La figura di Cristo e la
Sindone
Emanuela Marinelli, Maurizio
Marinelli
Collegamento pro Sindone
Rome - Italy
I
primi tre secoli
Nessun
personaggio storico al pari di
Gesù Cristo ha influenzato in
modo così stimolante gli
artisti; questa circostanza
dipende dalla fede cristiana.
Cristo non è soltanto il
fondatore di una religione.
Egli è al tempo stesso Dio e
Uomo; e Dio significa
inesauribile ricchezza.
L'artista che intende creare
un'immagine di Cristo si trova
di fronte all'esigenza di non
rappresentare una persona del
passato, bensì il Signore
dell'intera storia, sempre
presente anche se invisibile
agli occhi mortali. La Sacra
Scrittura non ci tramanda
alcuna descrizione della
persona fisica del Salvatore e
le proibizioni dell'antica
legge (Esodo 20,4;
Deuteronomio 5,8) impedirono
certo ai primi discepoli di
fissarne la fisionomia in
quadri o statue, benché la
leggenda ne attribuisca alcune
a San Luca o a Nicodemo. Nei
primi tre secoli furono dunque
usati soltanto simboli, come
l'agnello, il pane e il pesce,
il cui nome greco, IXTHUS, è
formato dalle iniziali delle
parole: Gesù Cristo Figlio di
Dio Salvatore. L'immagine del
pesce eucaristico si può
osservare, per esempio, a Roma
nelle Catacombe di San
Callisto (fine del II secolo).
Un'altra maniera era quella di
applicare alla figura di
Cristo rappresentazioni di
persone divine derivate da
altre religioni non cristiane.
Ciò avvenne a seguito della
progressiva conversione dei
pagani al Cristianesimo. Il
Figlio di Dio veniva
raffigurato in quelle forme
che la fantasia artistica
aveva già ideato e sviluppato
per la rappresentazione del
divino. Fra le immagini più
antiche ricordiamo il Cristo
Elio della tomba dei Giulii in
Vaticano (inizio del III
secolo), in cui Gesù è
rappresentato come il sol
invictus, cioè con l'immagine
del dio Sole che ascende allo
zenit su un cocchio trainato
da due cavalli.
Successivamente fu introdotta
la figura umana di un
adolescente, del buon pastore,
del medico taumaturgo e del
maestro e giudice, di solito
su modello classico. Di questo
tipo è il Cristo che risana la
donna emorroissa delle
catacombe dei SS. Pietro e
Marcellino in Roma (fine del
III secolo). La figurazione di
un Cristo imberbe è dovuta
all'intenzione di sottolineare
la natura divina del Signore.
L'eternità viene spesso
espressa nell'antichità con
l'immagine di un giovane o
addirittura con quella di un
bambino. La rappresentazione
di un Cristo giovanile, che
sottolinea la sua natura
divina eterna, prescinde
perciò da ogni intenzione di
fare un ritratto con le
sembianze dell'uomo Gesù di
Nazareth.
La
comparsa del Cristo barbato
Dopo
la vittoria del Cristianesimo
e la pace di Milano (312), da
Costantino fino a Teodosio
(395) è stato sviluppato un
culto di Cristo che ha assunto
sempre più le forme di quello
dell'imperatore, sostituendo
questo culto dell'epoca
pagana. Soprattutto nella
seconda metà del IV secolo si
trova, su diversi sarcofagi,
un Cristo dalla barba non
troppo lunga, dai baffi, dal
volto stretto, alto e
maestoso, e dai capelli
lunghi, che cadono sulle
spalle e talvolta mostrano una
riga centrale che li divide.
Questo modello di Cristo si
ritrova anche nel mosaico
absidale di S. Pudenziana a
Roma, che risale all'inizio
del V secolo. È un'immagine di
Gesù che si ispira ancora alle
raffigurazioni di Giove.
Giove, o Zeus, è la somma
divinità secondo i Romani e i
Greci, ed è il sovrano
dell'universo; e Cristo,
secondo la promessa del Nuovo
Testamento, comparirà nel suo
secondo avvento, appunto come
il sovrano del mondo.
