Cistercensi
La spiritualità
monastica nella Congregazione di Casamari, nel solco della
tradizione benedettino-cistercense, è vissuta con forte
accentuazione comunitaria, realizzata in una comunione di
ideali, di vita e di beni all'interno della clausura dei
monasteri, sotto la responsabilità dell'abate, sacramento
della paternità stessa di Dio. In un'atmosfera ovattata di
silenzio e di raccoglimento la giornata è articolata, in
modo armonico, in tre momenti complementari e convergenti
così da assicurare ai monaci un reale nutrimento alle
"acque che zampillano per la vita eterna" ed un sano
equilibrio psico-fisico: l'opus Dei, la lectio divina, il
lavoro.
La famiglia benedettina-cistercense ha coscienza e
responsabilità di essere in terra riflesso della liturgia
del cielo, eco della lode della Chiesa celeste, sposa
senza macchia e senza ruga, che canta senza interruzione
(cfr. Ap 19, 1-8) intorno al trono del suo sposo,
l'Agnello Cristo immolato e glorificato (cfr. Ap 5, 12).
Con la professione dei voti solenni di ubbidienza, di
povertà e di castità, il monaco si impegna, in una
risonanza personale, a realizzare in sé la figura biblica
della sposa in seno alla sua comunità che diviene, seppure
ancora pellegrina e penitente, la famiglia di Dio,
esemplificazione e testimonianza dell'avvento del regno di
Dio. Il monaco è colui "che veramente cerca Dio" (san
Benedetto, Regola, LVIII, 1), che entra nel monastero come
alla "scuola del servizio del Signore" (san Benedetto,
Regola, prologo, 45), dove "nell'esercizio delle virtù e
della fede, il cuore si dilata e la via dei divini
precetti viene percorsa nell'indicibile soavità
dell'amore" (san Benedetto, Regola, prologo, 49). Ed in
questo inizio, in tensione di completezza, egli
personalizza le figure delle parabole evangeliche del
servo che aspetta sollecito il ritorno del padrone, delle
vergini prudenti che attendono vigili, nella notte,
l'arrivo dello sposo, e, con spirito proteso verso la
pienezza, egli invoca, come le primitive comunità
cristiane, il ritorno del Signore: "Maran atha,
vieni Signore Gesù" (1 Cor 16,22; Ap 22,20).
La vita di preghiera si snoda attorno alla messa
conventuale, perno e momento vivificante della giornata,
celebrata con una liturgia particolarmente solenne avvolta
dallo spiegarsi coinvolgente, misurato ed essenziale, del
canto gregoriano, con cui la comunità, e insieme ciascun
monaco, rivive e rinnova il patto nuziale con Cristo nella
Chiesa. Altri momenti forti della preghiera comunitaria
sono la celebrazione delle Lodi e dei Vespri, all'aurora e
al tramonto, simbolicamente vissuti come l'inizio e la
fine della vita.
Nella tradizione monastica ha rivestito sempre
un'importanza ed un significato pregnante la prolungata ed
impegnativa ufficiatura notturna, la preghiera delle
Vigilie, (della veglia), considerata come il tempo della
ricerca ansiosa e dell'attesa fiduciosa. La spiritualità
si riveste, in queste ore della notte dell'insonnia
tormentosa della sposa del Cantico dei Cantici: "Sul mio
letto, lungo la notte, ho cercato l'amato del mio cuore;
l'ho cercato, ma non l'ho trovato. Mi alzerò e farò il
giro della città; per le strade e per le piazze; voglio
cercare l'amato del mio cuore" (cfr. Cant 3,1-2) e
dell'amore bruciante di Maria Maddalena che "nel giorno
dopo il sabato si recò al sepolcro di buon mattino,
quand'era ancora buio" (Gv 20,1).
I grandi mistici si sono sbizzarriti nel descrivere e nel
classificare le varie tappe del movimento circolare
dell'Amore che, discendendo da Dio, si impossessa
dell'anima e ritorna a Dio, come arabeschi intorno al
motivo di fondo costituito dalla prima lettera di san
Giovanni apostolo: "Dio è amore; chi sta nell'amore dimora
in Dio e Dio dimora in lui" (1 Gv 4,16). San Bernardo ha
cercato di descrivere la sua esperienza di incontro con il
Verbo: "Frequentemente è entrato nel mio spirito; ma io
non ho mai, nemmeno una volta, percepito il preciso
momento del suo arrivo. Ho sentito che era presente;
ricordo che Egli è stato con me; talvolta ho avuto persino
il presentimento che sarebbe venuto, ma mai ne ho
avvertito l'arrivo o la partenza. Donde venisse, quando
entrava nel mio spirito, o dove andasse, quando lo
lasciava, in che modo entrasse e in che modo uscisse,
confesso che, finora, non lo so" (Sermone LXXIV, 5, sul
Cantico).
