(di Mauro Faverzani)
Ottime notizie: l’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, che conta su 47 Stati aderenti – 20 in più dell’Unione Europea -, nella seduta dello scorso 25 gennaio ha stabilito che debba «esser sempre proibita» l’eutanasia, «intesa come uccisione volontaria per atto o omissione di un essere umano in condizioni di dipendenza a suo presunto beneficio». Definizione che include anche il cosiddetto «suicidio assistito», espressamente escluso, assieme alle pratiche eutanasiche, dal novero dei «diritti dei pazienti», citati nella risoluzione 1859, quella votata, per l’appunto, in aula da popolari, conservatori ed anche da qualche socialista.
Anzi, il Consiglio d’Europa sollecita gli Stati membri a fare di più e di meglio, in questo campo, in termini di informazione e di legislazione, laddove ancora carente. Specificando anche come, «in caso di dubbio», ogni decisione debba «sempre tendere a preservare la vita dell’interessato». Vita, evidentemente qui intesa qual è ovvero principio non negoziabile, indipendente da qualsiasi giudizio arbitrario e slegata dai falsi idoli libertari, promossi dal relativismo rampante.
Anche mons. Aldo Giordano, osservatore permanente della Santa Sede presso il Consiglio d’Europa, ha auspicato che «questo testo sia tenuto in conto per le decisioni a livello europeo e nazionale».
Una «buona battaglia» l’ha definita uno dei suoi maggiori promotori, il capogruppo del Ppe, Luca Volonté, anche perché è la terza consecutiva: nel 2010 venne rafforzata la libertà di coscienza di medici e operatori sanitari; nel 2011, con una sentenza, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha negato che esista alcun fondamento giuridico nella Convenzione circa un preteso “diritto” all’eutanasia. Ora il divieto esplicito di tale pratica.
Divieto, che rimette in discussione non solo le leggi approvate in tal senso in Paesi come Belgio e Olanda, ora automaticamente fuori dalla norma sancita dal Consiglio d’Europa; bensì anche alcune discusse sentenze relative alle (poche, per ora, ma tragicamente significative e “vessillari”) forzature registrate in alcuni Stati dell’Unione e sventolate dai radicaleggianti di ogni latitudine.
Benché il documento non abbia valore vincolante, infatti, funge da chiaro indirizzo per i pronunciamenti della Corte di Strasburgo e, di rimando, influisce sulle legislazioni nazionali. Secondo Grégor Puppink, direttore dell’Ecli-European Center for Law and Justice, la risoluzione approvata «avrà un impatto positivo in favore della vita».
V’è da sperarlo, poiché i suoi detrattori non abbassano certo la guardia: lo scorso 5 gennaio il giornale inglese “The Guardian” ha pubblicato un articolo relativo al rapporto di una Commission on Assisted Dying - ovvero “Commissione sulla morte assistita” -, coordinata da lord Falconer ed incaricata dal gruppo Dignity in Dying (Dignità nella morte) di introdurre in Gran Bretagna proprio quel suicidio assistito, ora espressamente vietato dal Consiglio d’Europa, per i malati affetti da patologie inguaribili e rapidamente progressive.
Ad alcune condizioni: che sia stato loro prognosticato «un tempo di vita inferiore ad un anno» (prognosi la cui attendibilità è poco superiore a quella degli oroscopi, come tutta l’antologia medica può facilmente comprovare); inoltre, che la decisione sia stata “volontaria”, senza pressioni o per il fatto di sentirsi di “peso”: criterio privo di parametri scientifici o clinici di riferimento, bensì affidato pericolosamente allo stato d’animo -generalmente depresso o provato- del paziente terminale.
Proprio sul “Guardian” il dottor Peter Saunders dell’associazione Care Not Killing (Curare non uccidere) ha evidenziato come tale approccio inevitabilmente faccia sentire tali malati un costo sociale e li induca a “farsi da parte”. Concedendo loro, ipocritamente, solo di non soffrire. (Mauro Faverzani)