vocazione: « Nel disegno di
Dio, ogni uomo è chiamato a uno sviluppo, perché
ogni vita è vocazione » (34). È proprio questo
fatto a legittimare l'intervento della Chiesa
nelle problematiche dello sviluppo. Se esso
riguardasse solo aspetti tecnici della vita
dell'uomo, e non il senso del suo camminare nella
storia assieme agli altri suoi fratelli né
l'individuazione della meta di tale cammino, la
Chiesa non avrebbe titolo per parlarne.
Paolo VI, come già
Leone XIII nella
Rerum novarum (35), era consapevole di
assolvere un dovere proprio del suo ufficio
proiettando la luce del Vangelo sulle questioni
sociali del suo tempo (36).
Dire che lo
sviluppo è vocazione equivale a riconoscere,
da una parte, che esso nasce da un appello
trascendente e, dall'altra, che è incapace di
darsi da sé il proprio significato ultimo. Non
senza motivo la parola « vocazione » ricorre anche
in un altro passo dell'Enciclica, ove si afferma:
« Non vi è dunque umanesimo vero se non aperto
verso l'Assoluto, nel riconoscimento d'una
vocazione, che offre l'idea vera della vita umana
» (37). Questa visione dello sviluppo è il cuore
della
Populorum progressio
e motiva tutte le riflessioni di
Paolo VI sulla libertà, sulla verità e sulla
carità nello sviluppo. È anche la ragione
principale per cui quell'Enciclica è ancora
attuale ai nostri giorni.
17. La vocazione
è un appello che richiede una risposta libera e
responsabile. Lo sviluppo umano integrale
suppone la libertà responsabile della persona
e dei popoli: nessuna struttura può garantire tale
sviluppo al di fuori e al di sopra della
responsabilità umana. I « messianismi carichi di
promesse, ma fabbricatori di illusioni » (38)
fondano sempre le proprie proposte sulla negazione
della dimensione trascendente dello sviluppo,
nella sicurezza di averlo tutto a propria
disposizione. Questa falsa sicurezza si tramuta in
debolezza, perché comporta l'asservimento
dell'uomo ridotto a mezzo per lo sviluppo, mentre
l'umiltà di chi accoglie una vocazione si
trasforma in vera autonomia, perché rende libera
la persona.
Paolo VI non ha dubbi che ostacoli e
condizionamenti frenino lo sviluppo, ma è anche
certo che « ciascuno rimane, qualunque siano le
influenze che si esercitano su di lui, l'artefice
della sua riuscita o del suo fallimento » (39).
Questa libertà riguarda lo sviluppo che abbiamo
davanti a noi ma, contemporaneamente, riguarda
anche le situazioni di sottosviluppo, che non sono
frutto del caso o di una necessità storica, ma
dipendono dalla responsabilità umana. È per questo
che « i popoli della fame interpellano oggi in
maniera drammatica i popoli dell'opulenza » (40).
Anche questo è vocazione, un appello rivolto da
uomini liberi a uomini liberi per una comune
assunzione di responsabilità. Fu viva in
Paolo VI la percezione dell'importanza delle
strutture economiche e delle istituzioni, ma
altrettanto chiara fu in lui la percezione della
loro natura di strumenti della libertà umana. Solo
se libero, lo sviluppo può essere integralmente
umano; solo in un regime di libertà responsabile
esso può crescere in maniera adeguata.
18. Oltre a
richiedere la libertà, lo sviluppo umano
integrale come vocazione esige anche che se ne
rispetti la verità. La vocazione al progresso
spinge gli uomini a « fare, conoscere e avere di
più, per essere di più » (41). Ma ecco il
problema: che cosa significa « essere di più »?
Alla domanda
Paolo VI risponde indicando la connotazione
essenziale dell'« autentico sviluppo »: esso «
deve essere integrale, il che vuol dire volto alla
promozione di ogni uomo e di tutto l'uomo » (42).
Nella concorrenza tra le varie visioni dell'uomo,
che vengono proposte nella società di oggi ancor
più che in quella di
Paolo VI, la visione cristiana ha la
peculiarità di affermare e giustificare il valore
incondizionato della persona umana e il senso
della sua crescita. La vocazione cristiana allo
sviluppo aiuta a perseguire la promozione di tutti
gli uomini e di tutto l'uomo. Scriveva
Paolo VI: « Ciò che conta per noi è l'uomo,
ogni uomo, ogni gruppo d'uomini, fino a
comprendere l'umanità tutta intera » (43). La fede
cristiana si occupa dello sviluppo non contando su
privilegi o su posizioni di potere e neppure sui
meriti dei cristiani, che pure ci sono stati e ci
sono anche oggi accanto a naturali limiti (44), ma
solo su Cristo, al Quale va riferita ogni
autentica vocazione allo sviluppo umano integrale.
Il Vangelo è elemento fondamentale dello
sviluppo, perché in esso Cristo, « rivelando
il mistero del Padre e del suo amore, svela anche
pienamente l'uomo all'uomo » (45). Ammaestrata dal
suo Signore, la Chiesa scruta i segni dei tempi e
li interpreta ed offre al mondo « ciò che possiede
in proprio: una visione globale dell'uomo e
dell'umanità » (46). Proprio perché Dio pronuncia
il più grande « sì » all'uomo (47), l'uomo non può
fare a meno di aprirsi alla vocazione divina per
realizzare il proprio sviluppo. La verità dello
sviluppo consiste nella sua integralità: se non è
di tutto l'uomo e di ogni uomo, lo sviluppo non è
vero sviluppo. Questo è il messaggio centrale
della
Populorum progressio, valido oggi e
sempre. Lo sviluppo umano integrale sul piano
naturale, risposta a una vocazione di Dio creatore
(48), domanda il proprio inveramento in un «
umanesimo trascendente, che ... conferisce
[all'uomo] la sua più grande pienezza: questa è la
finalità suprema dello sviluppo personale » (49).
La vocazione cristiana a tale sviluppo riguarda
dunque sia il piano naturale sia quello
soprannaturale; motivo per cui, « quando Dio viene
eclissato, la nostra capacità di riconoscere
l'ordine naturale, lo scopo e il “bene” comincia a
svanire » (50).
19. Infine, la
visione dello sviluppo come vocazione comporta la
centralità in esso della carità.
Paolo VI nell'Enciclica
Populorum progressio osservava che le
cause del sottosviluppo non sono primariamente di
ordine materiale. Egli ci invitava a ricercarle in
altre dimensioni dell'uomo. Nella volontà, prima
di tutto, che spesso disattende i doveri della
solidarietà. Nel pensiero, in secondo luogo, che
non sempre sa orientare convenientemente il
volere. Per questo, nel perseguimento dello
sviluppo, servono « uomini di pensiero capaci di
riflessione profonda, votati alla ricerca d'un
umanesimo nuovo, che permetta all'uomo moderno di
ritrovare se stesso » (51). Ma non è tutto. Il
sottosviluppo ha una causa ancora più importante
della carenza di pensiero: è « la mancanza di
fraternità tra gli uomini e tra i popoli » (52).
Questa fraternità, gli uomini potranno mai
ottenerla da soli? La società sempre più
globalizzata ci rende vicini, ma non ci rende
fratelli. La ragione, da sola, è in grado di
cogliere l'uguaglianza tra gli uomini e di
stabilire una convivenza civica tra loro, ma non
riesce a fondare la fraternità. Questa ha origine
da una vocazione trascendente di Dio Padre, che ci
ha amati per primo, insegnandoci per mezzo del
Figlio che cosa sia la carità fraterna.
Paolo VI, presentando i vari livelli del
processo di sviluppo dell'uomo, poneva al vertice,
dopo aver menzionato la fede, « l'unità nella
carità del Cristo che ci chiama tutti a
partecipare in qualità di figli alla vita del Dio
vivente, Padre di tutti gli uomini » (53).
20. Queste
prospettive, aperte dalla
Populorum progressio,
rimangono fondamentali per dare respiro e
orientamento al nostro impegno per lo sviluppo dei
popoli. La
Populorum progressio,
poi, sottolinea ripetutamente l'urgenza delle
riforme (54) e chiede che davanti ai grandi
problemi dell'ingiustizia nello sviluppo dei
popoli si agisca con coraggio e senza indugio.
Questa urgenza è dettata anche dalla carità
nella verità. È la carità di Cristo che ci
spinge: « caritas Christi urget nos » (2
Cor 5,14). L'urgenza è inscritta non solo
nelle cose, non deriva soltanto dall'incalzare
degli avvenimenti e dei problemi, ma anche dalla
stessa posta in palio: la realizzazione di
un'autentica fraternità. La rilevanza di questo
obiettivo è tale da esigere la nostra apertura a
capirlo fino in fondo e a mobilitarci in concreto
con il « cuore », per far evolvere gli attuali
processi economici e sociali verso esiti
pienamente umani.
CAPITOLO SECONDO
LO SVILUPPO UMANO
NEL NOSTRO TEMPO
21.
Paolo VI aveva una visione articolata dello
sviluppo. Con il termine « sviluppo » voleva
indicare l'obiettivo di far uscire i popoli
anzitutto dalla fame, dalla miseria, dalle
malattie endemiche e dall'analfabetismo. Dal punto
di vista economico, ciò significava la loro
partecipazione attiva e in condizioni di parità al
processo economico internazionale; dal punto di
vista sociale, la loro evoluzione verso società
istruite e solidali; dal punto di vista politico,
il consolidamento di regimi democratici in grado
di assicurare libertà e pace. Dopo tanti anni,
mentre guardiamo con preoccupazione agli sviluppi
e alle prospettive delle crisi che si susseguono
in questi tempi, ci domandiamo quanto le
aspettative di Paolo VI siano state soddisfatte
dal modello di sviluppo che è stato adottato negli
ultimi decenni. Riconosciamo pertanto che erano
fondate le preoccupazioni della Chiesa sulle
capacità dell'uomo solo tecnologico di sapersi
dare obiettivi realistici e di saper gestire
sempre adeguatamente gli strumenti a disposizione.
Il profitto è utile se, in quanto mezzo, è
orientato ad un fine che gli fornisca un senso
tanto sul come produrlo quanto sul come
utilizzarlo. L'esclusivo obiettivo del profitto,
se mal prodotto e senza il bene comune come fine
ultimo, rischia di distruggere ricchezza e creare
povertà. Lo sviluppo economico che auspicava
Paolo VI doveva essere tale da produrre una
crescita reale, estensibile a tutti e
concretamente sostenibile. È vero che lo sviluppo
c'è stato e continua ad essere un fattore positivo
che ha tolto dalla miseria miliardi di persone e,
ultimamente, ha dato a molti Paesi la possibilità
di diventare attori efficaci della politica
internazionale. Va tuttavia riconosciuto che lo
stesso sviluppo economico è stato e continua ad
essere gravato da distorsioni e drammatici
problemi, messi ancora più in risalto
dall'attuale situazione di crisi. Essa ci pone
improrogabilmente di fronte a scelte che
riguardano sempre più il destino stesso dell'uomo,
il quale peraltro non può prescindere dalla sua
natura. Le forze tecniche in campo, le
interrelazioni planetarie, gli effetti deleteri
sull'economia reale di un'attività finanziaria mal
utilizzata e per lo più speculativa, gli imponenti
flussi migratori, spesso solo provocati e non poi
adeguatamente gestiti, lo sfruttamento sregolato
delle risorse della terra, ci inducono oggi a
riflettere sulle misure necessarie per dare
soluzione a problemi non solo nuovi rispetto a
quelli affrontati dal Papa
Paolo VI, ma anche, e soprattutto, di impatto
decisivo per il bene presente e futuro
dell'umanità. Gli aspetti della crisi e delle sue
soluzioni, nonché di un futuro nuovo possibile
sviluppo, sono sempre più interconnessi, si
implicano a vicenda, richiedono nuovi sforzi di
comprensione unitaria e una nuova sintesi
umanistica. La complessità e gravità
dell'attuale situazione economica giustamente ci
preoccupa, ma dobbiamo assumere con realismo,
fiducia e speranza le nuove responsabilità a cui
ci chiama lo scenario di un mondo che ha bisogno
di un profondo rinnovamento culturale e della
riscoperta di valori di fondo su cui costruire un
futuro migliore. La crisi ci obbliga a
riprogettare il nostro cammino, a darci nuove
regole e a trovare nuove forme di impegno, a
puntare sulle esperienze positive e a rigettare
quelle negative. La crisi diventa così
occasione di discernimento e di nuova
progettualità. In questa chiave, fiduciosa
piuttosto che rassegnata, conviene affrontare le
difficoltà del momento presente.
22. Oggi il
quadro dello sviluppo è policentrico. Gli
attori e le cause sia del sottosviluppo sia dello
sviluppo sono molteplici, le colpe e i meriti sono
differenziati. Questo dato dovrebbe spingere a
liberarsi dalle ideologie, che semplificano in
modo spesso artificioso la realtà, e indurre a
esaminare con obiettività lo spessore umano dei
problemi. La linea di demarcazione tra Paesi
ricchi e poveri non è più così netta come ai tempi
della
Populorum progressio,
secondo quanto già aveva segnalato
Giovanni Paolo II (55). Cresce la ricchezza
mondiale in termini assoluti, ma aumentano le
disparità. Nei Paesi ricchi nuove categorie
sociali si impoveriscono e nascono nuove povertà.
In aree più povere alcuni gruppi godono di una
sorta di supersviluppo dissipatore e consumistico
che contrasta in modo inaccettabile con perduranti
situazioni di miseria disumanizzante. Continua «
lo scandalo di disuguaglianze clamorose » (56). La
corruzione e l'illegalità sono purtroppo presenti
sia nel comportamento di soggetti economici e
politici dei Paesi ricchi, vecchi e nuovi, sia
negli stessi Paesi poveri. A non rispettare i
diritti umani dei lavoratori sono a volte grandi
imprese transnazionali e anche gruppi di
produzione locale. Gli aiuti internazionali sono
stati spesso distolti dalle loro finalità, per
irresponsabilità che si annidano sia nella catena
dei soggetti donatori sia in quella dei fruitori.
Anche nell'ambito delle cause immateriali o
culturali dello sviluppo e del sottosviluppo
possiamo trovare la medesima articolazione di
responsabilità. Ci sono forme eccessive di
protezione della conoscenza da parte dei Paesi
ricchi, mediante un utilizzo troppo rigido del
diritto di proprietà intellettuale, specialmente
nel campo sanitario. Nello stesso tempo, in alcuni
Paesi poveri persistono modelli culturali e norme
sociali di comportamento che rallentano il
processo di sviluppo.
23. Molte aree
del pianeta, oggi, seppure in modo problematico e
non omogeneo, si sono evolute, entrando nel novero
delle grandi potenze destinate a giocare ruoli
importanti nel futuro. Va tuttavia sottolineato
come non sia sufficiente progredire solo da un
punto di vista economico e tecnologico.
Bisogna che lo sviluppo sia anzitutto vero e
integrale. L'uscita dall'arretratezza economica,
un dato in sé positivo, non risolve la complessa
problematica della promozione dell'uomo, né per i
Paesi protagonisti di questi avanzamenti, né per i
Paesi economicamente già sviluppati, né per quelli
ancora poveri, i quali possono soffrire, oltre che
delle vecchie forme di sfruttamento, anche delle
conseguenze negative derivanti da una crescita
contrassegnata da distorsioni e squilibri.
Dopo il crollo
dei sistemi economici e politici dei Paesi
comunisti dell'Europa orientale e la fine dei
cosiddetti “blocchi contrapposti”, sarebbe stato
necessario un complessivo ripensamento dello
sviluppo. Lo aveva chiesto
Giovanni Paolo II, il quale nel 1987 aveva
indicato l'esistenza di questi “blocchi” come una
delle principali cause del sottosviluppo (57), in
quanto la politica sottraeva risorse all'economia
e alla cultura e l'ideologia inibiva la libertà.
Nel 1991, dopo gli avvenimenti del 1989, egli
chiese anche che, alla fine dei “blocchi”,
corrispondesse una riprogettazione globale dello
sviluppo, non solo in quei Paesi, ma anche in
Occidente e in quelle parti del mondo che andavano
evolvendosi (58). Questo è avvenuto solo in parte
e continua ad essere un reale dovere al quale
occorre dare soddisfazione, magari profittando
proprio delle scelte necessarie a superare gli
attuali problemi economici.
24. Il mondo che
Paolo VI aveva davanti a sé, benché il
processo di socializzazione fosse già avanzato
così che egli poteva parlare di una questione
sociale divenuta mondiale, era ancora molto meno
integrato di quello odierno. Attività economica e
funzione politica si svolgevano in gran parte
dentro lo stesso ambito spaziale e potevano quindi
fare reciproco affidamento. L'attività produttiva
avveniva prevalentemente all'interno dei confini
nazionali e gli investimenti finanziari avevano
una circolazione piuttosto limitata all'estero,
sicché la politica di molti Stati poteva ancora
fissare le priorità dell'economia e, in qualche
modo, governarne l'andamento con gli strumenti di
cui ancora disponeva. Per questo motivo la
Populorum progressio assegnava un compito
centrale, anche se non esclusivo, ai « poteri
pubblici » (59).
Nella nostra
epoca, lo Stato si trova nella situazione di dover
far fronte alle limitazioni che alla sua sovranità
frappone il nuovo contesto economico-commerciale e
finanziario internazionale, contraddistinto anche
da una crescente mobilità dei capitali finanziari
e dei mezzi di produzione materiali ed
immateriali. Questo nuovo contesto ha modificato
il potere politico degli Stati.
Oggi, facendo
anche tesoro della lezione che ci viene dalla
crisi economica in atto che vede i pubblici
poteri dello Stato impegnati direttamente a
correggere errori e disfunzioni, sembra più
realistica una rinnovata valutazione del loro
ruolo e del loro potere, che vanno saggiamente
riconsiderati e rivalutati in modo che siano in
grado, anche attraverso nuove modalità di
esercizio, di far fronte alle sfide del mondo
odierno. Con un meglio calibrato ruolo dei
pubblici poteri, è prevedibile che si rafforzino
quelle nuove forme di partecipazione alla politica
nazionale e internazionale che si realizzano
attraverso l'azione delle Organizzazioni operanti
nella società civile; in tale direzione è
auspicabile che crescano un'attenzione e una
partecipazione più sentite alla res publica
da parte dei cittadini.
25. Dal punto di
vista sociale, i sistemi di protezione e
previdenza, già presenti ai tempi di
Paolo VI in molti Paesi, faticano e potrebbero
faticare ancor più in futuro a perseguire i loro
obiettivi di vera giustizia sociale entro un
quadro di forze profondamente mutato. Il mercato
diventato globale ha stimolato anzitutto, da parte
di Paesi ricchi, la ricerca di aree dove
delocalizzare le produzioni di basso costo al fine
di ridurre i prezzi di molti beni, accrescere il
potere di acquisto e accelerare pertanto il tasso
di sviluppo centrato su maggiori consumi per il
proprio mercato interno. Conseguentemente, il
mercato ha stimolato forme nuove di competizione
tra Stati allo scopo di attirare centri produttivi
di imprese straniere, mediante vari strumenti, tra
cui un fisco favorevole e la deregolamentazione
del mondo del lavoro. Questi processi hanno
comportato la riduzione delle reti di sicurezza
sociale in cambio della ricerca di maggiori
vantaggi competitivi nel mercato globale, con
grave pericolo per i diritti dei lavoratori, per i
diritti fondamentali dell'uomo e per la
solidarietà attuata nelle tradizionali forme dello
Stato sociale. I sistemi di sicurezza sociale
possono perdere la capacità di assolvere al loro
compito, sia nei Paesi emergenti, sia in quelli di
antico sviluppo, oltre che nei Paesi poveri. Qui
le politiche di bilancio, con i tagli alla spesa
sociale, spesso anche promossi dalle Istituzioni
finanziarie internazionali, possono lasciare i
cittadini impotenti di fronte a rischi vecchi e
nuovi; tale impotenza è accresciuta dalla mancanza
di protezione efficace da parte delle associazioni
dei lavoratori. L'insieme dei cambiamenti sociali
ed economici fa sì che le organizzazioni
sindacali sperimentino maggiori difficoltà a
svolgere il loro compito di rappresentanza degli
interessi dei lavoratori, anche per il fatto che i
Governi, per ragioni di utilità economica,
limitano spesso le libertà sindacali o la capacità
negoziale dei sindacati stessi. Le reti di
solidarietà tradizionali trovano così crescenti
ostacoli da superare. L'invito della dottrina
sociale della Chiesa, cominciando dalla
Rerum novarum (60), a dar vita ad
associazioni di lavoratori per la difesa dei
propri diritti va pertanto onorato oggi ancor più
di ieri, dando innanzitutto una risposta pronta e
lungimirante all'urgenza di instaurare nuove
sinergie a livello internazionale, oltre che
locale.
La mobilità
lavorativa, associata alla deregolamentazione
generalizzata, è stata un fenomeno importante, non
privo di aspetti positivi perché capace di
stimolare la produzione di nuova ricchezza e lo
scambio tra culture diverse. Tuttavia, quando
l'incertezza circa le condizioni di lavoro, in
conseguenza dei processi di mobilità e di
deregolamentazione, diviene endemica, si creano
forme di instabilità psicologica, di difficoltà a
costruire propri percorsi coerenti nell'esistenza,
compreso anche quello verso il matrimonio.
Conseguenza di ciò è il formarsi di situazioni di
degrado umano, oltre che di spreco sociale.