La veglia nella preghiera e nell'ascolto delle letture,
durante la notte, alimenta la tensione dell'anima verso la
luce interiore, la stella del mattino (cfr. 2 Pt 1,19), in
attesa dell'incontro con l'Assoluto al di là del tempo
(cfr. Ap 2,28; 22,16). La famiglia monastica chiude la
preghiera comunitaria, alla fine della Compieta, con il
canto della Salve Regina - che san Bernardo, secondo la
tradizione cistercense, ha raccolto dalla bocca stessa
degli angeli - e, con sicurezza filiale, si abbandona tra
le braccia della Madre del cielo durante le ore del grande
silenzio. La ricerca di Dio è sostenuta dal confronto
continuo, personale e vitale, con la parola di Dio, la
lectio divina, l'acqua che zampilla per la vita eterna:
"Non di solo pane vivrà l'uomo, ma di ogni parola che esce
dalla bocca di Dio" (Dt 8,3; Mt 4,4). San Benedetto,
raccogliendo la tradizione monastica antecedente,
prescrive questo nutrimento dello spirito non soltanto
durante i pasti nel refettorio (cfr. san Benedetto,
Regola, c. XXXVIII), ma anche prima del riposo notturno,
inserendolo in qualche modo nella Compieta: una lettura
fatta in pubblico, soprattutto per coloro che non sanno
leggere o che non sanno trovare il tempo e il modo per
nutrire il proprio spirito (cfr. San Benedetto, Regola, c.
XLII). Egli prevede, inoltre, altri momenti della giornata
monastica dedicati alla lettura personale, soprattutto nel
tempo di Quaresima.
Nel capitolo LXXIII della sua Regola, poi, san Benedetto
ci ha lasciato una panoramica di letture che comprendono
il vecchio e il nuovo Testamento, gli scritti, le
Collezioni, le Istituzioni e le vite dei Padri e la Regola
di san Basilio, una gamma molto vasta di opere spirituali
che, poi, sono confluite nei volumi della Patrologia greca
e latina. I monaci benedettini, nelle loro "officine dello
spirito", hanno contribuito molto a conservare questi
testi antichi e, con il lavoro di trascrizione, hanno reso
alla civiltà cristiana un grande servizio, trasmettendo
soprattutto, con il cuore la Parola di Dio. Nello
scrittoio il monaco benedettino, infatti, si accingeva
alla trascrizione dei testi sacri con la stessa devozione
con cui un monaco russo si accinge a dipingere una sacra
icona. La lectio divina comporta non una lettura
informativa, leggera e superficiale, ma un'assimilazione
progressiva attraverso la meditazione, la ruminazione per
giungere alla compunzione, alla sapienza del cuore. Si è
instaurata, così, nei monasteri una teologia sapienziale
che ha, prima, contrastato la nascita e, poi, ha fatto da
contrappeso all'arida dialettica scolastica. Proprio
l'aspra polemica tra san Bernardo e Abelardo ha
emblematicamente rappresentato, nella prima metà del XII
secolo, la sofferenza di uno slittamento, nella ricerca di
Dio, dal cuore alla ragione, dalla recettività umile del
mistero alla rivendicazione dell'autonomia della ricerca
umana che, a lunga scadenza, ha progressivamente
impoverito e inaridito l'uomo, dopo essersi tagliato ogni
possibilità di relazione con il mistero arcano del
trascendente. Risuonano ancora severe e ammonitrici le
parole di Gioacchino da Fiore ai confratelli: "Coloro che
non si nutrono della Parola di Dio non hanno nulla di
monastico all'infuori dell'abito cistercense e sono
destinati ad inaridirsi come rami secchi senza produrre
frutto; essi non possono sopportare l'ideale monastico e,
di conseguenza, con il corpo o con il cuore ritornano nel
mondo" (Concordia Novi et heteris Testamento).