Il
modello orientale
A
partire dal VI secolo si
afferma in oriente un tipo di
"ritratto" di Cristo che
rimarrà invariato fino ad
oggi. Esso presenta alcuni
caratteri asimmetrici, non
regolari, difficilmente
attribuibili alla fantasia
degli artisti. Si notano in
particolare: capelli lunghi ai
lati del volto, bipartiti; un
ciuffo di capelli corti, a più
punte, sulla fronte; arcate
sopracciliari pronunciate, un
segno triangolare alla radice
del naso; occhi grandi e
profondi, spalancati, con
iridi enormi e grandi
occhiaie; naso lungo e
diritto; zigomi molto
pronunciati, talvolta con
macchie; guance concave; bocca
piccola, non nascosta dai
baffi, che sono spesso
spioventi; una zona senza
barba sotto il labbro
inferiore; barba non troppo
lunga, bipartita e talora
tripartita; solo raramente la
barba è lunga ed appuntita,
secondo una raffigurazione
molto antica dei re in Medio
Oriente. Poiché la "scrittura
dell'icona" comporta, secondo
il concetto orientale, la
riproduzione esatta del
soggetto senza dare spazio
alla fantasia dell'artista, si
possono facilmente individuare
le "successioni" di opere
derivate l'una dall'altra, e
quindi risalire attraverso di
esse verso il "modello
originale" da cui sono state
generate. Naturalmente il
moderno concetto di "copia"
non corrisponde assolutamente
alla mentalità di quei tempi,
quindi il "nome" dato al
prototipo passava di diritto
alle copie ed alle copie delle
copie, anche se più o meno
imperfette. Risalendo dunque
lungo queste linee di icone,
qualunque fosse il loro nome,
di Pantocrator o di Mandylion,
di Veronica o di Acheropita
(cioè non fatta da mano
d'uomo), in ogni caso si
individuano sempre meglio
pronunciati quei caratteri
particolari, che sono comuni
al "modello" ispiratore: la
Sindone di Torino, riscoperta
ad Edessa nel 525 durante i
restauri di S. Sofia. In
quell'epoca il telo era
conservato piegato più volte e
si vedeva solo il volto. È
un'immagine su stoffa, che
darà origine alla leggenda del
Mandylion-Acheropita donato al
re Abgar e a quella della
Veronica, parola derivante da
vera eikon, vera immagine.
Contemporaneamente ai santi
volti acheropiti troviamo
un'altra immagine, sempre con
gli stessi caratteri: è quella
del Cristo Pantocrator,
maestoso e benedicente. Una
delle più antiche (VI secolo)
è quella conservata nel
Monastero di S. Caterina, al
Monte Sinai. Purtroppo sono
pochissime le icone
sopravvissute ad un terribile
periodo: quello della furia
iconoclasta.
L'icona, raccordo tra terra e
cielo
Per le
icone la Chiesa ortodossa si è
battuta per due secoli, e per
salvarle ha celebrato ben due
Concili. Nel Concilio di Nicea
(787) venne definitivamente
sconfitta l'eresia iconoclasta
che aveva tentato di bandire
l'uso delle immagini sacre.
Gli oppositori delle icone
argomentavano così: non è mai
possibile dipingere
un'immagine di Cristo, perché
ciò significherebbe voler
circoscrivere e comprendere la
divinità di Cristo. I
propugnatori delle immagini,
invece, controbattevano: se la
Parola è veramente divenuta
carne e ha abitato tra noi (Gv
1,14), allora la Parola è
divenuta "circoscrivibile",
afferrabile; e allora l'eterna
Parola di Dio può essere resa
in un'immagine. Gli ariani
affermavano che la
designazione di Cristo quale
"immagine" di Dio è una prova
che Cristo è inferiore a Dio;
ma questa è la concezione
greco-ellenistica di immagine,
secondo la quale essa
significa qualcosa di
inferiore in rapporto al
modello che essa rappresenta:
è un riflesso, una pallida
imitazione di un inattingibile
modello originario. Atanasio
di Alessandria (295-373)
afferma, invece, il paradosso
di una "perfetta immagine", di
una immagine a cui non manca
nulla della perfezione del
modello originario: Dio ha
un'immagine di se stesso che
gli è in tutto uguale in
dignità ed essenza. Questo è
per Atanasio il senso molto
concreto delle parole di
Cristo: "Io e il Padre siamo
uno" (Gv 10,30); "Chi ha visto
me, ha visto il Padre" (Gv
14,9); "Tutto ciò che è del
Padre è anche mio" (Gv 16,15).
A questo punto l'arte può
osare contemplare la divinità
di Cristo come perfetta
immagine del Padre e l'icona
assume un carattere sacro, in
quanto in essa si onora la
presenza di Colui che vi è
raffigurato. La teologia
ortodossa sottolinea il
carattere sacramentale
dell'icona. In essa c'è una
realtà santa e santificatrice.
"L'icona è un mistero - dice
l'Arcivescovo di Atene
Seraphim - come la Chiesa che
rappresenta". "Per un
ortodosso - dice Anthoula
Delehaye, docente
dell'Università di Atene -
l'icona è la più efficace
catechesi, perché è piena di
senso teologico ed è
strettamente legata al mistero
dell'Incarnazione. In questo
mistero infatti abbiamo
l'immagine dell'invisibile
Iddio (Col 1,15) e lo
splendore riflesso della
gloria del Padre (Ebr 1,13).
Come il Verbo Incarnato, anche
l'icona, sia pure di riflesso,
ha funzione di raccordo tra la
terra e il cielo. É l'immagine
del Cristo incarnato, perché
ogni uomo è fatto a immagine
di Dio e questa realtà
sussiste, anche dopo il
peccato. Ma è soltanto
immagine, ombra e figura. Così
come il Verbo eterno si è
annientato nella carne, essa
non entra in concorrenza con
la vera realtà della gloria di
Dio".