Rispetto a quanto accadeva nella società
industriale del passato, oggi la disoccupazione
provoca aspetti nuovi di irrilevanza economica e
l'attuale crisi può solo peggiorare tale
situazione. L'estromissione dal lavoro per lungo
tempo, oppure la dipendenza prolungata
dall'assistenza pubblica o privata, minano la
libertà e la creatività della persona e i suoi
rapporti familiari e sociali con forti sofferenze
sul piano psicologico e spirituale. Desidererei
ricordare a tutti, soprattutto ai governanti
impegnati a dare un profilo rinnovato agli assetti
economici e sociali del mondo, che il primo
capitale da salvaguardare e valorizzare è l'uomo,
la persona, nella sua integrità: “L'uomo
infatti è l'autore, il centro e il fine di tutta
la vita economico-sociale” (61).
26. Sul piano
culturale, rispetto all'epoca di
Paolo VI, la differenza è ancora più marcata.
Allora le culture erano piuttosto ben definite e
avevano maggiori possibilità di difendersi dai
tentativi di omogeneizzazione culturale. Oggi le
possibilità di interazione tra le culture
sono notevolmente aumentate dando spazio a nuove
prospettive di dialogo interculturale, un dialogo
che, per essere efficace, deve avere come punto di
partenza l'intima consapevolezza della specifica
identità dei vari interlocutori. Non va tuttavia
trascurato il fatto che l'accresciuta
mercificazione degli scambi culturali favorisce
oggi un duplice pericolo. Si nota, in primo luogo,
un eclettismo culturale assunto spesso
acriticamente: le culture vengono semplicemente
accostate e considerate come sostanzialmente
equivalenti e tra loro interscambiabili. Ciò
favorisce il cedimento ad un relativismo che non
aiuta il vero dialogo interculturale; sul piano
sociale il relativismo culturale fa sì che i
gruppi culturali si accostino o convivano ma
separati, senza dialogo autentico e, quindi, senza
vera integrazione. In secondo luogo, esiste il
pericolo opposto, che è costituito dall'appiattimento
culturale e dall'omologazione dei
comportamenti e degli stili di vita. In questo
modo viene perduto il significato profondo della
cultura delle varie Nazioni, delle tradizioni dei
vari popoli, entro le quali la persona si misura
con le domande fondamentali dell'esistenza (62).
Eclettismo e appiattimento culturale convergono
nella separazione della cultura dalla natura
umana. Così, le culture non sanno più trovare la
loro misura in una natura che le trascende (63),
finendo per ridurre l'uomo a solo dato culturale.
Quando questo avviene, l'umanità corre nuovi
pericoli di asservimento e di manipolazione.
27. In molti
Paesi poveri permane e rischia di accentuarsi
l'estrema insicurezza di vita, che è conseguenza
della carenza di alimentazione: la fame
miete ancora moltissime vittime tra i tanti
Lazzaro ai quali non è consentito, come aveva
auspicato
Paolo VI, di sedersi alla mensa del ricco
epulone (64). Dare da mangiare agli affamati
(cfr Mt 25, 35.37.42) è un imperativo etico
per la Chiesa universale, che risponde agli
insegnamenti di solidarietà e di condivisione del
suo Fondatore, il Signore Gesù. Inoltre, eliminare
la fame nel mondo è divenuta, nell'era della
globalizzazione, anche un traguardo da perseguire
per salvaguardare la pace e la stabilità del
pianeta. La fame non dipende tanto da scarsità
materiale, quanto piuttosto da scarsità di risorse
sociali, la più importante delle quali è di natura
istituzionale. Manca, cioè, un assetto di
istituzioni economiche in grado sia di garantire
un accesso al cibo e all'acqua regolare e adeguato
dal punto di vista nutrizionale, sia di
fronteggiare le necessità connesse con i bisogni
primari e con le emergenze di vere e proprie crisi
alimentari, provocate da cause naturali o
dall'irresponsabilità politica nazionale e
internazionale. Il problema dell'insicurezza
alimentare va affrontato in una prospettiva di
lungo periodo, eliminando le cause strutturali che
lo provocano e promuovendo lo sviluppo agricolo
dei Paesi più poveri mediante investimenti in
infrastrutture rurali, in sistemi di irrigazione,
in trasporti, in organizzazione dei mercati, in
formazione e diffusione di tecniche agricole
appropriate, capaci cioè di utilizzare al meglio
le risorse umane, naturali e socio-economiche
maggiormente accessibili a livello locale, in modo
da garantire una loro sostenibilità anche nel
lungo periodo. Tutto ciò va realizzato
coinvolgendo le comunità locali nelle scelte e
nelle decisioni relative all'uso della terra
coltivabile. In tale prospettiva, potrebbe
risultare utile considerare le nuove frontiere che
vengono aperte da un corretto impiego delle
tecniche di produzione agricola tradizionali e di
quelle innovative, supposto che esse siano state
dopo adeguata verifica riconosciute opportune,
rispettose dell'ambiente e attente alle
popolazioni più svantaggiate. Al tempo stesso, non
dovrebbe venir trascurata la questione di un'equa
riforma agraria nei Paesi in via di sviluppo. Il
diritto all'alimentazione, così come quello
all'acqua, rivestono un ruolo importante per il
conseguimento di altri diritti, ad iniziare,
innanzitutto, dal diritto primario alla vita. È
necessario, pertanto, che maturi una coscienza
solidale che consideri l'alimentazione e
l'accesso all'acqua come diritti universali di
tutti gli esseri umani, senza distinzioni né
discriminazioni (65). È importante inoltre
evidenziare come la via solidaristica allo
sviluppo dei Paesi poveri possa costituire un
progetto di soluzione della crisi globale in atto,
come uomini politici e responsabili di Istituzioni
internazionali hanno negli ultimi tempi intuito.
Sostenendo mediante piani di finanziamento
ispirati a solidarietà i Paesi economicamente
poveri, perché provvedano essi stessi a soddisfare
le domande di beni di consumo e di sviluppo dei
propri cittadini, non solo si può produrre vera
crescita economica, ma si può anche concorrere a
sostenere le capacità produttive dei Paesi ricchi
che rischiano di esser compromesse dalla crisi.
28. Uno degli
aspetti più evidenti dello sviluppo odierno è
l'importanza del tema del rispetto per la vita,
che non può in alcun modo essere disgiunto dalle
questioni relative allo sviluppo dei popoli. Si
tratta di un aspetto che negli ultimi tempi sta
assumendo una rilevanza sempre maggiore,
obbligandoci ad allargare i concetti di povertà
(66) e di sottosviluppo alle questioni collegate
con l'accoglienza della vita, soprattutto là dove
essa è in vario modo impedita.
Non solo la
situazione di povertà provoca ancora in molte
regioni alti tassi di mortalità infantile, ma
perdurano in varie parti del mondo pratiche di
controllo demografico da parte dei governi, che
spesso diffondono la contraccezione e giungono a
imporre anche l'aborto. Nei Paesi economicamente
più sviluppati, le legislazioni contrarie alla
vita sono molto diffuse e hanno ormai condizionato
il costume e la prassi, contribuendo a diffondere
una mentalità antinatalista che spesso si cerca di
trasmettere anche ad altri Stati come se fosse un
progresso culturale.
Alcune
Organizzazioni non governative, poi, operano
attivamente per la diffusione dell'aborto,
promuovendo talvolta nei Paesi poveri l'adozione
della pratica della sterilizzazione, anche su
donne inconsapevoli. Vi è inoltre il fondato
sospetto che a volte gli stessi aiuti allo
sviluppo vengano collegati a determinate politiche
sanitarie implicanti di fatto l'imposizione di un
forte controllo delle nascite. Preoccupanti sono
altresì tanto le legislazioni che prevedono
l'eutanasia quanto le pressioni di gruppi
nazionali e internazionali che ne rivendicano il
riconoscimento giuridico.
L'apertura
alla vita è al centro del vero sviluppo.
Quando una società s'avvia verso la negazione e la
soppressione della vita, finisce per non trovare
più le motivazioni e le energie necessarie per
adoperarsi a servizio del vero bene dell'uomo. Se
si perde la sensibilità personale e sociale verso
l'accoglienza di una nuova vita, anche altre forme
di accoglienza utili alla vita sociale si
inaridiscono (67). L'accoglienza della vita tempra
le energie morali e rende capaci di aiuto
reciproco. Coltivando l'apertura alla vita, i
popoli ricchi possono comprendere meglio le
necessità di quelli poveri, evitare di impiegare
ingenti risorse economiche e intellettuali per
soddisfare desideri egoistici tra i propri
cittadini e promuovere, invece, azioni virtuose
nella prospettiva di una produzione moralmente
sana e solidale, nel rispetto del diritto
fondamentale di ogni popolo e di ogni persona alla
vita.
29. C'è un altro
aspetto della vita di oggi, collegato in modo
molto stretto con lo sviluppo: la negazione del
diritto alla libertà religiosa. Non mi
riferisco solo alle lotte e ai conflitti che nel
mondo ancora si combattono per motivazioni
religiose, anche se talvolta quella religiosa è
solo la copertura di ragioni di altro genere,
quali la sete di dominio e di ricchezza. Di fatto,
oggi spesso si uccide nel nome sacro di Dio, come
più volte è stato pubblicamente rilevato e
deplorato dal mio predecessore
Giovanni Paolo II e da me stesso (68). Le
violenze frenano lo sviluppo autentico e
impediscono l'evoluzione dei popoli verso un
maggiore benessere socio-economico e spirituale.
Ciò si applica specialmente al terrorismo a sfondo
fondamentalista (69), che genera dolore,
devastazione e morte, blocca il dialogo tra le
Nazioni e distoglie grandi risorse dal loro
impiego pacifico e civile. Va però aggiunto che,
oltre al fanatismo religioso che in alcuni
contesti impedisce l'esercizio del diritto di
libertà di religione, anche la promozione
programmata dell'indifferenza religiosa o
dell'ateismo pratico da parte di molti Paesi
contrasta con le necessità dello sviluppo dei
popoli, sottraendo loro risorse spirituali e
umane. Dio è il garante del vero sviluppo
dell'uomo, in quanto, avendolo creato a sua
immagine, ne fonda altresì la trascendente dignità
e ne alimenta il costitutivo anelito ad “essere di
più”. L'uomo non è un atomo sperduto in un
universo casuale (70), ma è una creatura di Dio, a
cui Egli ha voluto donare un'anima immortale e che
ha da sempre amato. Se l'uomo fosse solo frutto o
del caso o della necessità, oppure se dovesse
ridurre le sue aspirazioni all'orizzonte ristretto
delle situazioni in cui vive, se tutto fosse solo
storia e cultura, e l'uomo non avesse una natura
destinata a trascendersi in una vita
soprannaturale, si potrebbe parlare di incremento
o di evoluzione, ma non di sviluppo. Quando lo
Stato promuove, insegna, o addirittura impone,
forme di ateismo pratico, sottrae ai suoi
cittadini la forza morale e spirituale
indispensabile per impegnarsi nello sviluppo umano
integrale e impedisce loro di avanzare con
rinnovato dinamismo nel proprio impegno per una
più generosa risposta umana all'amore divino (71).
Capita anche che i Paesi economicamente sviluppati
o quelli emergenti esportino nei Paesi poveri, nel
contesto dei loro rapporti culturali, commerciali
e politici, questa visione riduttiva della persona
e del suo destino. È il danno che il «
supersviluppo » (72) procura allo sviluppo
autentico, quando è accompagnato dal «
sottosviluppo morale » (73).
30. In questa
linea, il tema dello sviluppo umano integrale
assume una portata ancora più complessa: la
correlazione tra i molteplici suoi elementi
richiede che ci si impegni per far interagire i
diversi livelli del sapere umano in vista
della promozione di un vero sviluppo dei popoli.
Spesso si ritiene che lo sviluppo, o i
provvedimenti socio-economici relativi, richiedano
solo di essere attuati quale frutto di un agire
comune. Questo agire comune, però, ha bisogno di
essere orientato, perché « ogni azione sociale
implica una dottrina » (74). Considerata la
complessità dei problemi, è ovvio che le varie
discipline debbano collaborare mediante una
interdisciplinarità ordinata. La carità non
esclude il sapere, anzi lo richiede, lo promuove e
lo anima dall'interno. Il sapere non è mai solo
opera dell'intelligenza. Può certamente essere
ridotto a calcolo e ad esperimento, ma se vuole
essere sapienza capace di orientare l'uomo alla
luce dei principi primi e dei suoi fini ultimi,
deve essere “condito” con il « sale » della
carità. Il fare è cieco senza il sapere e il
sapere è sterile senza l'amore. Infatti, « colui
che è animato da una vera carità è ingegnoso nello
scoprire le cause della miseria, nel trovare i
mezzi per combatterla, nel vincerla risolutamente
» (75). Nei confronti dei fenomeni che abbiamo
davanti, la carità nella verità richiede prima di
tutto di conoscere e di capire, nella
consapevolezza e nel rispetto della competenza
specifica di ogni livello del sapere. La carità
non è un'aggiunta posteriore, quasi un'appendice a
lavoro ormai concluso delle varie discipline,
bensì dialoga con esse fin dall'inizio. Le
esigenze dell'amore non contraddicono quelle della
ragione. Il sapere umano è insufficiente e le
conclusioni delle scienze non potranno indicare da
sole la via verso lo sviluppo integrale dell'uomo.
C'è sempre bisogno di spingersi più in là: lo
richiede la carità nella verità (76). Andare
oltre, però, non significa mai prescindere dalle
conclusioni della ragione né contraddire i suoi
risultati. Non c'è l'intelligenza e poi l'amore:
ci sono l'amore ricco di intelligenza e
l'intelligenza piena di amore.
31. Questo
significa che le valutazioni morali e la ricerca
scientifica devono crescere insieme e che la
carità deve animarle in un tutto armonico
interdisciplinare, fatto di unità e di
distinzione. La dottrina sociale della Chiesa, che
ha « un'importante dimensione interdisciplinare
» (77), può svolgere, in questa prospettiva, una
funzione di straordinaria efficacia. Essa consente
alla fede, alla teologia, alla metafisica e alle
scienze di trovare il loro posto entro una
collaborazione a servizio dell'uomo. È soprattutto
qui che la dottrina sociale della Chiesa attua la
sua dimensione sapienziale.
Paolo VI aveva visto con chiarezza che tra le
cause del sottosviluppo c'è una mancanza di
sapienza, di riflessione, di pensiero in grado di
operare una sintesi orientativa (78), per la quale
si richiede « una visione chiara di tutti gli
aspetti economici, sociali, culturali e spirituali
» (79). L'eccessiva settorialità del sapere (80),
la chiusura delle scienze umane alla metafisica
(81), le difficoltà del dialogo tra le scienze e
la teologia sono di danno non solo allo sviluppo
del sapere, ma anche allo sviluppo dei popoli,
perché, quando ciò si verifica, viene ostacolata
la visione dell'intero bene dell'uomo nelle varie
dimensioni che lo caratterizzano. L'« allargamento
del nostro concetto di ragione e dell'uso di essa
» (82) è indispensabile per riuscire a pesare
adeguatamente tutti i termini della questione
dello sviluppo e della soluzione dei problemi
socio-economici.
32. Le grandi
novità, che il quadro dello sviluppo dei popoli
oggi presenta, pongono in molti casi l'esigenza di
soluzioni nuove. Esse vanno cercate insieme
nel rispetto delle leggi proprie di ogni realtà e
alla luce di una visione integrale dell'uomo, che
rispecchi i vari aspetti della persona umana,
contemplata con lo sguardo purificato dalla
carità. Si scopriranno allora singolari
convergenze e concrete possibilità di soluzione,
senza rinunciare ad alcuna componente fondamentale
della vita umana.
La dignità della
persona e le esigenze della giustizia richiedono
che, soprattutto oggi, le scelte economiche non
facciano aumentare in modo eccessivo e moralmente
inaccettabile le differenze di ricchezza (83) e
che si continui a perseguire quale priorità
l'obiettivo dell'accesso al lavoro o del suo
mantenimento, per tutti. A ben vedere, ciò è
esigito anche dalla « ragione economica ».
L'aumento sistemico delle ineguaglianze tra gruppi
sociali all'interno di un medesimo Paese e tra le
popolazioni dei vari Paesi, ossia l'aumento
massiccio della povertà in senso relativo, non
solamente tende a erodere la coesione sociale, e
per questa via mette a rischio la democrazia, ma
ha anche un impatto negativo sul piano economico,
attraverso la progressiva erosione del « capitale
sociale », ossia di quell'insieme di relazioni di
fiducia, di affidabilità, di rispetto delle
regole, indispensabili ad ogni convivenza civile.
È sempre la
scienza economica a dirci che una strutturale
situazione di insicurezza genera atteggiamenti
antiproduttivi e di spreco di risorse umane, in
quanto il lavoratore tende ad adattarsi
passivamente ai meccanismi automatici, anziché
liberare creatività. Anche su questo punto c'è una
convergenza tra scienza economica e valutazione
morale. I costi umani sono sempre anche costi
economici e le disfunzioni economiche
comportano sempre anche costi umani.
Va poi ricordato
che l'appiattimento delle culture sulla dimensione
tecnologica, se nel breve periodo può favorire
l'ottenimento di profitti, nel lungo periodo
ostacola l'arricchimento reciproco e le dinamiche
collaborative. È importante distinguere tra
considerazioni economiche o sociologiche di breve
e di lungo termine. L'abbassamento del livello di
tutela dei diritti dei lavoratori o la rinuncia a
meccanismi di ridistribuzione del reddito per far
acquisire al Paese maggiore competitività
internazionale impediscono l'affermarsi di uno
sviluppo di lunga durata. Vanno, allora,
attentamente valutate le conseguenze sulle persone
delle tendenze attuali verso un'economia del
breve, talvolta brevissimo termine. Ciò richiede
una nuova e approfondita riflessione sul senso
dell'economia e dei suoi fini (84), nonché
una revisione profonda e lungimirante del modello
di sviluppo, per correggerne le disfunzioni e le
distorsioni. Lo esige, in realtà, lo stato di
salute ecologica del pianeta; soprattutto lo
richiede la crisi culturale e morale dell'uomo, i
cui sintomi da tempo sono evidenti in ogni parte
del mondo.
33. Oltre
quarant'anni dopo la
Populorum progressio,
il suo tema di fondo, il progresso, resta
ancora un problema aperto, reso più acuto ed
impellente dalla crisi economico-finanziaria in
atto. Se alcune aree del pianeta, già un tempo
gravate dalla povertà, hanno conosciuto
cambiamenti notevoli in termini di crescita
economica e di partecipazione alla produzione
mondiale, altre zone vivono ancora una situazione
di miseria paragonabile a quella esistente ai
tempi di
Paolo VI, anzi in qualche caso si può
addirittura parlare di un peggioramento. È
significativo che alcune cause di questa
situazione fossero state già individuate nella
Populorum progressio, come per esempio gli
alti dazi doganali posti dai Paesi economicamente
sviluppati e che ancora impediscono ai prodotti
provenienti dai Paesi poveri di raggiungere i
mercati dei Paesi ricchi. Altre cause, invece, che
l'Enciclica aveva solo adombrato, in seguito sono
emerse con maggiore evidenza. È questo il caso
della valutazione del processo di
decolonizzazione, allora in pieno corso.
Paolo VI auspicava un percorso autonomo da
compiere nella libertà e nella pace. Dopo oltre
quarant'anni, dobbiamo riconoscere quanto questo
percorso sia stato difficile, sia a causa di nuove
forme di colonialismo e di dipendenza da vecchi e
nuovi Paesi egemoni, sia per gravi
irresponsabilità interne agli stessi Paesi resisi
indipendenti.
La novità
principale è stata l'esplosione
dell'interdipendenza planetaria, ormai
comunemente nota come globalizzazione.
Paolo VI l'aveva parzialmente prevista, ma i
termini e l'impetuosità con cui essa si è evoluta
sono sorprendenti. Nato dentro i Paesi
economicamente sviluppati, questo processo per sua
natura ha prodotto un coinvolgimento di tutte le
economie. Esso è stato il principale motore per
l'uscita dal sottosviluppo di intere regioni e
rappresenta di per sé una grande opportunità.
Tuttavia, senza la guida della carità nella
verità, questa spinta planetaria può concorrere a
creare rischi di danni sconosciuti finora e di
nuove divisioni nella famiglia umana. Per questo
la carità e la verità ci pongono davanti a un
impegno inedito e creativo, certamente molto vasto
e complesso. Si tratta di dilatare la ragione e
di renderla capace di conoscere e di orientare
queste imponenti nuove dinamiche, animandole
nella prospettiva di quella « civiltà dell'amore »
il cui seme Dio ha posto in ogni popolo, in ogni
cultura.
CAPITOLO TERZO
FRATERNITÀ,
SVILUPPO ECONOMICO
E SOCIETÀ CIVILE
34. La carità
nella verità pone l'uomo davanti alla
stupefacente esperienza del dono. La gratuità è
presente nella sua vita in molteplici forme,
spesso non riconosciute a causa di una visione
solo produttivistica e utilitaristica
dell'esistenza. L'essere umano è fatto per il
dono, che ne esprime ed attua la dimensione di
trascendenza. Talvolta l'uomo moderno è
erroneamente convinto di essere il solo autore di
se stesso, della sua vita e della società. È
questa una presunzione, conseguente alla chiusura
egoistica in se stessi, che discende — per dirla
in termini di fede — dal peccato delle origini.
La sapienza della Chiesa ha sempre proposto di
tenere presente il peccato originale anche
nell'interpretazione dei fatti sociali e nella
costruzione della società: « Ignorare che l'uomo
ha una natura ferita, incline al male, è causa di
gravi errori nel campo dell'educazione, della
politica, dell'azione sociale e dei costumi »
(85). All'elenco dei campi in cui si manifestano
gli effetti perniciosi del peccato, si è aggiunto
ormai da molto tempo anche quello dell'economia.