Nel capitolo XLIII della Regola san Benedetto,
raccogliendo gli insegnamenti di san Paolo e gli esempi
della tradizione monastica anteriore, fissa ad orari ben
definiti, in una continuata interazione tra lectio divina
e lavoro, il tempo della giornata in cui i monaci non sono
impegnati nella preghiera corale comunitaria: "L'ozio è
nemico dell'anima; e quindi i fratelli devono in alcune
determinate ore occuparsi del lavoro manuale, e in altre
ore, anch'esse ben fissate, nello studio delle cose
divine" (san Benedetto, Regola, c. XLIII, 1). Ne risulta,
nel ritmo della vita monastica, un avviluppamento ed una
compenetrazione, un fluire e refluire, tra Opus Dei,
lectio divina e labor manuum, i tre momenti della
giornata, ben armonizzati tra loro e finalizzati, tutti,
alla ricerca di Dio.
Con accenti di paterna sollecitudine e comprensione il
santo patriarca richiama la nobiltà e la santità del
lavoro manuale, in una cultura in cui esso viene
disprezzato come opera riservata agli schiavi: "Se, poi,
le condizioni del luogo o la povertà richiedono che gli
stessi monaci si occupino nel raccogliere i frutti della
terra, non ne siano malcontenti, perché allora sono veri
monaci quando vivono col lavoro delle loro mani, come i
nostri padri e gli Apostoli; tutto, però, si faccia con
discrezione, tenendo conto dei più deboli" (san Benedetto,
Regola, c. XLVIII, 7-9). Lo spirito di servizio, nel
disimpegno degli incarichi comunitari, viene considerato
come una fluidificazione palpabile della carità da cui
emana il buon odore di Cristo.
La carità si riversa con fede misericordiosa - ante omnia
et super omnia - sui fratelli infermi, l'immagine del
Cristo sofferente (san Benedetto, Regola, c. XXXVI), con
comprensione e indulgenza sugli anziani e sui fanciulli
considerati le membra deboli del corpo monastico (san
Benedetto, Regola, c. XXXVII), con spirito di devozione e
dedizione, come alla persona di Cristo, sugli ospiti e sui
pellegrini (san Benedetto, Regola, c. LIII), sui poveri
che bussano alla porta del monastero: "I poveri e i
pellegrini sono accolti con particolari cure e attenzioni,
perché specialmente in loro si riceve Cristo; mentre ai
ricchi si è portati a rendere onore per la stessa
soggezione che incutono" (san Benedetto, Regola, c. LIII,
15).
La carità vera si nutre con il lavoro personale; i beni
del monastero sono i beni di Cristo, riservati ai poveri.
Oltre il disimpegno degli uffici comunitari e il lavoro,
in casi straordinari, nei campi, san Benedetto prevede
anche il lavoro creativo degli artifices (gli artigiani e
gli artisti), nelle officine del monastero. Con grande
intuizione egli instaura nella casa di Dio anche il culto
del "bello" oltre che del "buono", facendo del monastero
un cenacolo di pietà cristiana ed un centro di promozione
umana.
Il lavoro, svolto in nome e sotto il controllo
dell'obbedienza, coordinato ed organizzato in vista del
benessere comune, non è solamente un esercizio di ascesi
penitenziale e una necessità imposta dalla legge della
sussistenza, ma anche un momento di creatività e un mezzo
di progresso. Il lavoro monastico ubbidisce, tuttavia, non
alle regole dell'affermazione personale e del massimo
profitto, ma al disegno di elevazione spirituale del
monaco e all'esigenza di testimonianza di carità
cristiana; con pochi e incisivi periodi, san Benedetto
scolpisce i suoi propri profondi convincimenti, fissando
le regole morali che tengono lontano dai monasteri ogni
sospetto di frode e la sete di cupidigia. Il clima di
un'abbazia benedettina è regolato da alcuni principi
fondamentali, che formano le coordinate spirituali perché
essa sia la casa di Dio: 1. "... In tutto sia glorificato
Dio" (l Pt. 4,11; san Benedetto, Regola, c. LVII, 9), 2.
"... Nella casa di Dio nessuno si turbi e si rattristi"
(san Benedetto, Regola, c. XXXI, 19), 3. "... Tutte le
membra saranno in pace" (san Benedetto, Regola, c. XXXIV,
5), 4. ... La casa di Dio sia amministrata da saggi e
saggiamente" (san Benedetto, Regola, c. LIII, 22).
