Attacco a Ratzinger. Accuse, scandali,
profezie e complotti contro Benedetto XVI (Piemme,
Milano 2010) dei vaticanisti Paolo Rodari e Andrea
Tornielli non è né una storia né un'analisi sociologica
del pontificato di Benedetto XVI. Si tratta invece di
eccellente giornalismo, e di una cronaca attenta ai
particolari e ai retroscena degli attacchi contro
Benedetto XVI, che dal 2006 a oggi ne hanno fatto il
Pontefice più sistematicamente aggredito da un'incessante
campagna mediatica degli ultimi anni.Rodari e Tornielli
elencano dieci episodi principali, e a proposito di ognuno
forniscono dettagli in parte inediti. La prima offensiva
contro il Papa inizia con il discorso di Ratisbona del 12
settembre 2006, il quale contiene una citazione
dell'imperatore bizantino Manuele II Paleologo (1350-1425)
giudicata da alcuni offensiva nei confronti dell'islam e
dei musulmani. Ne nasce una grande campagna contro
Benedetto XVI, alimentata sia da organi di stampa
occidentali sia dal fondamentalismo islamico, che degenera
in episodi violenti. A Mogadiscio, in Somalia, è perfino
uccisa una suora.
Già in questo primo episodio l'analisi degli autori
mostra all'opera tutti gli ingredienti delle crisi
successive. Un buon numero di media, anzitutto
occidentali, estrapolano la citazione dal contesto e
sbattono la notizia della presunta offesa ai musulmani in
prima pagina. Al coro di questi media - secondo elemento,
che non va mai trascurato - si uniscono esponenti
cattolici ostili al Papa, in questo caso personaggi come
l'islamologo gesuita Thomas Michel, rappresentante a suo
modo tipico di un establishment del dialogo
interreligioso smantellato da Benedetto XVI per il suo
buonismo filo-islamico tendente al relativismo.
Intervistati dalla stampa internazionale questo cattolici
lanciano un "attacco frontale a Benedetto XVI" (p. 26),
essenziale per rendere credibili le polemiche della stampa
laicista. Ma in terzo luogo Rodari e Tornielli non mancano
di rilevare una certa debolezza nel sistema di
comunicazione vaticano, molto lento rispetto alla velocità
delle polemiche nell'era di Internet e non sempre capace
di prevedere in anticipo le conseguenze delle parole più
"forti" del Papa, prendendo per tempo le necessarie
contromisure.
Tornando però dal discorso di Ratisbona come evento
mediatico al discorso di Ratisbona come documento, gli
autori riportano l'opinione dello specialista gesuita
padre Khalil Samir Khalil secondo cui non si è trattato
affatto di una gaffe del Papa bisognosa di
correzione, ma di un passaggio integrale e ineludibile in
un'analisi sui problemi dell'islam contemporaneo e sulla
sua difficoltà a impostare correttamente il rapporto fra
fede e ragione. Paradossalmente, rilevano gli autori,
queste motivazioni profonde del passaggio sull'islam nel
testo di Ratisbona sono state comprese da molti
intellettuali musulmani, ma rimangono ostiche o ignorate
per la grande stampa dell'Occidente.
Emerge dunque uno schema in tre stadi - errori di
comunicazione della Santa Sede, aggressione della stampa
laicista, ruolo essenziale di cattolici ostili a Benedetto
XVI nel supportare quest'aggressione - che si ritrova in
tutti gli altri episodi, con poche varianti. Il ruolo del
dissenso progressista appare particolarmente cruciale
nelle campagne successive al motu proprio del 2007
Summorum Pontificum, che liberalizza la Messa con il
rito detto di san Pio V, e alla remissione della scomunica
nel 2009 ai quattro vescovi a suo tempo consacrati da
mons. Marcel Lefebvre (1905-1991). Nel primo caso Rodari e
Tornielli descrivono un quadro sconfortante di resistenza
di liturgisti, riviste cattoliche, intellettuali con un
accesso diretto ai grandi media come Enzo Bianchi ma anche
vescovi e intere conferenze episcopali che si agitano, si
riuniscono, arruolano la stampa laicista e tramano in
mille modi per sabotare il motu proprio. La posta in
gioco, notano giustamente gli autori che si riferiscono in
particolare a uno studio di don Pietro Cantoni pubblicato
sulla rivista di Alleanza Cattolica Cristianità,
non è solo la liturgia ma l'interpretazione del Concilio
Ecumenico Vaticano II. Chi combatte il motu proprio
difende l'egemonia di quell'interpretazione del Vaticano
II in termini di discontinuità e di rottura con tutta la
Tradizione precedente che Benedetto XVI ha tentato in
molti modi di correggere e scalzare.