Ne abbiamo una prova evidente anche in questi
periodi. La convinzione di essere autosufficiente
e di riuscire a eliminare il male presente nella
storia solo con la propria azione ha indotto
l'uomo a far coincidere la felicità e la salvezza
con forme immanenti di benessere materiale e di
azione sociale. La convinzione poi della esigenza
di autonomia dell'economia, che non deve accettare
“influenze” di carattere morale, ha spinto l'uomo
ad abusare dello strumento economico in modo
persino distruttivo. A lungo andare, queste
convinzioni hanno portato a sistemi economici,
sociali e politici che hanno conculcato la libertà
della persona e dei corpi sociali e che, proprio
per questo, non sono stati in grado di assicurare
la giustizia che promettevano. Come ho affermato
nella mia Enciclica
Spe salvi,
in questo modo si toglie dalla storia la
speranza cristiana (86), che è invece una
potente risorsa sociale a servizio dello sviluppo
umano integrale, cercato nella libertà e nella
giustizia. La speranza incoraggia la ragione e le
dà la forza di orientare la volontà (87). È già
presente nella fede, da cui anzi è suscitata. La
carità nella verità se ne nutre e, nello stesso
tempo, la manifesta. Essendo dono di Dio
assolutamente gratuito, irrompe nella nostra vita
come qualcosa di non dovuto, che trascende ogni
legge di giustizia. Il dono per sua natura
oltrepassa il merito, la sua regola è l'eccedenza.
Esso ci precede nella nostra stessa anima quale
segno della presenza di Dio in noi e della sua
attesa nei nostri confronti. La verità, che al
pari della carità è dono, è più grande di noi,
come insegna sant'Agostino (88). Anche la verità
di noi stessi, della nostra coscienza personale,
ci è prima di tutto “data”. In ogni processo
conoscitivo, in effetti, la verità non è prodotta
da noi, ma sempre trovata o, meglio, ricevuta.
Essa, come l'amore, « non nasce dal pensare e dal
volere ma in certo qual modo si impone all'essere
umano » (89).
Perché dono
ricevuto da tutti, la carità nella verità è una
forza che costituisce la comunità, unifica gli
uomini secondo modalità in cui non ci sono
barriere né confini. La comunità degli uomini può
essere costituita da noi stessi, ma non potrà mai
con le sole sue forze essere una comunità
pienamente fraterna né essere spinta oltre ogni
confine, ossia diventare una comunità veramente
universale: l'unità del genere umano, una
comunione fraterna oltre ogni divisione, nasce
dalla con-vocazione della parola di Dio-Amore.
Nell'affrontare questa decisiva questione,
dobbiamo precisare, da un lato, che la logica del
dono non esclude la giustizia e non si giustappone
ad essa in un secondo momento e dall'esterno e,
dall'altro, che lo sviluppo economico, sociale e
politico ha bisogno, se vuole essere
autenticamente umano, di fare spazio al
principio di gratuità come espressione di
fraternità.
35. Il mercato,
se c'è fiducia reciproca e generalizzata, è
l'istituzione economica che permette l'incontro
tra le persone, in quanto operatori economici che
utilizzano il contratto come regola dei loro
rapporti e che scambiano beni e servizi tra loro
fungibili, per soddisfare i loro bisogni e
desideri. Il mercato è soggetto ai principi della
cosiddetta giustizia commutativa, che
regola appunto i rapporti del dare e del ricevere
tra soggetti paritetici. Ma la dottrina sociale
della Chiesa non ha mai smesso di porre in
evidenza l'importanza della giustizia
distributiva e della giustizia sociale
per la stessa economia di mercato, non solo perché
inserita nelle maglie di un contesto sociale e
politico più vasto, ma anche per la trama delle
relazioni in cui si realizza. Infatti il mercato,
lasciato al solo principio dell'equivalenza di
valore dei beni scambiati, non riesce a produrre
quella coesione sociale di cui pure ha bisogno per
ben funzionare. Senza forme interne di
solidarietà e di fiducia reciproca, il mercato non
può pienamente espletare la propria funzione
economica. Ed oggi è questa fiducia che è
venuta a mancare, e la perdita della fiducia è una
perdita grave.
Opportunamente
Paolo VI nella
Populorum progressio sottolineava il fatto
che lo stesso sistema economico avrebbe tratto
vantaggio da pratiche generalizzate di giustizia,
in quanto i primi a trarre beneficio dallo
sviluppo dei Paesi poveri sarebbero stati quelli
ricchi (90). Non si trattava solo di correggere
delle disfunzioni mediante l'assistenza. I poveri
non sono da considerarsi un « fardello » (91),
bensì una risorsa anche dal punto di vista
strettamente economico. È tuttavia da ritenersi
errata la visione di quanti pensano che l'economia
di mercato abbia strutturalmente bisogno di una
quota di povertà e di sottosviluppo per poter
funzionare al meglio. È interesse del mercato
promuovere emancipazione, ma per farlo veramente
non può contare solo su se stesso, perché non è in
grado di produrre da sé ciò che va oltre le sue
possibilità. Esso deve attingere energie morali da
altri soggetti, che sono capaci di generarle.
36. L'attività
economica non può risolvere tutti i problemi
sociali mediante la semplice estensione della
logica mercantile. Questa va finalizzata al
perseguimento del bene comune, di cui deve
farsi carico anche e soprattutto la comunità
politica. Pertanto, va tenuto presente che è causa
di gravi scompensi separare l'agire economico, a
cui spetterebbe solo produrre ricchezza, da quello
politico, a cui spetterebbe di perseguire la
giustizia mediante la ridistribuzione.
La Chiesa ritiene
da sempre che l'agire economico non sia da
considerare antisociale. Il mercato non è, e non
deve perciò diventare, di per sé il luogo della
sopraffazione del forte sul debole. La società non
deve proteggersi dal mercato, come se lo sviluppo
di quest'ultimo comportasse ipso facto la
morte dei rapporti autenticamente umani. È
certamente vero che il mercato può essere
orientato in modo negativo, non perché sia questa
la sua natura, ma perché una certa ideologia lo
può indirizzare in tal senso. Non va dimenticato
che il mercato non esiste allo stato puro. Esso
trae forma dalle configurazioni culturali che lo
specificano e lo orientano. Infatti, l'economia e
la finanza, in quanto strumenti, possono esser mal
utilizzati quando chi li gestisce ha solo
riferimenti egoistici. Così si può riuscire a
trasformare strumenti di per sé buoni in strumenti
dannosi. Ma è la ragione oscurata dell'uomo a
produrre queste conseguenze, non lo strumento di
per sé stesso. Perciò non è lo strumento a dover
essere chiamato in causa ma l'uomo, la sua
coscienza morale e la sua responsabilità personale
e sociale.
La dottrina
sociale della Chiesa ritiene che possano essere
vissuti rapporti autenticamente umani, di amicizia
e di socialità, di solidarietà e di reciprocità,
anche all'interno dell'attività economica e non
soltanto fuori di essa o « dopo » di essa. La
sfera economica non è né eticamente neutrale né di
sua natura disumana e antisociale. Essa appartiene
all'attività dell'uomo e, proprio perché umana,
deve essere strutturata e istituzionalizzata
eticamente.
La grande sfida
che abbiamo davanti a noi, fatta emergere dalle
problematiche dello sviluppo in questo tempo di
globalizzazione e resa ancor più esigente dalla
crisi economico-finanziaria, è di mostrare, a
livello sia di pensiero sia di comportamenti, che
non solo i tradizionali principi dell'etica
sociale, quali la trasparenza, l'onestà e la
responsabilità non possono venire trascurati o
attenuati, ma anche che nei rapporti mercantili
il principio di gratuità e la logica
del dono come espressione della fraternità possono
e devono trovare posto entro la normale
attività economica. Ciò è un'esigenza
dell'uomo nel momento attuale, ma anche
un'esigenza della stessa ragione economica. Si
tratta di una esigenza ad un tempo della carità e
della verità.
37. La dottrina
sociale della Chiesa ha sempre sostenuto che la
giustizia riguarda tutte le fasi dell'attività
economica, perché questa ha sempre a che fare
con l'uomo e con le sue esigenze. Il reperimento
delle risorse, i finanziamenti, la produzione, il
consumo e tutte le altre fasi del ciclo economico
hanno ineluttabilmente implicazioni morali.
Così ogni decisione economica ha una conseguenza
di carattere morale. Tutto questo trova
conferma anche nelle scienze sociali e nelle
tendenze dell'economia contemporanea. Forse un
tempo era pensabile affidare dapprima all'economia
la produzione di ricchezza per assegnare poi alla
politica il compito di distribuirla. Oggi tutto
ciò risulta più difficile, dato che le attività
economiche non sono costrette entro limiti
territoriali, mentre l'autorità dei governi
continua ad essere soprattutto locale. Per questo,
i canoni della giustizia devono essere rispettati
sin dall'inizio, mentre si svolge il processo
economico, e non già dopo o lateralmente. Inoltre,
occorre che nel mercato si aprano spazi per
attività economiche realizzate da soggetti che
liberamente scelgono di informare il proprio agire
a principi diversi da quelli del puro profitto,
senza per ciò stesso rinunciare a produrre valore
economico. Le tante espressioni di economia che
traggono origine da iniziative religiose e laicali
dimostrano che ciò è concretamente possibile.
Nell'epoca della
globalizzazione l'economia risente di modelli
competitivi legati a culture tra loro molto
diverse. I comportamenti economico-imprenditoriali
che ne derivano trovano prevalentemente un punto
d'incontro nel rispetto della giustizia
commutativa. La vita economica ha
senz'altro bisogno del contratto, per
regolare i rapporti di scambio tra valori
equivalenti. Ma ha altresì bisogno di leggi
giuste e di forme di ridistribuzione
guidate dalla politica, e inoltre di opere che
rechino impresso lo spirito del dono.
L'economia globalizzata sembra privilegiare la
prima logica, quella dello scambio contrattuale,
ma direttamente o indirettamente dimostra di aver
bisogno anche delle altre due, la logica politica
e la logica del dono senza contropartita.
38. Il mio
predecessore
Giovanni Paolo II aveva segnalato questa
problematica, quando nella Centesimus annus
aveva rilevato la necessità di un sistema a tre
soggetti: il mercato, lo Stato e la
società civile (92). Egli aveva individuato
nella società civile l'ambito più proprio di un'economia
della gratuità e della fraternità, ma non
aveva inteso negarla agli altri due ambiti. Oggi
possiamo dire che la vita economica deve essere
compresa come una realtà a più dimensioni: in
tutte, in diversa misura e con modalità
specifiche, deve essere presente l'aspetto della
reciprocità fraterna. Nell'epoca della
globalizzazione, l'attività economica non può
prescindere dalla gratuità, che dissemina e
alimenta la solidarietà e la responsabilità per la
giustizia e il bene comune nei suoi vari soggetti
e attori. Si tratta, in definitiva, di una forma
concreta e profonda di democrazia economica. La
solidarietà è anzitutto sentirsi tutti
responsabili di tutti (93), quindi non può essere
delegata solo allo Stato. Mentre ieri si poteva
ritenere che prima bisognasse perseguire la
giustizia e che la gratuità intervenisse dopo come
un complemento, oggi bisogna dire che senza la
gratuità non si riesce a realizzare nemmeno la
giustizia. Serve, pertanto, un mercato nel quale
possano liberamente operare, in condizioni di pari
opportunità, imprese che perseguono fini
istituzionali diversi. Accanto all'impresa privata
orientata al profitto, e ai vari tipi di impresa
pubblica, devono potersi radicare ed esprimere
quelle organizzazioni produttive che perseguono
fini mutualistici e sociali. È dal loro reciproco
confronto sul mercato che ci si può attendere una
sorta di ibridazione dei comportamenti d'impresa e
dunque un'attenzione sensibile alla
civilizzazione dell'economia. Carità nella
verità, in questo caso, significa che bisogna dare
forma e organizzazione a quelle iniziative
economiche che, pur senza negare il profitto,
intendono andare oltre la logica dello scambio
degli equivalenti e del profitto fine a se stesso.
39.
Paolo VI nella
Populorum progressio chiedeva di
configurare un modello di economia di mercato
capace di includere, almeno tendenzialmente, tutti
i popoli e non solamente quelli adeguatamente
attrezzati. Chiedeva che ci si impegnasse a
promuovere un mondo più umano per tutti, un mondo
nel quale tutti avessero « qualcosa da dare e da
ricevere, senza che il progresso degli uni
costituisca un ostacolo allo sviluppo degli altri
» (94). Egli in questo modo estendeva al piano
universale le stesse richieste e aspirazioni
contenute nella
Rerum novarum, scritta quando per la prima
volta, in conseguenza della rivoluzione
industriale, si affermò l'idea — sicuramente
avanzata per quel tempo — che l'ordine civile per
reggersi aveva bisogno anche dell'intervento
ridistributivo dello Stato. Oggi questa visione,
oltre a essere posta in crisi dai processi di
apertura dei mercati e delle società, mostra di
essere incompleta per soddisfare le esigenze di
un'economia pienamente umana. Quanto la dottrina
sociale della Chiesa ha sempre sostenuto a partire
dalla sua visione dell'uomo e della società oggi è
richiesto anche dalle dinamiche caratteristiche
della globalizzazione.
Quando la logica
del mercato e quella dello Stato si accordano tra
loro per continuare nel monopolio dei rispettivi
ambiti di influenza, alla lunga vengono meno la
solidarietà nelle relazioni tra i cittadini, la
partecipazione e l'adesione, l'agire gratuito, che
sono altra cosa rispetto al “dare per avere”,
proprio della logica dello scambio, e al “dare per
dovere”, proprio della logica dei comportamenti
pubblici, imposti per legge dallo Stato. La
vittoria sul sottosviluppo richiede di agire non
solo sul miglioramento delle transazioni fondate
sullo scambio, non solo sui trasferimenti delle
strutture assistenziali di natura pubblica, ma
soprattutto sulla progressiva apertura, in
contesto mondiale, a forme di attività economica
caratterizzate da quote di gratuità e di comunione.
Il binomio esclusivo mercato-Stato corrode la
socialità, mentre le forme economiche solidali,
che trovano il loro terreno migliore nella società
civile senza ridursi ad essa, creano socialità. Il
mercato della gratuità non esiste e non si possono
disporre per legge atteggiamenti gratuiti. Eppure
sia il mercato sia la politica hanno bisogno di
persone aperte al dono reciproco.
40. Le attuali
dinamiche economiche internazionali,
caratterizzate da gravi distorsioni e disfunzioni,
richiedono profondi cambiamenti anche nel modo
di intendere l'impresa. Vecchie modalità della
vita imprenditoriale vengono meno, ma altre
promettenti si profilano all'orizzonte. Uno dei
rischi maggiori è senz'altro che l'impresa
risponda quasi esclusivamente a chi in essa
investe e finisca così per ridurre la sua valenza
sociale. Sempre meno le imprese, grazie alla
crescita di dimensione ed al bisogno di sempre
maggiori capitali, fanno capo a un imprenditore
stabile che si senta responsabile a lungo termine,
e non solo a breve, della vita e dei risultati
della sua impresa, e sempre meno dipendono da un
unico territorio. Inoltre la cosiddetta
delocalizzazione dell'attività produttiva può
attenuare nell'imprenditore il senso di
responsabilità nei confronti di portatori di
interessi, quali i lavoratori, i fornitori, i
consumatori, l'ambiente naturale e la più ampia
società circostante, a vantaggio degli azionisti,
che non sono legati a uno spazio specifico e
godono quindi di una straordinaria mobilità. Il
mercato internazionale dei capitali, infatti,
offre oggi una grande libertà di azione. È però
anche vero che si sta dilatando la consapevolezza
circa la necessità di una più ampia
“responsabilità sociale” dell'impresa. Anche se le
impostazioni etiche che guidano oggi il dibattito
sulla responsabilità sociale dell'impresa non sono
tutte accettabili secondo la prospettiva della
dottrina sociale della Chiesa, è un fatto che si
va sempre più diffondendo il convincimento in base
al quale la gestione dell'impresa non può
tenere conto degli interessi dei soli proprietari
della stessa, ma deve anche farsi carico di tutte
le altre categorie di soggetti che contribuiscono
alla vita dell'impresa: i lavoratori, i
clienti, i fornitori dei vari fattori di
produzione, la comunità di riferimento. Negli
ultimi anni si è notata la crescita di una classe
cosmopolita di manager, che spesso
rispondono solo alle indicazioni degli azionisti
di riferimento costituiti in genere da fondi
anonimi che stabiliscono di fatto i loro compensi.
Anche oggi tuttavia vi sono molti manager che con
analisi lungimirante si rendono sempre più conto
dei profondi legami che la loro impresa ha con il
territorio, o con i territori, in cui opera.
Paolo VI invitava a valutare seriamente il
danno che il trasferimento all'estero di capitali
a esclusivo vantaggio personale può produrre alla
propria Nazione (95).
Giovanni Paolo II avvertiva che investire
ha sempre un significato morale, oltre che
economico (96). Tutto questo — va ribadito — è
valido anche oggi, nonostante che il mercato dei
capitali sia stato fortemente liberalizzato e le
moderne mentalità tecnologiche possano indurre a
pensare che investire sia solo un fatto tecnico e
non anche umano ed etico. Non c'è motivo per
negare che un certo capitale possa fare del bene,
se investito all'estero piuttosto che in patria.
Devono però essere fatti salvi i vincoli di
giustizia, tenendo anche conto di come quel
capitale si è formato e dei danni alle persone che
comporterà il suo mancato impiego nei luoghi in
cui esso è stato generato (97). Bisogna evitare
che il motivo per l'impiego delle risorse
finanziarie sia speculativo e ceda alla
tentazione di ricercare solo profitto di breve
termine, e non anche la sostenibilità dell'impresa
a lungo termine, il suo puntuale servizio
all'economia reale e l'attenzione alla promozione,
in modo adeguato ed opportuno, di iniziative
economiche anche nei Paesi bisognosi di sviluppo.
Non c'è nemmeno motivo di negare che la
delocalizzazione, quando comporta investimenti e
formazione, possa fare del bene alle popolazioni
del Paese che la ospita. Il lavoro e la conoscenza
tecnica sono un bisogno universale. Non è però
lecito delocalizzare solo per godere di
particolari condizioni di favore, o peggio per
sfruttamento, senza apportare alla società locale
un vero contributo per la nascita di un robusto
sistema produttivo e sociale, fattore
imprescindibile di sviluppo stabile.
41. Nel contesto
di questo discorso è utile osservare che l'imprenditorialità
ha e deve sempre più assumere un significato
plurivalente. La perdurante prevalenza del
binomio mercato-Stato ci ha abituati a pensare
esclusivamente all'imprenditore privato di tipo
capitalistico da un lato e al dirigente statale
dall'altro. In realtà, l'imprenditorialità va
intesa in modo articolato. Ciò risulta da una
serie di motivazioni metaeconomiche.
L'imprenditorialità, prima di avere un significato
professionale, ne ha uno umano (98). Essa è
inscritta in ogni lavoro, visto come « actus
personae » (99), per cui è bene che a ogni
lavoratore sia offerta la possibilità di dare il
proprio apporto in modo che egli stesso « sappia
di lavorare “in proprio” » (100). Non a caso
Paolo VI insegnava che « ogni lavoratore è un
creatore » (101). Proprio per rispondere alle
esigenze e alla dignità di chi lavora, e ai
bisogni della società, esistono vari tipi di
imprese, ben oltre la sola distinzione tra «
privato » e « pubblico ». Ognuna richiede ed
esprime una capacità imprenditoriale specifica. Al
fine di realizzare un'economia che nel prossimo
futuro sappia porsi al servizio del bene comune
nazionale e mondiale, è opportuno tenere conto di
questo significato esteso di imprenditorialità.
Questa concezione più ampia favorisce lo scambio e
la formazione reciproca tra le diverse tipologie
di imprenditorialità, con travaso di competenze
dal mondo non profit a quello profit
e viceversa, da quello pubblico a quello proprio
della società civile, da quello delle economie
avanzate a quello dei Paesi in via di sviluppo.
Anche l'“autorità
politica” ha un significato plurivalente,
che non può essere dimenticato, mentre si procede
alla realizzazione di un nuovo ordine
economico-produttivo, socialmente responsabile e a
misura d'uomo. Come si intende coltivare
un'imprenditorialità differenziata sul piano
mondiale, così si deve promuovere un'autorità
politica distribuita e attivantesi su più piani.
L'economia integrata dei giorni nostri non elimina
il ruolo degli Stati, piuttosto ne impegna i
Governi ad una più forte collaborazione reciproca.
Ragioni di saggezza e di prudenza suggeriscono di
non proclamare troppo affrettatamente la fine
dello Stato. In relazione alla soluzione della
crisi attuale, il suo ruolo sembra destinato a
crescere, riacquistando molte delle sue
competenze. Ci sono poi delle Nazioni in cui la
costruzione o ricostruzione dello Stato continua
ad essere un elemento chiave del loro sviluppo.