La
imago pietatis e gli
epitaphioi
Dal
944 al 1204 la Sindone è a
Costantinopoli. Al suo arrivo
nella città viene descritta da
Gregorio il Referendario come
un'immagine del volto impressa
da gocce di sudore, ma in cui
si vedono anche le gocce di
sangue sgorgate dal fianco.
Evidentemente la Sindone in
quell'epoca era ripiegata in
modo da mostrare non solo il
volto, ma anche parte del
busto. Si spiega così la
nascita della imago pietatis,
raffigurazione del Cristo
morto che sporge dal sepolcro
in posizione eretta fino alla
vita, con le mani incrociate
davanti. Solo l'osservazione
della Sindone può fornire una
spiegazione; non sarebbe
altrimenti giustificabile la
rappresentazione di un defunto
in posizione eretta. In queste
immagini, diffusesi dal XII
secolo in poi, Cristo ha
sempre il capo reclinato dal
lato destro; se si seguono le
pieghe della Sindone
all'altezza del collo si
ottiene una flessione della
testa proprio da quella parte.
Un'altra figura che si andava
sempre più diffondendo era
dipinta o ricamata su veli
liturgici chiamati epitaphioi,
utilizzati il Venerdì Santo
per rappresentare il lamento
della Vergine, dei discepoli e
delle pie donne. In queste
immagini, di cui esistono
splendidi esemplari dal XIV
secolo in poi, si vede
l'intero corpo di Gesù, rigido
e spesso con le braccia
incrociate davanti, giacente
su un lenzuolo. Chiarissima
l'ispirazione sindonica:
evidentemente ormai era nota
l'intera figura esistente
sulla Sindone.
La
curva bizantina e il Bambino
zoppo
La
conoscenza dell'intera
immagine sindonica, frontale e
dorsale, ha influenzato gli
artisti anche per un altro
particolare. Osservando
l'immagine dorsale della
Sindone, sembra che la gamba
sinistra sia più corta della
destra. Questa apparente
anomalia è dovuta alla
rigidità cadaverica, che ha
fissato il corpo con la gamba
sinistra più incurvata, come
era sulla croce per la
sovrapposizione del piede
sinistro sul destro.
Quest'ultimo appare completo,
mentre dell'altro si vede solo
il tallone. Non riuscendo ad
interpretare correttamente
l'immagine sindonica, gli
artisti credettero che Cristo
fosse zoppo; nacque così la
"curva bizantina" che
permetteva di rappresentare
Gesù sulla croce con il bacino
obliquo e spostato in modo che
le gambe risultassero di
lunghezza diversa. Quando è
raffigurata la sola croce, è
il suppedaneo che è obliquo:
ma a Bisanzio la gamba più
lunga risultava la destra,
interpretando correttamente
l'impronta sindonica, mentre
in Russia si considerava più
lunga la sinistra, non tenendo
conto dell'inversione tra i
due lati dell'immagine. La
tradizione del Cristo zoppo
condiziona anche la
raffigurazione di Gesù
Bambino, perché il Redentore
viene ritenuto zoppo fin dalla
nascita. Molte icone della
Madonna, soprattutto le più
antiche e famose, la
raffigurano con il Santo
Bambino fra le braccia e
spesso i piedini che sporgono
dalle vesti sono rappresentati
in modo diverso: normale
l'uno, contorto e più breve
l'altro. Talvolta il bambino è
ritratto mentre tende a
nascondere un piede dietro
all'altro; più spesso
accavalla le due gambe,
sovrapponendo quella normale
all'altra, che compare al di
sotto, alquanto distorta, con
la pianta del piede rivolta di
piatto, mentre l'altro piede è
presentato di profilo, con un
evidente richiamo sindonico.
Quello distorto, sovente più
corto dell'altro, ricorda
moltissimo la forma e la
posizione del piede sinistro
sulla Sindone, visto di pianta
nell'impronta dorsale. In
altre icone il Bambino è in
piedi, scalzo, e reggendosi
sul piede sinistro, solleva il
destro mostrando la pianta;
oppure con la mano sinistra
tiene la gamba destra, come
per metterla in mostra. In
alcune icone è addirittura la
Madonna che afferra il piede
storpiato, quasi ad ostentare
il difetto fisico del Figlio.
Nel volto triste della Madre
sembra riflettersi la profezia
del vecchio Simeone, mentre il
bambino sembra avere il
presentimento della passione.
I canoni teologici, che
presiedevano a tutta
l'iconografia bizantina, pare
avessero codificato
l'asimmetria degli arti, con
la precisazione liturgica che
"i piedi del Cristo, uno
orizzontale e l'altro
verticale, indicano la sua
duplice natura umana e
divina".
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