Il pullulare di abbazie e dipendenze benedettine per un
millennio e mezzo, sotto denominazioni diverse ma
derivanti tutte dal medesimo ceppo, ha permeato talmente
l'Europa cristiana che è difficile distinguere e separare,
nella nostra spiritualità storia e cultura, l'esperienza
cristiana dall'influsso benedettino. Forse bisognerebbe
completare l'affermazione del "laico" Croce: "Perché non
possiamo non considerarci cristiani" con l'altra: "Perché
non possiamo non considerarci benedettini".
Le abbazie, cui ha fatto sempre capo la profonda e
capillare penetrazione di presenza nelle campagne
abbandonate, sono state capisaldi della storia, centri di
promozione umana, di ordine sociale, di irradiamento
culturale, di manifestazione artistica, di iniziativa
politica. Tenendo alta la fiaccola della fede sull'onda
del tempo e sul cozzare degli egoismi umani, queste
"cittadelle dello spirito", ubicate sulla cresta dei monti
o sul fondo delle valli, sono state modello di
partecipazione fraterna per l'umanità sofferente e
testimonianza di cristianesimo realizzato.
La proclamazione di san Benedetto a Patrono d'Europa è il
dovuto riconoscimento all'azione ultramillenaria dei figli
che non hanno soffocato l'ideale del Padre e un auspicio
di recupero cristiano e monastico delle radici della
cultura europea. I monasteri benedettini sono sempre
vissuti in sintonia ed in osmosi con la Chiesa, anche
perché il vescovo diocesano viene chiamato direttamente in
causa, almeno in alcune circostanze particolari, da san
Benedetto stesso.
Essi sono divenuti, tuttavia, gli elementi portanti e
determinanti nel cuore della Chiesa con la riforma
gregoriana, nei due secoli a cavallo del primo millennio
cristiano. In una Chiesa dilaniata da divisioni e scismi a
causa della politica del potere laicale, con l'episcopato
asservito e condizionato dalla politica imperiale, con il
papato soggetto ai colpi di mano delle più potenti
famiglie romane, l'abbazia di Cluny e gli altri monasteri
ad essa giuridicamente e idealmente collegati hanno
rivendicato pugnacemente ed efficacemente, in una contesa
lunga e spinosa, libertà di azione, autorità morale e
giuridica, rinnovamento spirituale. L'esponente più
rappresentativo dal movimento cluniacense è considerato
Ugo, abate di Cluny del 1049 al 1109, padrino
dell'imperatore Enrico IV, amico e confidente di Gregorio
VII, maestro di Urbano II; egli garantì all'Ordine un
grande respiro anche fuori d'Europa ed un grande risveglio
religioso ed artistico. Cluny rappresentò e conseguì il
successo di libertà religiosa senza, tuttavia, scalfire la
struttura feudale: con la sola esenzione entrò in possesso
di monasteri e chiese con tutti i diritti, jus et
possessio, conseguendo prestigio e benessere economico. Da
questo stato di cose derivò, in genere, un certo disprezzo
per il lavoro manuale, qualche mitigazione della Regola di
san Benedetto in alcuni punti più duri, un notevole sfarzo
nella suppellettile liturgica e nella decorazione delle
chiese, l'ingerenza, o almeno il coinvolgimento, qualche
volta, in questioni politiche.
Accanto all'espansione dell'Ordine benedettino, e forse
proprio come reazione all'influsso sociale e politico
della riforma cluniacense, si accentuò nel secolo XI
l'aspirazione al monachesimo delle origini del
cristianesimo, inteso come fuga dal mondo, vita di
povertà, desiderio di estremo ascetismo, di
mortificazione, di tensione vibrante verso Dio: san Nilo,
san Romualdo, Stefano di Muret, san Bruno, Roberto di
Arbrissel, san Norberto, i Canonici Regolari suscitarono e
lasciarono, con le loro istituzioni, un richiamo alla vita
eremitica e un forte anelito di ascesi. Su tutte ben
presto, però, si affermò, per importanza e diffusione,
l'Ordine di Cîteaux. La saggezza di san Benedetto si
dimostrò molto più durevole dello zelo di uomini dalla
forte spiritualità. La maggior parte delle fondazioni
eremitiche o semi-eremitiche si disintegrò, fu assorbita
da riforme successive o perse importanza, mentre i
Cistercensi segnarono la storia dei secoli seguenti.
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