L'aiuto internazionale proprio all'interno di
un progetto solidaristico mirato alla soluzione
degli attuali problemi economici dovrebbe
piuttosto sostenere il consolidamento di sistemi
costituzionali, giuridici, amministrativi nei
Paesi che non godono ancora pienamente di questi
beni. Accanto agli aiuti economici, devono esserci
quelli volti a rafforzare le garanzie proprie
dello Stato di diritto, un sistema di
ordine pubblico e di carcerazione efficiente nel
rispetto dei diritti umani, istituzioni veramente
democratiche. Non è necessario che lo Stato abbia
dappertutto le medesime caratteristiche: il
sostegno ai sistemi costituzionali deboli affinché
si rafforzino può benissimo accompagnarsi con lo
sviluppo di altri soggetti politici, di natura
culturale, sociale, territoriale o religiosa,
accanto allo Stato. L'articolazione dell'autorità
politica a livello locale, nazionale e
internazionale è, tra l'altro, una delle vie
maestre per arrivare ad essere in grado di
orientare la globalizzazione economica. È anche il
modo per evitare che essa mini di fatto i
fondamenti della democrazia.
42. Talvolta nei
riguardi della globalizzazione si notano
atteggiamenti fatalistici, come se le dinamiche in
atto fossero prodotte da anonime forze impersonali
e da strutture indipendenti dalla volontà umana
(102). È bene ricordare a questo proposito che la
globalizzazione va senz'altro intesa come un
processo socio-economico, ma questa non è l'unica
sua dimensione. Sotto il processo più visibile c'è
la realtà di un'umanità che diviene sempre più
interconnessa; essa è costituita da persone e da
popoli a cui quel processo deve essere di utilità
e di sviluppo (103), grazie all'assunzione da
parte tanto dei singoli quanto della collettività
delle rispettive responsabilità. Il superamento
dei confini non è solo un fatto materiale, ma
anche culturale nelle sue cause e nei suoi
effetti. Se si legge deterministicamente la
globalizzazione, si perdono i criteri per
valutarla ed orientarla. Essa è una realtà umana e
può avere a monte vari orientamenti culturali sui
quali occorre esercitare il discernimento. La
verità della globalizzazione come processo e il
suo criterio etico fondamentale sono dati
dall'unità della famiglia umana e dal suo sviluppo
nel bene. Occorre quindi impegnarsi
incessantemente per favorire un orientamento
culturale personalista e comunitario, aperto alla
trascendenza, del processo di integrazione
planetaria.
Nonostante alcune
sue dimensioni strutturali che non vanno negate ma
nemmeno assolutizzate, « la globalizzazione, a
priori, non è né buona né cattiva. Sarà ciò
che le persone ne faranno » (104). Non dobbiamo
esserne vittime, ma protagonisti, procedendo con
ragionevolezza, guidati dalla carità e dalla
verità. Opporvisi ciecamente sarebbe un
atteggiamento sbagliato, preconcetto, che
finirebbe per ignorare un processo contrassegnato
anche da aspetti positivi, con il rischio di
perdere una grande occasione di inserirsi nelle
molteplici opportunità di sviluppo da esso
offerte. I processi di globalizzazione,
adeguatamente concepiti e gestiti, offrono la
possibilità di una grande ridistribuzione della
ricchezza a livello planetario come in precedenza
non era mai avvenuto; se mal gestiti, possono
invece far crescere povertà e disuguaglianza,
nonché contagiare con una crisi l'intero mondo.
Bisogna correggerne le disfunzioni, anche
gravi, che introducono nuove divisioni tra i
popoli e dentro i popoli e fare in modo che la
ridistribuzione della ricchezza non avvenga con
una ridistribuzione della povertà o addirittura
con una sua accentuazione, come una cattiva
gestione della situazione attuale potrebbe farci
temere. Per molto tempo si è pensato che i popoli
poveri dovessero rimanere ancorati a un prefissato
stadio di sviluppo e dovessero accontentarsi della
filantropia dei popoli sviluppati. Contro questa
mentalità ha preso posizione
Paolo VI nella
Populorum progressio. Oggi le forze
materiali utilizzabili per far uscire quei popoli
dalla miseria sono potenzialmente maggiori di un
tempo, ma di esse hanno finito per avvalersi
prevalentemente gli stessi popoli dei Paesi
sviluppati, che hanno potuto sfruttare meglio il
processo di liberalizzazione dei movimenti di
capitali e del lavoro. La diffusione delle sfere
di benessere a livello mondiale non va, dunque,
frenata con progetti egoistici, protezionistici o
dettati da interessi particolari. Infatti il
coinvolgimento dei Paesi emergenti o in via di
sviluppo, permette oggi di meglio gestire la
crisi. La transizione insita nel processo di
globalizzazione presenta grandi difficoltà e
pericoli, che potranno essere superati solo se si
saprà prendere coscienza di quell'anima
antropologica ed etica, che dal profondo sospinge
la globalizzazione stessa verso traguardi di
umanizzazione solidale. Purtroppo tale anima è
spesso soverchiata e compressa da prospettive
etico-culturali di impostazione individualistica e
utilitaristica. La globalizzazione è fenomeno
multidimensionale e polivalente, che esige di
essere colto nella diversità e nell'unità di tutte
le sue dimensioni, compresa quella teologica. Ciò
consentirà di vivere ed orientare la
globalizzazione dell'umanità in termini di
relazionalità, di comunione e di condivisione.
CAPITOLO QUARTO
SVILUPPO DEI
POPOLI,
DIRITTI E DOVERI, AMBIENTE
43. « La
solidarietà universale, che è un fatto e per noi
un beneficio, è altresì un dovere » (105). Molte
persone, oggi, tendono a coltivare la pretesa di
non dover niente a nessuno, tranne che a se
stesse. Ritengono di essere titolari solo di
diritti e incontrano spesso forti ostacoli a
maturare una responsabilità per il proprio e
l'altrui sviluppo integrale. Per questo è
importante sollecitare una nuova riflessione su
come i diritti presuppongano doveri senza i
quali si trasformano in arbitrio (106). Si
assiste oggi a una pesante contraddizione. Mentre,
per un verso, si rivendicano presunti diritti, di
carattere arbitrario e voluttuario, con la pretesa
di vederli riconosciuti e promossi dalle strutture
pubbliche, per l'altro verso, vi sono diritti
elementari e fondamentali disconosciuti e violati
nei confronti di tanta parte dell'umanità (107).
Si è spesso notata una relazione tra la
rivendicazione del diritto al superfluo o
addirittura alla trasgressione e al vizio, nelle
società opulente, e la mancanza di cibo, di acqua
potabile, di istruzione di base o di cure
sanitarie elementari in certe regioni del mondo
del sottosviluppo e anche nelle periferie di
grandi metropoli. La relazione sta nel fatto che i
diritti individuali, svincolati da un quadro di
doveri che conferisca loro un senso compiuto,
impazziscono e alimentano una spirale di richieste
praticamente illimitata e priva di criteri.
L'esasperazione dei diritti sfocia nella
dimenticanza dei doveri. I doveri delimitano i
diritti perché rimandano al quadro antropologico
ed etico entro la cui verità anche questi ultimi
si inseriscono e così non diventano arbitrio. Per
questo motivo i doveri rafforzano i diritti e
propongono la loro difesa e promozione come un
impegno da assumere a servizio del bene. Se,
invece, i diritti dell'uomo trovano il proprio
fondamento solo nelle deliberazioni di
un'assemblea di cittadini, essi possono essere
cambiati in ogni momento e, quindi, il dovere di
rispettarli e perseguirli si allenta nella
coscienza comune. I Governi e gli Organismi
internazionali possono allora dimenticare
l'oggettività e l'« indisponibilità » dei diritti.
Quando ciò avviene, il vero sviluppo dei popoli è
messo in pericolo (108). Comportamenti simili
compromettono l'autorevolezza degli Organismi
internazionali, soprattutto agli occhi dei Paesi
maggiormente bisognosi di sviluppo. Questi,
infatti, richiedono che la comunità internazionale
assuma come un dovere l'aiutarli a essere «
artefici del loro destino » (109), ossia ad
assumersi a loro volta dei doveri. La
condivisione dei doveri reciproci mobilita assai
più della sola rivendicazione di diritti.
44. La concezione
dei diritti e dei doveri nello sviluppo deve tener
conto anche delle problematiche connesse con la
crescita demografica. Si tratta di un aspetto
molto importante del vero sviluppo, perché
concerne i valori irrinunciabili della vita e
della famiglia (110). Considerare l'aumento della
popolazione come causa prima del sottosviluppo è
scorretto, anche dal punto di vista economico:
basti pensare, da una parte, all'importante
diminuzione della mortalità infantile e il
prolungamento della vita media che si registrano
nei Paesi economicamente sviluppati; dall'altra,
ai segni di crisi rilevabili nelle società in cui
si registra un preoccupante calo della natalità.
Resta ovviamente doveroso prestare la debita
attenzione ad una procreazione responsabile, che
costituisce, tra l'altro, un fattivo contributo
allo sviluppo umano integrale. La Chiesa, che ha a
cuore il vero sviluppo dell'uomo, gli raccomanda
il pieno rispetto dei valori umani anche
nell'esercizio della sessualità: non la si può
ridurre a mero fatto edonistico e ludico, così
come l'educazione sessuale non si può ridurre a
un'istruzione tecnica, con l'unica preoccupazione
di difendere gli interessati da eventuali contagi
o dal « rischio » procreativo. Ciò equivarrebbe ad
impoverire e disattendere il significato profondo
della sessualità, che deve invece essere
riconosciuto ed assunto con responsabilità tanto
dalla persona quanto dalla comunità. La
responsabilità vieta infatti sia di considerare la
sessualità una semplice fonte di piacere, sia di
regolarla con politiche di forzata pianificazione
delle nascite. In ambedue i casi si è in presenza
di concezioni e di politiche materialistiche,
nelle quali le persone finiscono per subire varie
forme di violenza. A tutto ciò si deve opporre la
competenza primaria delle famiglie in questo campo
(111), rispetto allo Stato e alle sue politiche
restrittive, nonché un'appropriata educazione dei
genitori.
L'apertura
moralmente responsabile alla vita è una ricchezza
sociale ed economica.
Grandi Nazioni hanno potuto uscire dalla miseria
anche grazie al grande numero e alle capacità dei
loro abitanti. Al contrario, Nazioni un tempo
floride conoscono ora una fase di incertezza e in
qualche caso di declino proprio a causa della
denatalità, problema cruciale per le società di
avanzato benessere. La diminuzione delle nascite,
talvolta al di sotto del cosiddetto « indice di
sostituzione », mette in crisi anche i sistemi di
assistenza sociale, ne aumenta i costi, contrae
l'accantonamento di risparmio e di conseguenza le
risorse finanziarie necessarie agli investimenti,
riduce la disponibilità di lavoratori qualificati,
restringe il bacino dei « cervelli » a cui
attingere per le necessità della Nazione. Inoltre,
le famiglie di piccola, e talvolta piccolissima,
dimensione corrono il rischio di impoverire le
relazioni sociali, e di non garantire forme
efficaci di solidarietà. Sono situazioni che
presentano sintomi di scarsa fiducia nel futuro
come pure di stanchezza morale. Diventa così una
necessità sociale, e perfino economica, proporre
ancora alle nuove generazioni la bellezza della
famiglia e del matrimonio, la rispondenza di tali
istituzioni alle esigenze più profonde del cuore e
della dignità della persona. In questa
prospettiva, gli Stati sono chiamati a varare
politiche che promuovano la centralità e
l'integrità della famiglia, fondata sul
matrimonio tra un uomo e una donna, prima e vitale
cellula della società, (112) facendosi carico
anche dei suoi problemi economici e fiscali, nel
rispetto della sua natura relazionale.
45. Rispondere
alle esigenze morali più profonde della persona ha
anche importanti e benefiche ricadute sul piano
economico. L'economia infatti ha bisogno
dell'etica per il suo corretto funzionamento;
non di un'etica qualsiasi, bensì di un'etica amica
della persona. Oggi si parla molto di etica in
campo economico, finanziario, aziendale. Nascono
Centri di studio e percorsi formativi di
business ethics; si diffonde nel mondo
sviluppato il sistema delle certificazioni etiche,
sulla scia del movimento di idee nato intorno alla
responsabilità sociale dell'impresa. Le banche
propongono conti e fondi di investimento
cosiddetti « etici ». Si sviluppa una « finanza
etica », soprattutto mediante il microcredito e,
più in generale, la microfinanza. Questi processi
suscitano apprezzamento e meritano un ampio
sostegno. I loro effetti positivi si fanno sentire
anche nelle aree meno sviluppate della terra. È
bene, tuttavia, elaborare anche un valido criterio
di discernimento, in quanto si nota un certo abuso
dell'aggettivo « etico » che, adoperato in modo
generico, si presta a designare contenuti anche
molto diversi, al punto da far passare sotto la
sua copertura decisioni e scelte contrarie alla
giustizia e al vero bene dell'uomo.
Molto, infatti,
dipende dal sistema morale di riferimento. Su
questo argomento la dottrina sociale della Chiesa
ha un suo specifico apporto da dare, che si fonda
sulla creazione dell'uomo “ad immagine di Dio” (Gn
1,27), un dato da cui discende l'inviolabile
dignità della persona umana, come anche il
trascendente valore delle norme morali naturali.
Un'etica economica che prescindesse da questi due
pilastri rischierebbe inevitabilmente di perdere
la propria connotazione e di prestarsi a
strumentalizzazioni; più precisamente essa
rischierebbe di diventare funzionale ai sistemi
economico-finanziari esistenti, anziché correttiva
delle loro disfunzioni. Tra l'altro, finirebbe
anche per giustificare il finanziamento di
progetti che etici non sono. Bisogna, poi, non
ricorrere alla parola « etica » in modo
ideologicamente discriminatorio, lasciando
intendere che non sarebbero etiche le iniziative
che non si fregiassero formalmente di questa
qualifica. Occorre adoperarsi — l'osservazione è
qui essenziale! — non solamente perché nascano
settori o segmenti « etici » dell'economia o della
finanza, ma perché l'intera economia e l'intera
finanza siano etiche e lo siano non per
un'etichettatura dall'esterno, ma per il rispetto
di esigenze intrinseche alla loro stessa natura.
Parla con chiarezza, a questo riguardo, la
dottrina sociale della Chiesa, che ricorda come
l'economia, con tutte le sue branche, è un settore
dell'attività umana (113).
46. Considerando
le tematiche relative al rapporto tra impresa
ed etica, nonché l'evoluzione che il sistema
produttivo sta compiendo, sembra che la
distinzione finora invalsa tra imprese finalizzate
al profitto (profit) e organizzazioni non
finalizzate al profitto (non profit) non
sia più in grado di dar conto completo della
realtà, né di orientare efficacemente il futuro.
In questi ultimi decenni è andata emergendo
un'ampia area intermedia tra le due tipologie di
imprese. Essa è costituita da imprese
tradizionali, che però sottoscrivono dei patti di
aiuto ai Paesi arretrati; da fondazioni che sono
espressione di singole imprese; da gruppi di
imprese aventi scopi di utilità sociale; dal
variegato mondo dei soggetti della cosiddetta
economia civile e di comunione. Non si tratta solo
di un « terzo settore », ma di una nuova ampia
realtà composita, che coinvolge il privato e il
pubblico e che non esclude il profitto, ma lo
considera strumento per realizzare finalità umane
e sociali. Il fatto che queste imprese
distribuiscano o meno gli utili oppure che
assumano l'una o l'altra delle configurazioni
previste dalle norme giuridiche diventa secondario
rispetto alla loro disponibilità a concepire il
profitto come uno strumento per raggiungere
finalità di umanizzazione del mercato e della
società. È auspicabile che queste nuove forme di
impresa trovino in tutti i Paesi anche adeguata
configurazione giuridica e fiscale. Esse, senza
nulla togliere all'importanza e all'utilità
economica e sociale delle forme tradizionali di
impresa, fanno evolvere il sistema verso una più
chiara e compiuta assunzione dei doveri da parte
dei soggetti economici. Non solo. È la stessa
pluralità delle forme istituzionali di impresa a
generare un mercato più civile e al tempo stesso
più competitivo.
47. Il
potenziamento delle diverse tipologie di imprese
e, in particolare, di quelle capaci di concepire
il profitto come uno strumento per raggiungere
finalità di umanizzazione del mercato e delle
società, deve essere perseguito anche nei Paesi
che soffrono di esclusione o di emarginazione dai
circuiti dell'economia globale, dove è molto
importante procedere con progetti di sussidiarietà
opportunamente concepita e gestita che tendano a
potenziare i diritti, prevedendo però sempre anche
l'assunzione di corrispettive responsabilità.
Negli interventi per lo sviluppo va fatto
salvo il principio della centralità della
persona umana, la quale è il soggetto che deve
assumersi primariamente il dovere dello sviluppo.
L'interesse principale è il miglioramento delle
situazioni di vita delle persone concrete di una
certa regione, affinché possano assolvere a quei
doveri che attualmente l'indigenza non consente
loro di onorare. La sollecitudine non può mai
essere un atteggiamento astratto. I programmi di
sviluppo, per poter essere adattati alle singole
situazioni, devono avere caratteristiche di
flessibilità; e le persone beneficiarie dovrebbero
essere coinvolte direttamente nella loro
progettazione e rese protagoniste della loro
attuazione. È anche necessario applicare i criteri
della progressione e dell'accompagnamento —
compreso il monitoraggio dei risultati –, perché
non ci sono ricette universalmente valide. Molto
dipende dalla concreta gestione degli interventi.
« Artefici del loro proprio sviluppo, i popoli ne
sono i primi responsabili. Ma non potranno
realizzarlo nell'isolamento » (114). Oggi, con il
consolidamento del processo di progressiva
integrazione del pianeta, questo ammonimento di
Paolo VI è ancor più valido. Le dinamiche di
inclusione non hanno nulla di meccanico. Le
soluzioni vanno calibrate sulla vita dei popoli e
delle persone concrete, sulla base di una
valutazione prudenziale di ogni situazione.
Accanto ai macroprogetti servono i microprogetti
e, soprattutto, serve la mobilitazione fattiva di
tutti i soggetti della società civile, tanto delle
persone giuridiche quanto delle persone fisiche.
La
cooperazione internazionale ha bisogno di
persone che condividano il processo di sviluppo
economico e umano, mediante la solidarietà della
presenza, dell'accompagnamento, della formazione e
del rispetto. Da questo punto di vista, gli stessi
Organismi internazionali dovrebbero interrogarsi
sulla reale efficacia dei loro apparati
burocratici e amministrativi, spesso troppo
costosi. Capita talvolta che chi è destinatario
degli aiuti diventi funzionale a chi lo aiuta e
che i poveri servano a mantenere in vita
dispendiose organizzazioni burocratiche che
riservano per la propria conservazione percentuali
troppo elevate di quelle risorse che invece
dovrebbero essere destinate allo sviluppo. In
questa prospettiva, sarebbe auspicabile che tutti
gli Organismi internazionali e le Organizzazioni
non governative si impegnassero ad una piena
trasparenza, informando i donatori e l'opinione
pubblica circa la percentuale dei fondi ricevuti
destinata ai programmi di cooperazione, circa il
vero contenuto di tali programmi, e infine circa
la composizione delle spese dell'istituzione
stessa.
48. Il tema dello
sviluppo è oggi fortemente collegato anche ai
doveri che nascono dal rapporto dell'uomo con
l'ambiente naturale. Questo è stato donato da
Dio a tutti, e il suo uso rappresenta per noi una
responsabilità verso i poveri, le generazioni
future e l'umanità intera. Se la natura, e per
primo l'essere umano, vengono considerati come
frutto del caso o del determinismo evolutivo, la
consapevolezza della responsabilità si attenua
nelle coscienze. Nella natura il credente
riconosce il meraviglioso risultato
dell'intervento creativo di Dio, che l'uomo può
responsabilmente utilizzare per soddisfare i suoi
legittimi bisogni — materiali e immateriali — nel
rispetto degli intrinseci equilibri del creato
stesso. Se tale visione viene meno, l'uomo finisce
o per considerare la natura un tabù intoccabile o,
al contrario, per abusarne. Ambedue questi
atteggiamenti non sono conformi alla visione
cristiana della natura, frutto della creazione di
Dio.
La natura è
espressione di un disegno di amore e di verità.
Essa ci precede e ci è donata da Dio come ambiente
di vita. Ci parla del Creatore (cfr Rm 1,
20) e del suo amore per l'umanità. È destinata ad
essere « ricapitolata » in Cristo alla fine dei
tempi (cfr Ef 1, 9-10; Col 1,
19-20). Anch'essa, quindi, è una « vocazione »
(115). La natura è a nostra disposizione non come
« un mucchio di rifiuti sparsi a caso » (116),
bensì come un dono del Creatore che ne ha
disegnato gli ordinamenti intrinseci, affinché
l'uomo ne tragga gli orientamenti doverosi per
“custodirla e coltivarla” (Gn 2,15). Ma
bisogna anche sottolineare che è contrario al vero
sviluppo considerare la natura più importante
della stessa persona umana. Questa posizione
induce ad atteggiamenti neopagani o di nuovo
panteismo: dalla sola natura, intesa in senso
puramente naturalistico, non può derivare la
salvezza per l'uomo. Peraltro, bisogna anche
rifiutare la posizione contraria, che mira alla
sua completa tecnicizzazione, perché l'ambiente
naturale non è solo materia di cui disporre a
nostro piacimento, ma opera mirabile del Creatore,
recante in sé una “grammatica” che indica finalità
e criteri per un utilizzo sapiente, non
strumentale e arbitrario. Oggi molti danni allo
sviluppo provengono proprio da queste concezioni
distorte. Ridurre completamente la natura ad un
insieme di semplici dati di fatto finisce per
essere fonte di violenza nei confronti
dell'ambiente e addirittura per motivare azioni
irrispettose verso la stessa natura dell'uomo.
Questa, in quanto costituita non solo di materia
ma anche di spirito e, come tale, essendo ricca di
significati e di fini trascendenti da raggiungere,
ha un carattere normativo anche per la cultura.
L'uomo interpreta e modella l'ambiente naturale
mediante la cultura, la quale a sua volta viene
orientata mediante la libertà responsabile,
attenta ai dettami della legge morale. I progetti
per uno sviluppo umano integrale non possono
pertanto ignorare le generazioni successive, ma
devono essere improntati a solidarietà e a
giustizia intergenerazionali, tenendo conto di
molteplici ambiti: l'ecologico, il giuridico,
l'economico, il politico, il culturale (117).
49. Le questioni
legate alla cura e alla salvaguardia dell'ambiente
devono oggi tenere in debita considerazione le
problematiche energetiche. L'accaparramento
delle risorse energetiche non rinnovabili da parte
di alcuni Stati, gruppi di potere e imprese
costituisce, infatti, un grave impedimento per lo
sviluppo dei Paesi poveri. Questi non hanno i
mezzi economici né per accedere alle esistenti
fonti energetiche non rinnovabili né per
finanziare la ricerca di fonti nuove e
alternative. L'incetta delle risorse naturali, che
in molti casi si trovano proprio nei Paesi poveri,
genera sfruttamento e frequenti conflitti tra le
Nazioni e al loro interno. Tali conflitti si
combattono spesso proprio sul suolo di quei Paesi,
con pesanti bilanci in termini di morte,
distruzione e ulteriore degrado. La comunità
internazionale ha il compito imprescindibile di
trovare le strade istituzionali per disciplinare
lo sfruttamento delle risorse non rinnovabili, con
la partecipazione anche dei Paesi poveri, in modo
da pianificare insieme il futuro.
Anche su questo
fronte vi è l'urgente necessità morale di una
rinnovata solidarietà, specialmente nei
rapporti tra i Paesi in via di sviluppo e i Paesi
altamente industrializzati (118). Le società
tecnologicamente avanzate possono e devono
diminuire il proprio fabbisogno energetico sia
perché le attività manifatturiere evolvono, sia
perché tra i loro cittadini si diffonde una
sensibilità ecologica maggiore. Si deve inoltre
aggiungere che oggi è realizzabile un
miglioramento dell'efficienza energetica ed è al
tempo stesso possibile far avanzare la ricerca di
energie alternative. È però anche necessaria una
ridistribuzione planetaria delle risorse
energetiche, in modo che anche i Paesi che ne sono
privi possano accedervi. Il loro destino non può
essere lasciato nelle mani del primo arrivato o
alla logica del più forte. Si tratta di problemi
rilevanti che, per essere affrontati in modo
adeguato, richiedono da parte di tutti la
responsabile presa di coscienza delle conseguenze
che si riverseranno sulle nuove generazioni,
soprattutto sui moltissimi giovani presenti nei
popoli poveri, i quali « reclamano la parte attiva
che loro spetta nella costruzione d'un mondo
migliore » (119).
50. Questa
responsabilità è globale, perché non concerne solo
l'energia, ma tutto il creato, che non dobbiamo
lasciare alle nuove generazioni depauperato delle
sue risorse. All'uomo è lecito esercitare un
governo responsabile sulla natura per
custodirla, metterla a profitto e coltivarla anche
in forme nuove e con tecnologie avanzate in modo
che essa possa degnamente accogliere e nutrire la
popolazione che la abita. C'è spazio per tutti su
questa nostra terra: su di essa l'intera famiglia
umana deve trovare le risorse necessarie per
vivere dignitosamente, con l'aiuto della natura
stessa, dono di Dio ai suoi figli, e con l'impegno
del proprio lavoro e della propria inventiva.
Dobbiamo però avvertire come dovere gravissimo
quello di consegnare la terra alle nuove
generazioni in uno stato tale che anch'esse
possano degnamente abitarla e ulteriormente
coltivarla. Ciò implica l'impegno di decidere
insieme, « dopo aver ponderato responsabilmente la
strada da percorrere, con l'obiettivo di
rafforzare quell'alleanza tra essere umano e
ambiente che deve essere specchio dell'amore
creatore di Dio, dal quale proveniamo e verso il
quale siamo in cammino » (120). È auspicabile che
la comunità internazionale e i singoli governi
sappiano contrastare in maniera efficace le
modalità d'utilizzo dell'ambiente che risultino ad
esso dannose. È altresì doveroso che vengano
intrapresi, da parte delle autorità competenti,
tutti gli sforzi necessari affinché i costi
economici e sociali derivanti dall'uso delle
risorse ambientali comuni siano riconosciuti in
maniera trasparente e siano pienamente supportati
da coloro che ne usufruiscono e non da altre
popolazioni o dalle generazioni future: la
protezione dell'ambiente, delle risorse e del
clima richiede che tutti i responsabili
internazionali agiscano congiuntamente e
dimostrino prontezza ad operare in buona fede, nel
rispetto della legge e della solidarietà nei
confronti delle regioni più deboli del pianeta
(121). Uno dei maggiori compiti dell'economia è
proprio il più efficiente uso delle risorse, non
l'abuso, tenendo sempre presente che la nozione di
efficienza non è assiologicamente neutrale.
51. Le
modalità con cui l'uomo tratta l'ambiente
influiscono sulle modalità con cui tratta se
stesso e, viceversa. Ciò richiama la società
odierna a rivedere seriamente il suo stile di vita
che, in molte parti del mondo, è incline
all'edonismo e al consumismo, restando
indifferente ai danni che ne derivano (122). È
necessario un effettivo cambiamento di mentalità
che ci induca ad adottare nuovi stili di vita,
“nei quali la ricerca del vero, del bello e del
buono e la comunione con gli altri uomini per una
crescita comune siano gli elementi che determinano
le scelte dei consumi, dei risparmi e degli
investimenti” (123). Ogni lesione della
solidarietà e dell'amicizia civica provoca danni
ambientali, così come il degrado ambientale, a sua
volta, provoca insoddisfazione nelle relazioni
sociali. La natura, specialmente nella nostra
epoca, è talmente integrata nelle dinamiche
sociali e culturali da non costituire quasi più
una variabile indipendente. La desertificazione e
l'impoverimento produttivo di alcune aree agricole
sono anche frutto dell'impoverimento delle
popolazioni che le abitano e della loro
arretratezza. Incentivando lo sviluppo economico e
culturale di quelle popolazioni, si tutela anche
la natura. Inoltre, quante risorse naturali sono
devastate dalle guerre! La pace dei popoli e tra i
popoli permetterebbe anche una maggiore
salvaguardia della natura. L'accaparramento delle
risorse, specialmente dell'acqua, può provocare
gravi conflitti tra le popolazioni coinvolte. Un
pacifico accordo sull'uso delle risorse può
salvaguardare la natura e, contemporaneamente, il
benessere delle società interessate.
La Chiesa ha
una responsabilità per il creato
e deve far valere
questa responsabilità anche in pubblico. E
facendolo deve difendere non solo la terra,
l'acqua e l'aria come doni della creazione
appartenenti a tutti. Deve proteggere soprattutto
l'uomo contro la distruzione di se stesso. È
necessario che ci sia qualcosa come un'ecologia
dell'uomo, intesa in senso giusto. Il degrado
della natura è infatti strettamente connesso alla
cultura che modella la convivenza umana: quando
l'« ecologia umana » (124) è rispettata
dentro la società, anche l'ecologia ambientale ne
trae beneficio. Come le virtù umane sono tra
loro comunicanti, tanto che l'indebolimento di una
espone a rischio anche le altre, così il sistema
ecologico si regge sul rispetto di un progetto che
riguarda sia la sana convivenza in società sia il
buon rapporto con la natura.
Per salvaguardare
la natura non è sufficiente intervenire con
incentivi o disincentivi economici e nemmeno basta
un'istruzione adeguata. Sono, questi, strumenti
importanti, ma il problema decisivo è la
complessiva tenuta morale della società. Se
non si rispetta il diritto alla vita e alla morte
naturale, se si rende artificiale il concepimento,
la gestazione e la nascita dell'uomo, se si
sacrificano embrioni umani alla ricerca, la
coscienza comune finisce per perdere il concetto
di ecologia umana e, con esso, quello di ecologia
ambientale. È una contraddizione chiedere alle
nuove generazioni il rispetto dell'ambiente
naturale, quando l'educazione e le leggi non le
aiutano a rispettare se stesse. Il libro della
natura è uno e indivisibile, sul versante
dell'ambiente come sul versante della vita, della
sessualità, del matrimonio, della famiglia, delle
relazioni sociali, in una parola dello sviluppo
umano integrale. I doveri che abbiamo verso
l'ambiente si collegano con i doveri che abbiamo
verso la persona considerata in se stessa e in
relazione con gli altri. Non si possono esigere
gli uni e conculcare gli altri. Questa è una grave
antinomia della mentalità e della prassi odierna,
che avvilisce la persona, sconvolge l'ambiente e
danneggia la società.
52. La verità e
l'amore che essa dischiude non si possono
produrre, si possono solo accogliere. La loro
fonte ultima non è, né può essere, l'uomo, ma Dio,
ossia Colui che è Verità e Amore. Questo principio
è assai importante per la società e per lo
sviluppo, in quanto né l'una né l'altro possono
essere solo prodotti umani; la stessa vocazione
allo sviluppo delle persone e dei popoli non si
fonda su una semplice deliberazione umana, ma è
inscritta in un piano che ci precede e che
costituisce per tutti noi un dovere che deve
essere liberamente accolto. Ciò che ci precede e
che ci costituisce — l'Amore e la Verità
sussistenti — ci indica che cosa sia il bene e in
che cosa consista la nostra felicità. Ci indica
quindi la strada verso il vero sviluppo.
CAPITOLO QUINTO
LA COLLABORAZIONE
DELLA FAMIGLIA UMANA
53. Una delle più
profonde povertà che l'uomo può sperimentare è la
solitudine. A ben vedere anche le altre povertà,
comprese quelle materiali, nascono
dall'isolamento, dal non essere amati o dalla
difficoltà di amare. Le povertà spesso sono
generate dal rifiuto dell'amore di Dio, da
un'originaria tragica chiusura in se medesimo
dell'uomo, che pensa di bastare a se stesso,
oppure di essere solo un fatto insignificante e
passeggero, uno « straniero » in un universo
costituitosi per caso. L'uomo è alienato quando è
solo o si stacca dalla realtà, quando rinuncia a
pensare e a credere in un Fondamento (125).
L'umanità intera è alienata quando si affida a
progetti solo umani, a ideologie e a utopie false
(126). Oggi l'umanità appare molto più interattiva
di ieri: questa maggiore vicinanza si deve
trasformare in vera comunione. Lo sviluppo dei
popoli dipende soprattutto dal riconoscimento di
essere una sola famiglia, che collabora in
vera comunione ed è costituita da soggetti che non
vivono semplicemente l'uno accanto all'altro
(127).
Paolo VI notava che « il mondo soffre per
mancanza di pensiero » (128). L'affermazione
contiene una constatazione, ma soprattutto un
auspicio: serve un nuovo slancio del pensiero per
comprendere meglio le implicazioni del nostro
essere una famiglia; l'interazione tra i popoli
del pianeta ci sollecita a questo slancio,
affinché l'integrazione avvenga nel segno della
solidarietà (129) piuttosto che della
marginalizzazione. Un simile pensiero obbliga ad
un approfondimento critico e valoriale della
categoria della relazione. Si tratta di un
impegno che non può essere svolto dalle sole
scienze sociali, in quanto richiede l'apporto di
saperi come la metafisica e la teologia, per
cogliere in maniera illuminata la dignità
trascendente dell'uomo.
La creatura
umana, in quanto di natura spirituale, si realizza
nelle relazioni interpersonali. Più le vive in
modo autentico, più matura anche la propria
identità personale. Non è isolandosi che l'uomo
valorizza se stesso, ma ponendosi in relazione con
gli altri e con Dio. L'importanza di tali
relazioni diventa quindi fondamentale. Ciò vale
anche per i popoli. È, quindi, molto utile al loro
sviluppo una visione metafisica della relazione
tra le persone. A questo riguardo, la ragione
trova ispirazione e orientamento nella rivelazione
cristiana, secondo la quale la comunità degli
uomini non assorbe in sé la persona annientandone
l'autonomia, come accade nelle varie forme di
totalitarismo, ma la valorizza ulteriormente,
perché il rapporto tra persona e comunità è di un
tutto verso un altro tutto (130). Come la comunità
familiare non annulla in sé le persone che la
compongono e come la Chiesa stessa valorizza
pienamente la “nuova creatura” (Gal 6,15;
2 Cor 5,17) che con il battesimo si inserisce
nel suo Corpo vivo, così anche l'unità della
famiglia umana non annulla in sé le persone, i
popoli e le culture, ma li rende più trasparenti
l'uno verso l'altro, maggiormente uniti nelle loro
legittime diversità.
54. Il tema dello
sviluppo coincide con quello dell'inclusione
relazionale di tutte le persone e di tutti i
popoli nell'unica comunità della famiglia umana,
che si costruisce nella solidarietà sulla base dei
fondamentali valori della giustizia e della pace.
Questa prospettiva trova un'illuminazione decisiva
nel rapporto tra le Persone della Trinità
nell'unica Sostanza divina. La Trinità è assoluta
unità, in quanto le tre divine Persone sono
relazionalità pura. La trasparenza reciproca tra
le Persone divine è piena e il legame dell'una con
l'altra totale, perché costituiscono un'assoluta
unità e unicità. Dio vuole associare anche noi a
questa realtà di comunione: « perché siano come
noi una cosa sola » (Gv 17,22). Di questa
unità la Chiesa è segno e strumento (131). Anche
le relazioni tra gli uomini lungo la storia non
hanno che da trarre vantaggio dal riferimento a
questo divino Modello. In particolare, alla
luce del mistero rivelato della Trinità si
comprende che la vera apertura non significa
dispersione centrifuga, ma compenetrazione
profonda. Questo risulta anche dalle comuni
esperienze umane dell'amore e della verità. Come
l'amore sacramentale tra i coniugi li unisce
spiritualmente in « una carne sola » (Gn
2,24; Mt 19,5; Ef 5,31) e da due che
erano fa di loro un'unità relazionale e reale,
analogamente la verità unisce gli spiriti tra loro
e li fa pensare all'unisono, attirandoli e
unendoli in sé.
55. La
rivelazione cristiana sull'unità del genere umano
presuppone un'interpretazione metafisica dell'humanum
in cui la relazionalità è elemento essenziale.
Anche altre culture e altre religioni insegnano la
fratellanza e la pace e, quindi, sono di grande
importanza per lo sviluppo umano integrale. Non
mancano, però, atteggiamenti religiosi e culturali
in cui non si assume pienamente il principio
dell'amore e della verità e si finisce così per
frenare il vero sviluppo umano o addirittura per
impedirlo. Il mondo di oggi è attraversato da
alcune culture a sfondo religioso, che non
impegnano l'uomo alla comunione, ma lo isolano
nella ricerca del benessere individuale,
limitandosi a gratificarne le attese psicologiche.
Anche una certa proliferazione di percorsi
religiosi di piccoli gruppi o addirittura di
singole persone, e il sincretismo religioso
possono essere fattori di dispersione e di
disimpegno. Un possibile effetto negativo del
processo di globalizzazione è la tendenza a
favorire tale sincretismo (132), alimentando forme
di “religione” che estraniano le persone le une
dalle altre anziché farle incontrare e le
allontanano dalla realtà. Contemporaneamente,
permangono talora retaggi culturali e religiosi
che ingessano la società in caste sociali
statiche, in credenze magiche irrispettose della
dignità della persona, in atteggiamenti di
soggezione a forze occulte. In questi contesti,
l'amore e la verità trovano difficoltà ad
affermarsi, con danno per l'autentico sviluppo.
Per questo
motivo, se è vero, da un lato, che lo sviluppo ha
bisogno delle religioni e delle culture dei
diversi popoli, resta pure vero, dall'altro, che è
necessario un adeguato discernimento. La libertà
religiosa non significa indifferentismo religioso
e non comporta che tutte le religioni siano uguali
(133). Il discernimento circa il contributo delle
culture e delle religioni si rende necessario per
la costruzione della comunità sociale nel rispetto
del bene comune soprattutto per chi esercita il
potere politico. Tale discernimento dovrà basarsi
sul criterio della carità e della verità. Siccome
è in gioco lo sviluppo delle persone e dei popoli,
esso terrà conto della possibilità di
emancipazione e di inclusione nell'ottica di una
comunità umana veramente universale. « Tutto
l'uomo e tutti gli uomini » è criterio per
valutare anche le culture e le religioni. Il
Cristianesimo, religione del « Dio dal volto umano
» (134), porta in se stesso un simile criterio.
56. La religione
cristiana e le altre religioni possono dare il
loro apporto allo sviluppo solo se Dio trova un
posto anche nella sfera pubblica, con
specifico riferimento alle dimensioni culturale,
sociale, economica e, in particolare, politica. La
dottrina sociale della Chiesa è nata per
rivendicare questo « statuto di cittadinanza »
(135) della religione cristiana. La negazione del
diritto a professare pubblicamente la propria
religione e ad operare perché le verità della fede
informino di sé anche la vita pubblica comporta
conseguenze negative sul vero sviluppo.
L'esclusione della religione dall'ambito pubblico
come, per altro verso, il fondamentalismo
religioso, impediscono l'incontro tra le persone e
la loro collaborazione per il progresso
dell'umanità. La vita pubblica si impoverisce di
motivazioni e la politica assume un volto
opprimente e aggressivo. I diritti umani rischiano
di non essere rispettati o perché vengono privati
del loro fondamento trascendente o perché non
viene riconosciuta la libertà personale. Nel
laicismo e nel fondamentalismo si perde la
possibilità di un dialogo fecondo e di una
proficua collaborazione tra la ragione e la fede
religiosa. La ragione ha sempre bisogno di
essere purificata dalla fede, e questo vale
anche per la ragione politica, che non deve
credersi onnipotente. A sua volta, la religione
ha sempre bisogno di venire purificata dalla
ragione per mostrare il suo autentico volto
umano. La rottura di questo dialogo comporta un
costo molto gravoso per lo sviluppo dell'umanità.
57. Il dialogo
fecondo tra fede e ragione non può che rendere più
efficace l'opera della carità nel sociale e
costituisce la cornice più appropriata per
incentivare la collaborazione fraterna tra
credenti e non credenti nella condivisa
prospettiva di lavorare per la giustizia e la pace
dell'umanità. Nella Costituzione pastorale
Gaudium et spes
i Padri
conciliari affermavano: « Credenti e non credenti
sono generalmente d'accordo nel ritenere che tutto
quanto esiste sulla terra deve essere riferito
all'uomo, come a suo centro e a suo vertice »
(136). Per i credenti, il mondo non è frutto del
caso né della necessità, ma di un progetto di Dio.
Nasce di qui il dovere che i credenti hanno di
unire i loro sforzi con tutti gli uomini e le
donne di buona volontà di altre religioni o non
credenti, affinché questo nostro mondo corrisponda
effettivamente al progetto divino: vivere come una
famiglia, sotto lo sguardo del Creatore.
Manifestazione particolare della carità e criterio
guida per la collaborazione fraterna di credenti e
non credenti è senz'altro il principio di
sussidiarietà (137), espressione
dell'inalienabile libertà umana. La sussidiarietà
è prima di tutto un aiuto alla persona, attraverso
l'autonomia dei corpi intermedi. Tale aiuto viene
offerto quando la persona e i soggetti sociali non
riescono a fare da sé e implica sempre finalità
emancipatrici, perché favorisce la libertà e la
partecipazione in quanto assunzione di
responsabilità. La sussidiarietà rispetta la
dignità della persona, nella quale vede un
soggetto sempre capace di dare qualcosa agli
altri. Riconoscendo nella reciprocità l'intima
costituzione dell'essere umano, la sussidiarietà è
l'antidoto più efficace contro ogni forma di
assistenzialismo paternalista. Essa può dar conto
sia della molteplice articolazione dei piani e
quindi della pluralità dei soggetti, sia di un
loro coordinamento. Si tratta quindi di un
principio particolarmente adatto a governare la
globalizzazione e a orientarla verso un vero
sviluppo umano. Per non dar vita a un pericoloso
potere universale di tipo monocratico, il
governo della globalizzazione deve essere di tipo
sussidiario, articolato su più livelli e su
piani diversi, che collaborino reciprocamente. La
globalizzazione ha certo bisogno di autorità, in
quanto pone il problema di un bene comune globale
da perseguire; tale autorità, però, dovrà essere
organizzata in modo sussidiario e poliarchico
(138), sia per non ledere la libertà sia per
risultare concretamente efficace.
58. Il
principio di sussidiarietà va mantenuto
strettamente connesso con il principio di
solidarietà e viceversa, perché se la
sussidiarietà senza la solidarietà scade nel
particolarismo sociale, è altrettanto vero che la
solidarietà senza la sussidiarietà scade
nell'assistenzialismo che umilia il portatore di
bisogno. Questa regola di carattere generale va
tenuta in grande considerazione anche quando si
affrontano le tematiche relative agli aiuti
internazionali allo sviluppo. Essi, al di là
delle intenzioni dei donatori, possono a volte
mantenere un popolo in uno stato di dipendenza e
perfino favorire situazioni di dominio locale e di
sfruttamento all'interno del Paese aiutato. Gli
aiuti economici, per essere veramente tali, non
devono perseguire secondi fini. Devono essere
erogati coinvolgendo non solo i governi dei Paesi
interessati, ma anche gli attori economici locali
e i soggetti della società civile portatori di
cultura, comprese le Chiese locali. I programmi di
aiuto devono assumere in misura sempre maggiore le
caratteristiche di programmi integrati e
partecipati dal basso. Resta vero infatti che la
maggior risorsa da valorizzare nei Paesi da
assistere nello sviluppo è la risorsa umana:
questa è l'autentico capitale da far crescere per
assicurare ai Paesi più poveri un vero avvenire
autonomo. Va anche ricordato che, in campo
economico, il principale aiuto di cui hanno
bisogno i Paesi in via di sviluppo è quello di
consentire e favorire il progressivo inserimento
dei loro prodotti nei mercati internazionali,
rendendo così possibile la loro piena
partecipazione alla vita economica internazionale.
Troppo spesso, nel passato, gli aiuti sono valsi a
creare soltanto mercati marginali per i prodotti
di questi Paesi. Questo è dovuto spesso a una
mancanza di vera domanda di questi prodotti: è
pertanto necessario aiutare tali Paesi a
migliorare i loro prodotti e ad adattarli meglio
alla domanda. Inoltre, alcuni hanno spesso temuto
la concorrenza delle importazioni di prodotti,
normalmente agricoli, provenienti dai Paesi
economicamente poveri. Va tuttavia ricordato che
per questi Paesi la possibilità di
commercializzare tali prodotti significa molto
spesso garantire la loro sopravvivenza nel breve e
nel lungo periodo. Un commercio internazionale
giusto e bilanciato in campo agricolo può portare
benefici a tutti, sia dal lato dell'offerta che da
quello della domanda. Per questo motivo, non solo
è necessario orientare commercialmente queste
produzioni, ma stabilire regole commerciali
internazionali che le sostengano, e rafforzare il
finanziamento allo sviluppo per rendere più
produttive queste economie.
59. La
cooperazione allo sviluppo non deve riguardare
la sola dimensione economica; essa deve diventare
una grande occasione di incontro culturale e
umano. Se i soggetti della cooperazione dei
Paesi economicamente sviluppati non tengono conto,
come talvolta avviene, della propria ed altrui
identità culturale fatta di valori umani, non
possono instaurare alcun dialogo profondo con i
cittadini dei Paesi poveri. Se questi ultimi, a
loro volta, si aprono indifferentemente e senza
discernimento a ogni proposta culturale, non sono
in condizione di assumere la responsabilità del
loro autentico sviluppo (139). Le società
tecnologicamente avanzate non devono confondere il
proprio sviluppo tecnologico con una presunta
superiorità culturale, ma devono riscoprire in se
stesse virtù talvolta dimenticate, che le hanno
fatte fiorire lungo la storia. Le società in
crescita devono rimanere fedeli a quanto di
veramente umano c'è nelle loro tradizioni,
evitando di sovrapporvi automaticamente i
meccanismi della civiltà tecnologica globalizzata.
In tutte le culture ci sono singolari e molteplici
convergenze etiche, espressione della medesima
natura umana, voluta dal Creatore, e che la
sapienza etica dell'umanità chiama legge naturale
(140). Una tale legge morale universale è saldo
fondamento di ogni dialogo culturale, religioso e
politico e consente al multiforme pluralismo delle
varie culture di non staccarsi dalla comune
ricerca del vero, del bene e di Dio. L'adesione a
quella legge scritta nei cuori, pertanto, è il
presupposto di ogni costruttiva collaborazione
sociale. In tutte le culture vi sono pesantezze da
cui liberarsi, ombre a cui sottrarsi. La fede
cristiana, che si incarna nelle culture
trascendendole, può aiutarle a crescere nella
convivialità e nella solidarietà universali a
vantaggio dello sviluppo comunitario e planetario.
60. Nella ricerca
di soluzioni della attuale crisi economica,
l'aiuto allo sviluppo dei Paesi poveri deve esser
considerato come vero strumento di creazione di
ricchezza per tutti. Quale progetto di aiuto
può prospettare una crescita di valore così
significativa — anche dell'economia mondiale —
come il sostegno a popolazioni che si trovano
ancora in una fase iniziale o poco avanzata del
loro processo di sviluppo economico? In questa
prospettiva, gli Stati economicamente più
sviluppati faranno il possibile per destinare
maggiori quote del loro prodotto interno lordo per
gli aiuti allo sviluppo, rispettando gli impegni
che su questo punto sono stati presi a livello di
comunità internazionale. Lo potranno fare anche
rivedendo le politiche di assistenza e di
solidarietà sociale al loro interno, applicandovi
il principio di sussidiarietà e creando sistemi di
previdenza sociale maggiormente integrati, con la
partecipazione attiva dei soggetti privati e della
società civile. In questo modo è possibile perfino
migliorare i servizi sociali e di assistenza e,
nello stesso tempo, risparmiare risorse, anche
eliminando sprechi e rendite abusive, da destinare
alla solidarietà internazionale. Un sistema di
solidarietà sociale maggiormente partecipato e
organico, meno burocratizzato ma non meno
coordinato, permetterebbe di valorizzare tante
energie, oggi sopite, a vantaggio anche della
solidarietà tra i popoli.
Una possibilità
di aiuto per lo sviluppo potrebbe derivare
dall'applicazione efficace della cosiddetta
sussidiarietà fiscale, che permetterebbe ai
cittadini di decidere sulla destinazione di quote
delle loro imposte versate allo Stato. Evitando
degenerazioni particolaristiche, ciò può essere di
aiuto per incentivare forme di solidarietà sociale
dal basso, con ovvi benefici anche sul versante
della solidarietà per lo sviluppo.
61. Una
solidarietà più ampia a livello internazionale si
esprime innanzitutto nel continuare a promuovere,
anche in condizioni di crisi economica, un
maggiore accesso all'educazione, la quale,
d'altro canto, è condizione essenziale per
l'efficacia della stessa cooperazione
internazionale. Con il termine “educazione” non ci
si riferisce solo all'istruzione o alla formazione
al lavoro, entrambe cause importanti di sviluppo,
ma alla formazione completa della persona. A
questo proposito va sottolineato un aspetto
problematico: per educare bisogna sapere chi è la
persona umana, conoscerne la natura. L'affermarsi
di una visione relativistica di tale natura pone
seri problemi all'educazione, soprattutto
all'educazione morale, pregiudicandone
l'estensione a livello universale. Cedendo ad un
simile relativismo, si diventa tutti più poveri,
con conseguenze negative anche sull'efficacia
dell'aiuto alle popolazioni più bisognose, le
quali non hanno solo necessità di mezzi economici
o tecnici, ma anche di vie e di mezzi pedagogici
che assecondino le persone nella loro piena
realizzazione umana.
Un esempio della
rilevanza di questo problema ci è offerto dal
fenomeno del turismo internazionale (141),
che può costituire un notevole fattore di sviluppo
economico e di crescita culturale, ma che può
trasformarsi anche in occasione di sfruttamento e
di degrado morale. La situazione attuale offre
singolari opportunità perché gli aspetti economici
dello sviluppo, ossia i flussi di denaro e la
nascita in sede locale di esperienze
imprenditoriali significative, arrivino a
combinarsi con quelli culturali, primo fra tutti
l'aspetto educativo. In molti casi questo avviene,
ma in tanti altri il turismo internazionale è
evento diseducativo sia per il turista sia per le
popolazioni locali. Queste ultime spesso sono
poste di fronte a comportamenti immorali, o
addirittura perversi, come nel caso del turismo
cosiddetto sessuale, al quale sono sacrificati
tanti esseri umani, perfino in giovane età. È
doloroso constatare che ciò si svolge spesso con
l'avallo dei governi locali, con il silenzio di
quelli da cui provengono i turisti e con la
complicità di tanti operatori del settore. Anche
quando non si giunge a tanto, il turismo
internazionale, non poche volte, è vissuto in modo
consumistico ed edonistico, come evasione e con
modalità organizzative tipiche dei Paesi di
provenienza, così da non favorire un vero incontro
tra persone e culture. Bisogna, allora, pensare a
un turismo diverso, capace di promuovere una vera
conoscenza reciproca, senza togliere spazio al
riposo e al sano divertimento: un turismo di
questo genere va incrementato, grazie anche ad un
più stretto collegamento con le esperienze di
cooperazione internazionale e di imprenditoria per
lo sviluppo.
62. Un altro
aspetto meritevole di attenzione, trattando dello
sviluppo umano integrale, è il fenomeno delle
migrazioni. È fenomeno che impressiona per la
quantità di persone coinvolte, per le
problematiche sociali, economiche, politiche,
culturali e religiose che solleva, per le sfide
drammatiche che pone alle comunità nazionali e a
quella internazionale. Possiamo dire che siamo di
fronte a un fenomeno sociale di natura epocale,
che richiede una forte e lungimirante politica di
cooperazione internazionale per essere
adeguatamente affrontato. Tale politica va
sviluppata a partire da una stretta collaborazione
tra i Paesi da cui partono i migranti e i Paesi in
cui arrivano; va accompagnata da adeguate
normative internazionali in grado di armonizzare i
diversi assetti legislativi, nella prospettiva di
salvaguardare le esigenze e i diritti delle
persone e delle famiglie emigrate e, al tempo
stesso, quelli delle società di approdo degli
stessi emigrati. Nessun Paese da solo può
ritenersi in grado di far fronte ai problemi
migratori del nostro tempo. Tutti siamo testimoni
del carico di sofferenza, di disagio e di
aspirazioni che accompagna i flussi migratori. Il
fenomeno, com'è noto, è di gestione complessa;
resta tuttavia accertato che i lavoratori
stranieri, nonostante le difficoltà connesse con
la loro integrazione, recano un contributo
significativo allo sviluppo economico del Paese
ospite con il loro lavoro, oltre che a quello del
Paese d'origine grazie alle rimesse finanziarie.
Ovviamente, tali lavoratori non possono essere
considerati come una merce o una mera forza
lavoro. Non devono, quindi, essere trattati come
qualsiasi altro fattore di produzione. Ogni
migrante è una persona umana che, in quanto tale,
possiede diritti fondamentali inalienabili che
vanno rispettati da tutti e in ogni situazione
(142).
63. Nella
considerazione dei problemi dello sviluppo, non si
può non mettere in evidenza il nesso diretto tra
povertà e disoccupazione. I poveri in molti
casi sono il risultato della violazione della
dignità del lavoro umano, sia perché ne
vengono limitate le possibilità (disoccupazione,
sotto-occupazione), sia perché vengono svalutati «
i diritti che da esso scaturiscono, specialmente
il diritto al giusto salario, alla sicurezza della
persona del lavoratore e della sua famiglia »
(143). Perciò, già il 1o maggio 2000, il mio
Predecessore
Giovanni Paolo II, di venerata memoria, in
occasione del Giubileo dei Lavoratori, lanciò un
appello per « una coalizione mondiale in favore
del lavoro decente » (144), incoraggiando la
strategia dell'Organizzazione Internazionale del
Lavoro. In tal modo, conferiva un forte riscontro
morale a questo obiettivo, quale aspirazione delle
famiglie in tutti i Paesi del mondo. Che cosa
significa la parola « decenza » applicata al
lavoro? Significa un lavoro che, in ogni società,
sia l'espressione della dignità essenziale di ogni
uomo e di ogni donna: un lavoro scelto
liberamente, che associ efficacemente i
lavoratori, uomini e donne, allo sviluppo della
loro comunità; un lavoro che, in questo modo,
permetta ai lavoratori di essere rispettati al di
fuori di ogni discriminazione; un lavoro che
consenta di soddisfare le necessità delle famiglie
e di scolarizzare i figli, senza che questi siano
costretti essi stessi a lavorare; un lavoro che
permetta ai lavoratori di organizzarsi liberamente
e di far sentire la loro voce; un lavoro che lasci
uno spazio sufficiente per ritrovare le proprie
radici a livello personale, familiare e
spirituale; un lavoro che assicuri ai lavoratori
giunti alla pensione una condizione dignitosa.
64. Riflettendo
sul tema del lavoro, è opportuno anche un richiamo
all'urgente esigenza che le organizzazioni
sindacali dei lavoratori, da sempre
incoraggiate e sostenute dalla Chiesa, si aprano
alle nuove prospettive che emergono nell'ambito
lavorativo. Superando le limitazioni proprie dei
sindacati di categoria, le organizzazioni
sindacali sono chiamate a farsi carico dei nuovi
problemi delle nostre società: mi riferisco, ad
esempio, a quell'insieme di questioni che gli
studiosi di scienze sociali identificano nel
conflitto tra persona-lavoratrice e
persona-consumatrice. Senza dover necessariamente
sposare la tesi di un avvenuto passaggio dalla
centralità del lavoratore alla centralità del
consumatore, sembra comunque che anche questo sia
un terreno per innovative esperienze sindacali. Il
contesto globale in cui si svolge il lavoro
richiede anche che le organizzazioni sindacali
nazionali, prevalentemente chiuse nella difesa
degli interessi dei propri iscritti, volgano lo
sguardo anche verso i non iscritti e, in
particolare, verso i lavoratori dei Paesi in via
di sviluppo, dove i diritti sociali vengono spesso
violati. La difesa di questi lavoratori, promossa
anche attraverso opportune iniziative verso i
Paesi di origine, permetterà alle organizzazioni
sindacali di porre in evidenza le autentiche
ragioni etiche e culturali che hanno loro
consentito, in contesti sociali e lavorativi
diversi, di essere un fattore decisivo per lo
sviluppo. Resta sempre valido il tradizionale
insegnamento della Chiesa, che propone la
distinzione di ruoli e funzioni tra sindacato e
politica. Questa distinzione consentirà
alle organizzazioni sindacali di individuare nella
società civile l'ambito più consono alla loro
necessaria azione di difesa e promozione del mondo
del lavoro, soprattutto a favore dei lavoratori
sfruttati e non rappresentati, la cui amara
condizione risulta spesso ignorata dall'occhio
distratto della società.
65. Bisogna, poi,
che la finanza in quanto tale, nelle
necessariamente rinnovate strutture e modalità di
funzionamento dopo il suo cattivo utilizzo che ha
danneggiato l'economia reale, ritorni ad essere
uno strumento finalizzato alla miglior
produzione di ricchezza ed allo sviluppo.
Tutta l'economia e tutta la finanza, non solo
alcuni loro segmenti, devono, in quanto strumenti,
essere utilizzati in modo etico così da creare le
condizioni adeguate per lo sviluppo dell'uomo e
dei popoli. È certamente utile, e in talune
circostanze indispensabile, dar vita a iniziative
finanziarie nelle quali la dimensione umanitaria
sia dominante. Ciò, però, non deve far dimenticare
che l'intero sistema finanziario deve essere
finalizzato al sostegno di un vero sviluppo.
Soprattutto, bisogna che l'intento di fare del
bene non venga contrapposto a quello
dell'effettiva capacità di produrre dei beni. Gli
operatori della finanza devono riscoprire il
fondamento propriamente etico della loro attività
per non abusare di quegli strumenti sofisticati
che possono servire per tradire i risparmiatori.
Retta intenzione, trasparenza e ricerca dei buoni
risultati sono compatibili e non devono mai essere
disgiunti. Se l'amore è intelligente, sa trovare
anche i modi per operare secondo una previdente e
giusta convenienza, come indicano, in maniera
significativa, molte esperienze nel campo della
cooperazione di credito.
Tanto una
regolamentazione del settore tale da garantire i
soggetti più deboli e impedire scandalose
speculazioni, quanto la sperimentazione di nuove
forme di finanza destinate a favorire progetti di
sviluppo, sono esperienze positive che vanno
approfondite ed incoraggiate, richiamando la
stessa responsabilità del risparmiatore. Anche
l'esperienza della microfinanza, che affonda
le proprie radici nella riflessione e nelle opere
degli umanisti civili — penso soprattutto alla
nascita dei Monti di Pietà –, va rafforzata e
messa a punto, soprattutto in questi momenti dove
i problemi finanziari possono diventare drammatici
per molti segmenti più vulnerabili della
popolazione, che vanno tutelati dai rischi di
usura o dalla disperazione. I soggetti più deboli
vanno educati a difendersi dall'usura, così come i
popoli poveri vanno educati a trarre reale
vantaggio dal microcredito, scoraggiando in tal
modo le forme di sfruttamento possibili in questi
due campi. Poiché anche nei Paesi ricchi esistono
nuove forme di povertà, la microfinanza può dare
concreti aiuti per la creazione di iniziative e
settori nuovi a favore dei ceti deboli della
società anche in una fase di possibile
impoverimento della società stessa.
66. La
interconnessione mondiale ha fatto emergere un
nuovo potere politico, quello dei consumatori e
delle loro associazioni. Si tratta di un
fenomeno da approfondire, che contiene elementi
positivi da incentivare e anche eccessi da evitare.
È bene che le persone si rendano conto che
acquistare è sempre un atto morale, oltre che
economico. C'è dunque una precisa
responsabilità sociale del consumatore, che si
accompagna alla responsabilità sociale
dell'impresa. I consumatori vanno continuamente
educati (145) al ruolo che quotidianamente
esercitano e che essi possono svolgere nel
rispetto dei principi morali, senza sminuire la
razionalità economica intrinseca all'atto
dell'acquistare. Anche nel campo degli acquisti,
proprio in momenti come quelli che si stanno
sperimentando dove il potere di acquisto potrà
ridursi e si dovrà consumare con maggior sobrietà,
è necessario percorrere altre strade, come per
esempio forme di cooperazione all'acquisto, quali
le cooperative di consumo, attive a partire
dall'Ottocento anche grazie all'iniziativa dei
cattolici. È utile inoltre favorire forme nuove di
commercializzazione di prodotti provenienti da
aree depresse del pianeta per garantire una
retribuzione decente ai produttori, a condizione
che si tratti veramente di un mercato trasparente,
che i produttori non ricevano solo maggiori
margini di guadagno, ma anche maggiore formazione,
professionalità e tecnologia, e infine che non
s'associno a simili esperienze di economia per lo
sviluppo visioni ideologiche di parte. Un più
incisivo ruolo dei consumatori, quando non vengano
manipolati essi stessi da associazioni non
veramente rappresentative, è auspicabile come
fattore di democrazia economica.
67. Di fronte
all'inarrestabile crescita dell'interdipendenza
mondiale, è fortemente sentita, anche in presenza
di una recessione altrettanto mondiale, l'urgenza
della riforma sia dell'Organizzazione delle
Nazioni Unite che dell'architettura
economica e finanziaria internazionale,
affinché si possa dare reale concretezza al
concetto di famiglia di Nazioni. Sentita è pure
l'urgenza di trovare forme innovative per attuare
il principio di responsabilità di proteggere
(146) e per attribuire anche alle Nazioni più
povere una voce efficace nelle decisioni comuni.
Ciò appare necessario proprio in vista di un
ordinamento politico, giuridico ed economico che
incrementi ed orienti la collaborazione
internazionale verso lo sviluppo solidale di tutti
i popoli. Per il governo dell'economia mondiale;
per risanare le economie colpite dalla crisi, per
prevenire peggioramenti della stessa e conseguenti
maggiori squilibri; per realizzare un opportuno
disarmo integrale, la sicurezza alimentare e la
pace; per garantire la salvaguardia dell'ambiente
e per regolamentare i flussi migratori, urge la
presenza di una vera Autorità politica mondiale,
quale è stata già tratteggiata dal mio
Predecessore, il Beato
Giovanni XXIII. Una simile Autorità dovrà
essere regolata dal diritto, attenersi in modo
coerente ai principi di sussidiarietà e di
solidarietà, essere ordinata alla realizzazione
del bene comune (147), impegnarsi nella
realizzazione di un autentico sviluppo umano
integrale ispirato ai valori della carità nella
verità. Tale Autorità inoltre dovrà essere da
tutti riconosciuta, godere di potere effettivo per
garantire a ciascuno la sicurezza, l'osservanza
della giustizia, il rispetto dei diritti (148).
Ovviamente, essa deve godere della facoltà di far
rispettare dalle parti le proprie decisioni, come
pure le misure coordinate adottate nei vari fori
internazionali. In mancanza di ciò, infatti, il
diritto internazionale, nonostante i grandi
progressi compiuti nei vari campi, rischierebbe di
essere condizionato dagli equilibri di potere tra
i più forti. Lo sviluppo integrale dei popoli e la
collaborazione internazionale esigono che venga
istituito un grado superiore di ordinamento
internazionale di tipo sussidiario per il governo
della globalizzazione (149) e che si dia
finalmente attuazione ad un ordine sociale
conforme all'ordine morale e a quel raccordo tra
sfera morale e sociale, tra politica e sfera
economica e civile che è già prospettato nello
Statuto delle Nazioni Unite.
CAPITOLO SESTO
LO SVILUPPO DEI
POPOLI
E LA TECNICA
68. Il tema dello
sviluppo dei popoli è legato intimamente a quello
dello sviluppo di ogni singolo uomo. La persona
umana per sua natura è dinamicamente protesa al
proprio sviluppo. Non si tratta di uno sviluppo
garantito da meccanismi naturali, perché ognuno di
noi sa di essere in grado di compiere scelte
libere e responsabili. Non si tratta nemmeno di
uno sviluppo in balia del nostro capriccio, in
quanto tutti sappiamo di essere dono e non
risultato di autogenerazione. In noi la libertà è
originariamente caratterizzata dal nostro essere e
dai suoi limiti. Nessuno plasma la propria
coscienza arbitrariamente, ma tutti costruiscono
il proprio “io” sulla base di un “sé” che ci è
stato dato. Non solo le altre persone sono
indisponibili, ma anche noi lo siamo a noi stessi.
Lo sviluppo della persona si degrada, se essa
pretende di essere l'unica produttrice di se
stessa. Analogamente, lo sviluppo dei popoli
degenera se l'umanità ritiene di potersi ri-creare
avvalendosi dei “prodigi” della tecnologia. Così
come lo sviluppo economico si rivela fittizio e
dannoso se si affida ai “prodigi” della finanza
per sostenere crescite innaturali e consumistiche.
Davanti a questa pretesa prometeica, dobbiamo
irrobustire l'amore per una libertà non
arbitraria, ma resa veramente umana dal
riconoscimento del bene che la precede. Occorre, a
tal fine, che l'uomo rientri in se stesso per
riconoscere le fondamentali norme della legge
morale naturale che Dio ha inscritto nel suo
cuore.
69. Il problema
dello sviluppo oggi è strettamente congiunto con
il progresso tecnologico, con le sue
strabilianti applicazioni in campo biologico. La
tecnica — è bene sottolinearlo — è un fatto
profondamente umano, legato all'autonomia e alla
libertà dell'uomo. Nella tecnica si esprime e si
conferma la signoria dello spirito sulla materia.
Lo spirito, « reso così “meno schiavo delle cose,
può facilmente elevarsi all'adorazione e alla
contemplazione del Creatore” » (150). La tecnica
permette di dominare la materia, di ridurre i
rischi, di risparmiare fatica, di migliorare le
condizioni di vita. Essa risponde alla stessa
vocazione del lavoro umano: nella tecnica, vista
come opera del proprio genio, l'uomo riconosce se
stesso e realizza la propria umanità. La tecnica è
l'aspetto oggettivo dell'agire umano (151), la cui
origine e ragion d'essere sta nell'elemento
soggettivo: l'uomo che opera. Per questo la
tecnica non è mai solo tecnica. Essa manifesta
l'uomo e le sue aspirazioni allo sviluppo, esprime
la tensione dell'animo umano al graduale
superamento di certi condizionamenti materiali.
La tecnica, pertanto, si inserisce nel mandato di
“coltivare e custodire la terra” (cfr
Gn 2,15), che Dio ha affidato all'uomo e va
orientata a rafforzare quell'alleanza tra essere
umano e ambiente che deve essere specchio
dell'amore creatore di Dio.
70. Lo sviluppo
tecnologico può indurre l'idea
dell'autosufficienza della tecnica stessa quando
l'uomo, interrogandosi solo sul come, non
considera i tanti perché dai quali è spinto
ad agire. È per questo che la tecnica assume un
volto ambiguo. Nata dalla creatività umana quale
strumento della libertà della persona, essa può
essere intesa come elemento di libertà assoluta,
quella libertà che vuole prescindere dai limiti
che le cose portano in sé. Il processo di
globalizzazione potrebbe sostituire le ideologie
con la tecnica (152), divenuta essa stessa un
potere ideologico, che esporrebbe l'umanità al
rischio di trovarsi rinchiusa dentro un a
priori dal quale non potrebbe uscire per
incontrare l'essere e la verità. In tal caso, noi
tutti conosceremmo, valuteremmo e decideremmo le
situazioni della nostra vita dall'interno di un
orizzonte culturale tecnocratico, a cui
apparterremmo strutturalmente, senza mai poter
trovare un senso che non sia da noi prodotto.
Questa visione rende oggi così forte la mentalità
tecnicistica da far coincidere il vero con il
fattibile. Ma quando l'unico criterio della verità
è l'efficienza e l'utilità, lo sviluppo viene
automaticamente negato. Infatti, il vero sviluppo
non consiste primariamente nel fare. Chiave dello
sviluppo è un'intelligenza in grado di pensare la
tecnica e di cogliere il senso pienamente umano
del fare dell'uomo, nell'orizzonte di senso della
persona presa nella globalità del suo essere.
Anche quando opera mediante un satellite o un
impulso elettronico a distanza, il suo agire
rimane sempre umano, espressione di libertà
responsabile. La tecnica attrae fortemente l'uomo,
perché lo sottrae alle limitazioni fisiche e ne
allarga l'orizzonte. Ma la libertà umana è
propriamente se stessa, solo quando risponde al
fascino della tecnica con decisioni che siano
frutto di responsabilità morale. Di qui,
l'urgenza di una formazione alla responsabilità
etica nell'uso della tecnica. A partire dal
fascino che la tecnica esercita sull'essere umano,
si deve recuperare il senso vero della libertà,
che non consiste nell'ebbrezza di una totale
autonomia, ma nella risposta all'appello
dell'essere, a cominciare dall'essere che siamo
noi stessi.
71. Questa
possibile deviazione della mentalità tecnica dal
suo originario alveo umanistico è oggi evidente
nei fenomeni della tecnicizzazione sia dello
sviluppo che della pace. Spesso lo sviluppo dei
popoli è considerato un problema di ingegneria
finanziaria, di apertura dei mercati, di
abbattimento di dazi, di investimenti produttivi,
di riforme istituzionali, in definitiva un
problema solo tecnico. Tutti questi ambiti sono
quanto mai importanti, ma ci si deve chiedere
perché le scelte di tipo tecnico finora abbiano
funzionato solo relativamente. La ragione va
ricercata più in profondità. Lo sviluppo non sarà
mai garantito compiutamente da forze in qualche
misura automatiche e impersonali, siano esse
quelle del mercato o quelle della politica
internazionale. Lo sviluppo è impossibile senza
uomini retti, senza operatori economici e uomini
politici che vivano fortemente nelle loro
coscienze l'appello del bene comune. Sono
necessarie sia la preparazione professionale sia
la coerenza morale. Quando prevale l'assolutizzazione
della tecnica si realizza una confusione fra fini
e mezzi, l'imprenditore considererà come unico
criterio d'azione il massimo profitto della
produzione; il politico, il consolidamento del
potere; lo scienziato, il risultato delle sue
scoperte. Accade così che, spesso, sotto la rete
dei rapporti economici, finanziari o politici,
permangono incomprensioni, disagi e ingiustizie; i
flussi delle conoscenze tecniche si moltiplicano,
ma a beneficio dei loro proprietari, mentre la
situazione reale delle popolazioni che vivono
sotto e quasi sempre all'oscuro di questi flussi
rimane immutata, senza reali possibilità di
emancipazione.
72. Anche la pace
rischia talvolta di essere considerata come un
prodotto tecnico, frutto soltanto di accordi tra
governi o di iniziative volte ad assicurare
efficienti aiuti economici. È vero che la
costruzione della pace esige la costante
tessitura di contatti diplomatici, di scambi
economici e tecnologici, di incontri culturali, di
accordi su progetti comuni, come anche
l'assunzione di impegni condivisi per arginare le
minacce di tipo bellico e scalzare alla radice le
ricorrenti tentazioni terroristiche. Tuttavia,
perché tali sforzi possano produrre effetti
duraturi, è necessario che si appoggino su valori
radicati nella verità della vita. Occorre cioè
sentire la voce e guardare alla situazione delle
popolazioni interessate per interpretarne
adeguatamente le attese. Ci si deve porre, per
così dire, in continuità con lo sforzo anonimo di
tante persone fortemente impegnate nel promuovere
l'incontro tra i popoli e nel favorire lo sviluppo
partendo dall'amore e dalla comprensione
reciproca. Tra queste persone ci sono anche fedeli
cristiani, coinvolti nel grande compito di dare
allo sviluppo e alla pace un senso pienamente
umano.
73. Connessa con
lo sviluppo tecnologico è l'accresciuta
pervasività dei mezzi di comunicazione sociale.
È ormai quasi impossibile immaginare l'esistenza
della famiglia umana senza di essi. Nel bene e nel
male, sono così incarnati nella vita del mondo,
che sembra davvero assurda la posizione di coloro
che ne sostengono la neutralità, rivendicandone di
conseguenza l'autonomia rispetto alla morale che
tocca le persone. Spesso simili prospettive, che
enfatizzano la natura strettamente tecnica dei
media, favoriscono di fatto la loro
subordinazione al calcolo economico, al proposito
di dominare i mercati e, non ultimo, al desiderio
di imporre parametri culturali funzionali a
progetti di potere ideologico e politico. Data la
loro fondamentale importanza nella determinazione
di mutamenti nel modo di percepire e di conoscere
la realtà e la stessa persona umana, diventa
necessaria un'attenta riflessione sulla loro
influenza specie nei confronti della dimensione
etico-culturale della globalizzazione e dello
sviluppo solidale dei popoli. Al pari di quanto
richiesto da una corretta gestione della
globalizzazione e dello sviluppo, il senso e la
finalizzazione dei media vanno ricercati nel
fondamento antropologico. Ciò vuol dire che
essi possono divenire occasione di
umanizzazione non solo quando, grazie allo
sviluppo tecnologico, offrono maggiori possibilità
di comunicazione e di informazione, ma soprattutto
quando sono organizzati e orientati alla luce di
un'immagine della persona e del bene comune che ne
rispecchi le valenze universali. I mezzi di
comunicazione sociale non favoriscono la libertà
né globalizzano lo sviluppo e la democrazia per
tutti, semplicemente perché moltiplicano le
possibilità di interconnessione e di circolazione
delle idee. Per raggiungere simili obiettivi
bisogna che essi siano centrati sulla promozione
della dignità delle persone e dei popoli, siano
espressamente animati dalla carità e siano posti
al servizio della verità, del bene e della
fraternità naturale e soprannaturale. Infatti,
nell'umanità la libertà è intrinsecamente
collegata con questi valori superiori. I media
possono costituire un valido aiuto per far
crescere la comunione della famiglia umana e l'ethos
delle società, quando diventano strumenti di
promozione dell'universale partecipazione nella
comune ricerca di ciò che è giusto.
74. Campo
primario e cruciale della lotta culturale tra
l'assolutismo della tecnicità e la responsabilità
morale dell'uomo è oggi quello della bioetica,
in cui si gioca radicalmente la possibilità stessa
di uno sviluppo umano integrale. Si tratta di un
ambito delicatissimo e decisivo, in cui emerge con
drammatica forza la questione fondamentale: se
l'uomo si sia prodotto da se stesso o se egli
dipenda da Dio. Le scoperte scientifiche in questo
campo e le possibilità di intervento tecnico
sembrano talmente avanzate da imporre la scelta
tra le due razionalità: quella della ragione
aperta alla trascendenza o quella della ragione
chiusa nell'immanenza. Si è di fronte a un aut
aut decisivo. La razionalità del fare tecnico
centrato su se stesso si dimostra però
irrazionale, perché comporta un rifiuto deciso del
senso e del valore. Non a caso la chiusura alla
trascendenza si scontra con la difficoltà a
pensare come dal nulla sia scaturito l'essere e
come dal caso sia nata l'intelligenza (153). Di
fronte a questi drammatici problemi, ragione e
fede si aiutano a vicenda. Solo assieme salveranno
l'uomo. Attratta dal puro fare tecnico, la
ragione senza la fede è destinata a perdersi
nell'illusione della propria onnipotenza. La fede
senza la ragione, rischia l'estraniamento dalla
vita concreta delle persone (154).
75. Già
Paolo VI aveva riconosciuto e indicato
l'orizzonte mondiale della questione sociale
(155). Seguendolo su questa strada, oggi occorre
affermare che la questione sociale è diventata
radicalmente questione antropologica, nel
senso che essa implica il modo stesso non solo di
concepire, ma anche di manipolare la vita, sempre
più posta dalle biotecnologie nelle mani
dell'uomo. La fecondazione in vitro, la
ricerca sugli embrioni, la possibilità della
clonazione e dell'ibridazione umana nascono e sono
promosse nell'attuale cultura del disincanto
totale, che crede di aver svelato ogni mistero,
perché si è ormai arrivati alla radice della vita.
Qui l'assolutismo della tecnica trova la sua
massima espressione. In tale tipo di cultura la
coscienza è solo chiamata a prendere atto di una
mera possibilità tecnica. Non si possono tuttavia
minimizzare gli scenari inquietanti per il futuro
dell'uomo e i nuovi potenti strumenti che la «
cultura della morte » ha a disposizione. Alla
diffusa, tragica, piaga dell'aborto si potrebbe
aggiungere in futuro, ma è già surrettiziamente
in nuce, una sistematica pianificazione
eugenetica delle nascite. Sul versante opposto, va
facendosi strada una mens eutanasica,
manifestazione non meno abusiva di dominio sulla
vita, che in certe condizioni viene considerata
non più degna di essere vissuta. Dietro questi
scenari stanno posizioni culturali negatrici della
dignità umana. Queste pratiche, a loro volta, sono
destinate ad alimentare una concezione materiale e
meccanicistica della vita umana. Chi potrà
misurare gli effetti negativi di una simile
mentalità sullo sviluppo? Come ci si potrà stupire
dell'indifferenza per le situazioni umane di
degrado, se l'indifferenza caratterizza perfino il
nostro atteggiamento verso ciò che è umano e ciò
che non lo è? Stupisce la selettività arbitraria
di quanto oggi viene proposto come degno di
rispetto. Pronti a scandalizzarsi per cose
marginali, molti sembrano tollerare ingiustizie
inaudite. Mentre i poveri del mondo bussano ancora
alle porte dell'opulenza, il mondo ricco rischia
di non sentire più quei colpi alla sua porta, per
una coscienza ormai incapace di riconoscere
l'umano. Dio svela l'uomo all'uomo; la ragione e
la fede collaborano nel mostrargli il bene, solo
che lo voglia vedere; la legge naturale, nella
quale risplende la Ragione creatrice, indica la
grandezza dell'uomo, ma anche la sua miseria
quando egli disconosce il richiamo della verità
morale.
76. Uno degli
aspetti del moderno spirito tecnicistico è
riscontrabile nella propensione a considerare i
problemi e i moti legati alla vita interiore
soltanto da un punto di vista psicologico, fino al
riduzionismo neurologico. L'interiorità dell'uomo
viene così svuotata e la consapevolezza della
consistenza ontologica dell'anima umana, con le
profondità che i Santi hanno saputo scandagliare,
progressivamente si perde. Il problema dello
sviluppo è strettamente collegato anche alla
nostra concezione dell'anima dell'uomo, dal
momento che il nostro io viene spesso ridotto alla
psiche e la salute dell'anima è confusa con il
benessere emotivo. Queste riduzioni hanno alla
loro base una profonda incomprensione della vita
spirituale e portano a disconoscere che lo
sviluppo dell'uomo e dei popoli, invece, dipende
anche dalla soluzione di problemi di carattere
spirituale. Lo sviluppo deve comprendere una
crescita spirituale oltre che materiale,
perché la persona umana è un'« unità di anima e
corpo » (156), nata dall'amore creatore di Dio e
destinata a vivere eternamente. L'essere umano si
sviluppa quando cresce nello spirito, quando la
sua anima conosce se stessa e le verità che Dio vi
ha germinalmente impresso, quando dialoga con se
stesso e con il suo Creatore. Lontano da Dio,
l'uomo è inquieto e malato. L'alienazione sociale
e psicologica e le tante nevrosi che
caratterizzano le società opulente rimandano anche
a cause di ordine spirituale. Una società del
benessere, materialmente sviluppata, ma opprimente
per l'anima, non è di per sé orientata
all'autentico sviluppo. Le nuove forme di
schiavitù della droga e la disperazione in cui
cadono tante persone trovano una spiegazione non
solo sociologica e psicologica, ma essenzialmente
spirituale. Il vuoto in cui l'anima si sente
abbandonata, pur in presenza di tante terapie per
il corpo e per la psiche, produce sofferenza.
Non ci sono sviluppo plenario e bene comune
universale senza il bene spirituale e morale delle
persone, considerate nella loro interezza di
anima e corpo.
77. L'assolutismo
della tecnica tende a produrre un'incapacità di
percepire ciò che non si spiega con la semplice
materia. Eppure tutti gli uomini sperimentano i
tanti aspetti immateriali e spirituali della loro
vita. Conoscere non è un atto solo materiale,
perché il conosciuto nasconde sempre qualcosa che
va al di là del dato empirico. Ogni nostra
conoscenza, anche la più semplice, è sempre un
piccolo prodigio, perché non si spiega mai
completamente con gli strumenti materiali che
adoperiamo. In ogni verità c'è più di quanto noi
stessi ci saremmo aspettati, nell'amore che
riceviamo c'è sempre qualcosa che ci sorprende.
Non dovremmo mai cessare di stupirci davanti a
questi prodigi. In ogni conoscenza e in ogni atto
d'amore l'anima dell'uomo sperimenta un « di più »
che assomiglia molto a un dono ricevuto, ad
un'altezza a cui ci sentiamo elevati. Anche lo
sviluppo dell'uomo e dei popoli si colloca a una
simile altezza, se consideriamo la dimensione
spirituale che deve connotare necessariamente
tale sviluppo perché possa essere autentico. Esso
richiede occhi nuovi e un cuore nuovo, in grado di
superare la visione materialistica degli
avvenimenti umani e di intravedere nello
sviluppo un “oltre” che la tecnica non può dare.
Su questa via sarà possibile perseguire quello
sviluppo umano integrale che ha il suo criterio
orientatore nella forza propulsiva della carità
nella verità.
CONCLUSIONE
78. Senza Dio
l'uomo non sa dove andare e non riesce nemmeno a
comprendere chi egli sia. Di fronte agli enormi
problemi dello sviluppo dei popoli che quasi ci
spingono allo sconforto e alla resa, ci viene in
aiuto la parola del Signore Gesù Cristo che ci fa
consapevoli: « Senza di me non potete far nulla »
(Gv 15,5) e c'incoraggia: « Io sono con voi
tutti i giorni, fino alla fine del mondo » (Mt
28,20). Di fronte alla vastità del lavoro da
compiere, siamo sostenuti dalla fede nella
presenza di Dio accanto a coloro che si uniscono
nel suo nome e lavorano per la giustizia.
Paolo VI ci ha ricordato nella
Populorum progressio che l'uomo non è in
grado di gestire da solo il proprio progresso,
perché non può fondare da sé un vero umanesimo.
Solo se pensiamo di essere chiamati in quanto
singoli e in quanto comunità a far parte della
famiglia di Dio come suoi figli, saremo anche
capaci di produrre un nuovo pensiero e di
esprimere nuove energie a servizio di un vero
umanesimo integrale. La maggiore forza a servizio
dello sviluppo è quindi un umanesimo cristiano
(157), che ravvivi la carità e si faccia guidare
dalla verità, accogliendo l'una e l'altra come
dono permanente di Dio. La disponibilità verso Dio
apre alla disponibilità verso i fratelli e verso
una vita intesa come compito solidale e gioioso.
Al contrario, la chiusura ideologica a Dio e
l'ateismo dell'indifferenza, che dimenticano il
Creatore e rischiano di dimenticare anche i valori
umani, si presentano oggi tra i maggiori ostacoli
allo sviluppo. L'umanesimo che esclude Dio è un
umanesimo disumano. Solo un umanesimo aperto
all'Assoluto può guidarci nella promozione e
realizzazione di forme di vita sociale e civile —
nell'ambito delle strutture, delle istituzioni,
della cultura, dell'ethos —
salvaguardandoci dal rischio di cadere prigionieri
delle mode del momento. È la consapevolezza
dell'Amore indistruttibile di Dio che ci sostiene
nel faticoso ed esaltante impegno per la
giustizia, per lo sviluppo dei popoli, tra
successi ed insuccessi, nell'incessante
perseguimento di retti ordinamenti per le cose
umane. L'amore di Dio ci chiama ad uscire da
ciò che è limitato e non definitivo, ci dà il
coraggio di operare e di proseguire nella ricerca
del bene di tutti, anche se non si realizza
immediatamente, anche se quello che riusciamo ad
attuare, noi e le autorità politiche e gli
operatori economici, è sempre meno di ciò a cui
aneliamo (158). Dio ci dà la forza di lottare e di
soffrire per amore del bene comune, perché Egli è
il nostro Tutto, la nostra speranza più grande.
79. Lo
sviluppo ha bisogno di cristiani con le braccia
alzate verso Dio nel gesto della preghiera,
cristiani mossi dalla consapevolezza che l'amore
pieno di verità, caritas in veritate, da
cui procede l'autentico sviluppo, non è da noi
prodotto ma ci viene donato. Perciò anche nei
momenti più difficili e complessi, oltre a reagire
con consapevolezza, dobbiamo soprattutto riferirci
al suo amore. Lo sviluppo implica attenzione alla
vita spirituale, seria considerazione delle
esperienze di fiducia in Dio, di fraternità
spirituale in Cristo, di affidamento alla
Provvidenza e alla Misericordia divine, di amore e
di perdono, di rinuncia a se stessi, di
accoglienza del prossimo, di giustizia e di pace.
Tutto ciò è indispensabile per trasformare i «
cuori di pietra » in « cuori di carne » (Ez
36,26), così da rendere « divina » e perciò più
degna dell'uomo la vita sulla terra. Tutto questo
è dell'uomo, perché l'uomo è soggetto della
propria esistenza; ed insieme è di Dio,
perché Dio è al principio e alla fine di tutto ciò
che vale e redime: « Il mondo, la vita, la morte,
il presente, il futuro: tutto è vostro! Ma voi
siete di Cristo e Cristo è di Dio » (1 Cor
3,22-23). L'anelito del cristiano è che tutta la
famiglia umana possa invocare Dio come « Padre
nostro! ». Insieme al Figlio unigenito, possano
tutti gli uomini imparare a pregare il Padre e a
chiedere a Lui, con le parole che Gesù stesso ci
ha insegnato, di saperLo santificare vivendo
secondo la sua volontà, e poi di avere il pane
quotidiano necessario, la comprensione e la
generosità verso i debitori, di non essere messi
troppo alla prova e di essere liberati dal male (cfr
Mt 6,9-13).
Al termine dell'Anno
Paolino mi piace esprimere questo auspicio con
le parole stesse dell'Apostolo nella sua
Lettera ai Romani: “La carità non sia
ipocrita: detestate il male, attaccatevi al bene;
amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno,
gareggiate nello stimarvi a vicenda”
(12,9-10). Che
la Vergine Maria, proclamata da Paolo VI Mater
Ecclesiae e onorata dal popolo
cristiano come Speculum iustitiae e
Regina pacis, ci protegga e ci ottenga, con la
sua celeste intercessione, la forza, la speranza e
la gioia necessarie per continuare a dedicarci con
generosità all'impegno di realizzare lo «
sviluppo di tutto l'uomo e di tutti gli uomini
» (159).
Dato a Roma, presso San Pietro, il 29 giugno,
solennità dei SS. Apostoli Pietro e Paolo,
dell'anno 2009, quinto del mio Pontificato.
BENEDICTUS PP.
XVI
1 Paolo VI, Lett. enc.
Populorum progressio (26 marzo 1967), 22:
AAS 59 (1967), 268; cfr Conc. Ecum. Vat. II,
Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo
Gaudium et spes, 69.
2 Discorso per la
giornata dello sviluppo (23 agosto 1968):
AAS 60 (1968), 626-627.
3 Cfr Giovanni Paolo II,
Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2002:
AAS 94 (2002), 132-140.
4 Cfr Conc. Ecum. Vat. II,
Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo
Gaudium et spes, 26.
5 Cfr Giovanni XXIII, Lett.
enc.
Pacem in terris (11 aprile 1963): AAS
55 (1963), 268-270.
6 Cfr n. 16: l.c.,
265.
7 Cfr ibid., 82:
l.c., 297.
8 Ibid., 42: l.c.,
278.
9 Ibid., 20: l.c.,
267.
10 Cfr Conc. Ecum. Vat. II,
Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo
Gaudium et spes, 36; Paolo VI, Lett. ap.
Octogesima adveniens (14 maggio 1971), 4:
AAS 63 (1971), 403-404; Giovanni Paolo II,
Lett. enc.
Centesimus annus
(1º maggio 1991), 43: AAS 83 (1991),
847.
11 Paolo VI, Lett. enc.
Populorum progressio,13: l.c.,
263-264.
12 Cfr Pontificio Consiglio
della Giustizia e della Pace,
Compendio della Dottrina sociale della Chiesa,
n. 76.
13 Cfr Benedetto XVI,
Discorso alla sessione inaugurale dei lavori della
V Conferenza generale dell'Episcopato
Latinoamericano e dei Caraibi (13 maggio
2007): Insegnamenti III, 1 (2007), 854-870.
14 Cfr nn. 3-5: l.c.,
258-260.
15 Cfr Giovanni Paolo II,
Lett. enc.
Sollicitudo rei socialis
(30 dicembre 1987), 6-7: AAS 80 (1988),
517-519.
16 Cfr Paolo VI, Lett. enc.
Populorum progressio, 14: l.c.,
264.
17 Benedetto XVI, Lett. enc.
Deus caritas est (25 dicembre 2005), 18:
AAS 98 (2006), 232.
18 Ibid., 6: l.c.,
222.
19 Cfr Benedetto XVI,
Discorso alla Curia Romana per la presentazione
degli auguri natalizi (22 dicembre 2005):
Insegnamenti I (2005), 1023-1032.
20 Cfr Giovanni Paolo II,
Lett. enc.
Sollicitudo rei socialis,
3: l.c., 515.
21 Cfr ibid.,1:
l.c., 513-514.
22 Cfr ibid., 3:
l.c., 515.
23 Cfr Giovanni Paolo II,
Lett. enc.
Laborem exercens
(14 settembre 1981), 3: AAS 73 (1981),
583-584.
24 Cfr Id., Lett. enc.
Centesimus annus,
3: l.c., 794-796.
25 Cfr Lett. enc.
Populorum progressio, 3: l.c., 258.
26 Cfr ibid., 34:
l.c., 274.
27 Cfr nn. 8-9: AAS
60 (1968), 485-487; Benedetto XVI,
Discorso ai Partecipanti al Convegno
Internazionale organizzato nel 40º anniversario
dell'« Humanae vitae »
(10 maggio 2008): Insegnamenti IV, 1
(2008), 753-756.
28 Cfr Lett. enc.
Evangelium vitae
(25 marzo 1995), 93: AAS 87 (1995),
507-508.
29 Ibid., 101: l.c.,
516-518.
30 N. 29: AAS 68
(1976), 25.
31 Ibid., 31: l.c.,
26.
32 Cfr Giovanni Paolo II,
Lett. enc.
Sollicitudo rei socialis,
41: l.c., 570-572.
33 Cfr ibid.; Id.
Lett. enc.
Centesimus annus, 5.54:
l.c. 799. 859-860.
34 N. 15: l.c., 265.
35 Cfr ibid., 2:
l.c., 258; Leone XIII, Lett. enc.
Rerum novarum (15 maggio 1891): Leonis
XIII P.M. Acta, XI, Romae 1892, 97-144;
Giovanni Paolo II, Lett. enc.
Sollicitudo rei socialis,
8: l.c., 519-520 ; Id., Lett. enc.
Centesimus annus, 5: l.c., 799.
36 Cfr Lett. enc.
Populorum progressio, 2.13: l.c.,
258. 263-264.
37 Ibid., 42: l.c.,
278.
38 Ibid., 11: l.c.,
262; cfr Giovanni Paolo II, Lett. enc.
Centesimus annus,
25: l.c, 822-824.
39 Lett. enc.
Populorum progressio, 15: l.c.,
265.
40 Ibid., 3: l.c.,
258.
41 Ibid., 6: l.c.,
260.
42 Ibid., 14: l.c.,
264.
43 Ibid.; cfr
Giovanni Paolo II, Lett. enc.
Centesimus annus, 53-62: l.c.,
859-867; Id., Lett. enc.
Redemptor hominis
(4 marzo 1979) 13-14:
AAS 71 (1979), 282-286.
44 Cfr Paolo VI, Lett. enc.
Populorum progressio, 12: l.c.,
262-263.
45 Conc. Ecum. Vat. II,
Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo
Gaudium et spes, 22.
46 Paolo VI, Lett. enc.
Populorum progressio, 13: l.c.,
263-264.
47 Cfr Benedetto XVI,
Discorso ai partecipanti al IV Convegno Ecclesiale
Nazionale della Chiesa che è in Italia
(19 ottobre 2006): Insegnamenti II, 2
(2006), 465-477.
48 Cfr Paolo VI, Lett. enc.
Populorum progressio, 16: l.c.,
265.
49 Ibid.
50 Benedetto XVI,
Discorso ai giovani al molo di Barangaroo:
L'Osservatore Romano, 18 luglio 2008, p. 8.
51 Paolo VI, Lett. enc.
Populorum progressio, 20: l.c.,
267.
52 Ibid., 66: l.c.,
289-290.
53 I bid., 21: l.c.,
267-268.
54 Cfr nn. 3.29.32: l.c.,
258.272.273.
55 Cfr Lett. enc.
Sollicitudo rei socialis, 28: l.c.,
548-550.
56 Paolo VI, Lett. enc.
Populorum progressio, 9: l.c.,
261-262.
57 Cfr Lett. enc.
Sollicitudo rei socialis, 20: l.c.,
536-537.
58 Cfr Lett. enc.
Centesimus annus, 22-29: l.c.,
819-830.
59 Cfr nn. 23.33: l.c.,
268-269. 273-274.
60 Cfr l.c., 135.
61 Conc. Ecum. Vat. II,
Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo
Gaudium et spes, 63.
62 Cfr Giovanni Paolo II,
Lett. enc.
Centesimus annus, 24: l.c.,
821-822.
63 Cfr Id., Lett. enc.
Veritatis splendor (6 agosto 1993), 33.46.51:
AAS 85 (1993), 1160.1169-1171.1174-1175; Id.,
Discorso all'Assemblea Generale delle Nazioni
Unite per la celebrazione del 50º di fondazione
(5 ottobre 1995), 3: Insegnamenti XVIII,
2 (1995), 732-733.
64 Cfr Lett. enc.
Populorum progressio, 47: l.c.,
280-281; Giovanni Paolo II, Lett. enc.
Sollicitudo rei socialis,
42: l.c., 572-574.
65 Cfr Benedetto XVI,
Messaggio in occasione della Giornata Mondiale
dell'Alimentazione 2007: AAS 99
(2007), 933-935.
66 Cfr Giovanni Paolo II,
Lett. enc.
Evangelium vitae,
18.59.63-64:
l.c., 419-421. 467-468. 472-475.
67 Cfr Benedetto XVI,
Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2007,
5: Insegnamenti II, 2 (2006), 778.
68 Cfr Giovanni Paolo II,
Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2002,
4-7.12-15: AAS 94 (2002), 134-136. 138-
140; id.,
Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2004,
8: AAS 96 (2004), 119; id.,
Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2005,
4: AAS 97 (2005), 177-178; Benedetto XVI,
Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2006,
9-10: AAS 98 (2006), 60-61; id.,
Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2007,
5.14: l.c., 778. 782-783.
69 Cfr Giovanni Paolo II,
Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2002,
6: l.c., 135; Benedetto XVI,
Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2006,
9-10: l.c., 60-61.
70 Cfr Benedetto XVI,
Omelia alla Santa Messa nell'« Islinger Feld »
di Regensburg (12 settembre 2006):
Insegnamenti II, 2 (2006), 252-256.
71 Cfr Id., Lett. enc.
Deus caritas est, 1: l.c., 217-218.
72 Giovanni Paolo II, Lett.
enc.
Sollicitudo rei socialis,
28: l.c., 548-550.
73 Paolo VI, Lett. enc.
Populorum progressio, 19: l.c.,
266-267.
74 Ibid., 39: l.c.,
276-277.
75 Ibid., 75: l.c.,
293-294.
76 Cfr Benedetto XVI, Lett.
enc.
Deus caritas est, 28: l.c.,
238-240.
77 Giovanni Paolo II, Lett.
enc.
Centesimus annus,
59: l.c., 864.
78 Cfr Lett. enc.
Populorum progressio, 40.85: l.c.,
277. 298- 299.
79 Ibid., 13: l.c.,
263-264.
80 Cfr Giovanni Paolo II,
Lett. enc.
Fides et ratio (14 settembre 1998), 85:
AAS 91 (1999), 72-73.
81 Cfr Ibid., 83:
l.c., 70-71.
82 Benedetto XVI,
Discorso all'Università di Regensburg
(12 settembre 2006): Insegnamenti II, 2
(2006), 265.
83 Cfr Paolo VI, Lett. enc.
Populorum progressio, 33: l.c.,
273-274.
84 Cfr Giovanni Paolo II,
Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2000,
15: AAS 92 (2000), 366.
85
Catechismo della Chiesa Cattolica,
n. 407; cfr Giovanni Paolo II, Lett. enc.
Centesimus annus, 25: l.c.,
822-824.
86 Cfr n. 17: AAS 99
(2007), 1000.
87 Cfr ibid., 23:
l.c., 1004-1005.
88 Sant'Agostino espone in
modo dettagliato questo insegnamento nel dialogo
sul libero arbitrio (De libero arbitrio II
3,8 sgg.). Egli indica l'esistenza dentro l'anima
umana di un « senso interno ». Questo senso
consiste in un atto che si compie al di fuori
delle normali funzioni della ragione, atto
irriflesso e quasi istintivo, per cui la ragione,
rendendosi conto della sua condizione transeunte e
fallibile, ammette al di sopra di sé l'esistenza
di qualcosa di eterno, assolutamente vero e certo.
Il nome che sant'Agostino dà a questa verità
interiore è talora quello di Dio (Confessioni
X,24,35; XII,25,35; De libero arbitrio II
3,8), più spesso quello di Cristo (De magistro
11,38; Confessioni VII,18,24; XI,2,4).
89 Benedetto XVI, Lett. enc.
Deus caritas est, 3: l.c., 219.
90 Cfr n. 49: l.c.,
281.
91 Giovanni Paolo II, Lett.
enc.
Centesimus annus, 28: l.c.,
827-828.
92 Cfr n. 35: l.c.,
836-838.
93 Cfr Giovanni Paolo II,
Lett. enc.
Sollicitudo rei socialis,
38: l.c., 565-566.
94 N. 44: l.c., 279.
95 Cfr Ibid., 24:
l.c., 269.
96 Cfr Lett. enc.
Centesimus annus,
36: l.c., 838-840.
97 Cfr Paolo VI, Lett. enc.
Populorum progressio, 24: l.c.,
269.
98 Cfr Giovanni Paolo II,
Lett. enc.
Centesimus annus, 32: l.c.,
832-833; Paolo VI, Lett. enc.
Populorum progressio, 25: l.c.,
269-270.
99 Giovanni Paolo II, Lett.
enc.
Laborem exercens,
24: l.c., 637-638.
100 Ibid., 15: l.c.,
616-618.
101 Lett. enc.
Populorum progressio, 27: l.c.,
271.
102 Cfr Congregazione per la
Dottrina della Fede, Istruzione sulla libertà
cristiana e la liberazione Libertatis
conscientia (22 marzo 1987) 74: AAS 79
(1987), 587.
103 Cfr Giovanni Paolo II,
Intervista al quotidiano cattolico « La Croix
», 20 agosto 1997.
104 Giovanni Paolo II,
Discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze
Sociali
(27 aprile 2001): Insegnamenti XXIV,
1 (2001), 800.
105 Paolo VI, Lett. enc.
Populorum progressio, 17: l.c.,
265-266.
106 Cfr Giovanni Paolo II,
Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2003,
5: AAS 95 (2003), 343.
107 Cfr ibid.
108 Cfr Benedetto XVI,
Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2007,
13: l.c., 781-782.
109 Paolo VI, Lett. enc.
Populorum progressio, 65: l.c.,
289.
110 Cfr ibid., 36-37:
l.c., 275-276.
111 Cfr ibid., 37:
l.c., 275-276.
112 Cfr Conc. Ecum.Vat. II,
Decreto sull'apostolato dei laici
Apostolicam actuositatem, 11.
113 Cfr Paolo VI, Lett. enc.
Populorum progressio, 14: l.c.,
264; Giovanni Paolo II Lett. enc.
Centesimus annus, 32: l.c.,
832-833.
114 Paolo VI, Lett. enc.
Populorum progressio, 77: l.c.,
295.
115 Giovanni Paolo II,
Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 1990,
6: AAS 82 (1990), 150.
116 Eraclito di Efeso (Efeso
535 a.C. ca. – 475 a.C. ca.), Frammento 22B124, in
H. Diels-W. Kranz, Die Fragmente der
Vorsokratiker, Weidmann, Berlin 19526 .
117 Cfr Pontificio Consiglio
della Giustizia e della Pace,
Compendio della Dottrina sociale della Chiesa,
nn. 451- 487.
118 Cfr Giovanni Paolo II,
Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 1990,
10: l.c., 152-153.
119 Paolo VI, Lett. enc.
Populorum progressio, 65: l.c.,
289.
120 Benedetto XVI,
Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2008,
7: AAS 100 (2008), 41.
121 Cfr Id.,
Discorso ai partecipanti all'Assemblea Generale
delle Nazioni Unite
(18 aprile 2008): Insegnamenti IV, 1
(2008), 618- 626.
122 Cfr Giovanni Paolo II,
Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 1990,
13: l.c., 154-155.
123 Id., Lett. enc.
Centesimus annus, 36: l.c.,
838-840.
124 Ibid., 38: l.c.,
840-841; cfr Benedetto XVI,
Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2007,
8: l.c., 779.
125 Cfr Giovanni Paolo II,
Lett. enc.
Centesimus annus, 41: l.c.,
843-845.
126 Cfr ibid.
127 Cfr Id., Lett. enc.
Evangelium vitae,
20: l.c., 422-424.
128 Lett. enc.
Populorum progressio, 85: l.c.,
298-299.
129 Cfr Giovanni Paolo II,
Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 1998,
3: AAS 90 (1998), 150; Id.,
Discorso ai Membri della Fondazione «
Centesimus Annus » (9 maggio 1998), 2:
Insegnamenti XXI, 1 (1998), 873-874; Id.,
Discorso alle Autorità Civili e Politiche e al
Corpo Diplomatico durante l'incontro nel « Wiener
Hofburg »
(20 giugno 1998), 8: Insegnamenti XXI,
1 (1998), 1435-1436; Id.,
Messaggio al Rettore Magnifico dell'Università
Cattolica del Sacro Cuore nella ricorrenza annuale
della giornata
(5 maggio 2000), 6: Insegnamenti XXIII,
1 (2000), 759-760.
130 Secondo San Tommaso «
ratio partis contrariatur rationi personae » in
III Sent. d. 5, 3, 2.; anche « Homo non
ordinatur ad communitatem politicam secundum se
totum et secundum omnia sua » in Summa
Theologiae I-II, q. 21, a. 4, ad 3um.
131 Cfr Conc. Ecum.Vat. II,
Cost. dogm. sulla Chiesa
Lumen gentium, 1.
132 Cfr Giovanni Paolo II,
Discorso ai partecipanti alla seduta pubblica
delle Pontificie Accademie di Teologia e di San
Tommaso d'Aquino
(8 novembre 2001), 3: Insegnamenti XXIV,
2 (2001), 676-677.
133 Cfr Congregazione per la
Dottrina della Fede, Dich. circa l'unicità e
l'universalità salvifica di Gesù Cristo e della
Chiesa
Dominus Jesus (6 agosto 2000), 22: AAS
92 (2000), 763-764; Id.,
Nota Dottrinale circa alcune questioni riguardanti
l'impegno e il comportamento dei cattolici nella
vita politica (24 novembre 2002), 8: AAS
96 (2004), 369-370.
134 Benedetto XVI, Lett. enc.
Spe salvi, 31: l.c., 1010; Id.,
Discorso ai partecipanti al IV Convegno
Ecclesiale Nazionale della Chiesa che è in Italia
(19 ottobre 2006): l.c., 465-477.
135 Giovanni Paolo II, Lett.
enc.
Centesimus annus, 5: l.c.,
798-800; cfr Benedetto XVI,
Discorso ai partecipanti al IV Convegno
Ecclesiale Nazionale della Chiesa che è in Italia
(19 ottobre 2006): l.c., 471.
136 N. 12.
137 Cfr Pio XI, Lett. enc.
Quadragesimo anno (15 maggio 1931): AAS
23 (1931), 203; Giovanni Paolo II, Lett. enc.
Centesimus annus,
48: l.c., 852-854;
Catechismo della Chiesa Cattolica,
n. 1883.
138 Cfr Giovanni XXIII,
Lett. enc.
Pacem in terris: l.c., 274.
139 Cfr Paolo VI, Lett. enc.
Populorum progressio, 10.41: l.c.,
262.277-278.
140 Cfr Benedetto XVI,
Discorso ai Membri della Commissione Teologica
Internazionale
(5 ottobre 2007): Insegnamenti III, 2
(2007), 418-421; Id.,
Discorso ai partecipanti al Congresso
internazionale su « Legge Morale Naturale »
promosso dalla Pontificia Università Lateranense
(12 febbraio 2007): Insegnamenti
III, 1 (2007), 209-212.
141 Cfr Benedetto XVI,
Discorso ai Presuli della Conferenza Episcopale
della Thailandia in visita ad limina
(16 maggio 2008): Insegnamenti IV, 1
(2008), 798-801.
142 Cfr Pontificio Consiglio
della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti,
Istruzione
Erga migrantes caritas Christi (3 maggio
2004): AAS 96 (2004), 762-822.
143 Giovanni Paolo II, Lett.
enc.
Laborem exercens,
8: l.c., 594-598.
144
Discorso al termine della Concelebrazione
Eucaristica in occasione del Giubileo dei
Lavoratori
(1º maggio 2000): Insegnamenti XXIII, 1
(2000), 720.
145 Cfr Giovanni Paolo II,
Lett. enc.
Centesimus annus, 36: l.c.,
838-840.
146 Cfr Benedetto XVI,
Discorso ai partecipanti all'Assemblea Generale
delle Nazioni Unite
(18 aprile 2008): l.c., 618-626.
147 Cfr Giovanni XXIII,
Lett. enc.
Pacem in terris: l.c., 293;
Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace,
Compendio della Dottrina sociale della Chiesa,
n. 441.
148 Cfr Conc. Ecum. Vat. II,
Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo
Gaudium et spes, 82.
149 Cfr Giovanni Paolo II,
Lett. enc.
Sollicitudo rei socialis,
43: l.c., 574-575.
150 Paolo VI, Lett. enc.
Populorum progressio, 41: l.c.,
277- 278; Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past.
sulla Chiesa nel mondo contemporaneo
Gaudium et spes, 57.
151 Cfr Giovanni Paolo II,
Lett. enc.
Laborem exercens, 5: l.c.,
586-589.
152 Cfr Paolo VI, Lett. ap.
Octogesima adveniens, 29: l.c.,
420.
153 Cfr Benedetto XVI,
Discorso ai partecipanti al IV Convegno Ecclesiale
Nazionale della Chiesa che è in Italia
(19 ottobre 2006): l.c., 465-477; Id.,
Omelia alla Santa Messa nell'« Islinger Feld »
di Regensburg (12 settembre 2006): l.c.,
252-256.
154 Cfr Congregazione per la
Dottrina della Fede, Istruzione su alcune
questioni di bioetica
Dignitas personae (8 settembre 2008):
AAS 100 (2008), 858-887.
155 Cfr Lett. enc.
Populorum progressio, 3: l.c., 258.
156 Conc. Ecum. Vat. II,
Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo
Gaudium et spes, 14.
157 Cfr n. 42: l.c.,
278.
158 Cfr Benedetto XVI, Lett.
enc.
Spe salvi, 35: l.c., 1013-1014.
159 Paolo VI, Lett. enc.
Populorum progressio, 42: l.c.,
278.
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