Il caso della remissione della scomunica ai vescovi "lefebvriani"
si è trasformato come è noto nel "caso Williamson". Il
Papa è stato oggetto di durissimi attacchi quando è emerso
che uno dei quattro vescovi consacrati da mons. Lefebvre,
mons. Richard Williamson, è un sostenitore di tesi in tema
di Olocausto che negano l'esistenza delle camere a gas e
riducono il numero di ebrei uccisi dal nazional-socialismo
a non più di trecentomila. Al di là del merito della
questione, è evidente che la Santa Sede non condivide
queste tesi - lo stesso Benedetto XVI le ha ripetutamente
condannate - e che qualunque persona dotata di buon senso
sarebbe stata in grado di rendersi conto che un
provvedimento in qualche modo favorevole a un sostenitore
della posizione "revisionista" sull'Olocausto non avrebbe
mancato di scatenare una tempesta mediatica. Il problema,
dunque, è quando la Santa Sede è venuta a conoscenza delle
tesi di mons. Williamson in tema di Olocausto.
Rodari e Tornielli ricostruiscono la vicenda in modo
minuzioso, e concludono che un appunto sul tema era stato
indirizzato da vescovi svedesi tramite la nunziatura
apostolica in Svezia - il Paese dove nel novembre 2008
mons. Williamson aveva rilasciato a un'emittente
televisiva non l'unica ma la più recente e articolata sua
intervista sull'argomento - alla Segreteria di Stato, dove
era stato sottovalutato nella sua potenziale portata e
gestito da funzionari minori responsabili dei rapporti con
la Scandinavia. Quando dalla televisione svedese la
notizia passa sul settimanale tedesco Spiegel e di
lì ai media di tutto il mondo, il 21 gennaio 2009, il
decreto di remissione della scomunica non è ancora stato
pubblicato, è vero, ma è già stato trasmesso il 17 gennaio
ai vescovi "lefebvriani" interessati. Non è dunque più
possibile ritirarlo o modificarlo. Secondo gli autori ha
tuttavia costituito un errore di comunicazione da parte
della Santa Sede non accompagnare immediatamente la
pubblicazione, avvenuta il 24 gennaio 2009, con una chiara
precisazione sul fatto che la remissione delle scomuniche
non ha nulla a che fare con le tesi di Williamson
sull'Olocausto, che il Papa in nessun modo condivide.
Questa precisazione è venuta solo diversi giorni dopo,
dando l'impressione che la Santa Sede si trovasse in
imbarazzo e sulla difensiva. Inoltre, come il Papa stesso
ha rilevato nella sua lettera dell'11 marzo 2009 sul tema,
già prima dell'intervista rilasciata in Svezia le
posizioni di mons. Williamson comparivano su diversi siti
Internet e "seguire con attenzione le notizie
raggiungibili mediante l'Internet avrebbe dato la
possibilità di venir tempestivamente a conoscenza del
problema. Ne traggo la lezione che in futuro nella Santa
Sede dovremo prestar più attenzione a quella fonte di
notizie".
Dalla lettera di Benedetto XVI, notano gli autori,
emergono altri due elementi. Il primo è la grandezza
d'animo di un Papa che si assume personalmente la
responsabilità di ogni errore eventualmente commesso,
rompendo con una lunga prassi secondo cui in questi casi
ogni colpa è attribuita ai collaboratori. Il secondo è
che, pur essendo evidente che al momento della firma del
decreto Benedetto XVI non conosceva le posizioni di mons.
Williamson sull'Olocausto, anche in questo caso la
campagna della stampa laicista ha avuto successo a causa
dell'immediato attacco al Papa da parte di noti esponenti
cattolici che hanno inteso così "vendicarsi" del motu
proprio. Scrive lo stesso Pontefice: "Sono rimasto
rattristato dal fatto che anche cattolici, che in fondo
avrebbero potuto sapere meglio come stanno le cose,
abbiano pensato di dovermi colpire con un'ostilità pronta
all'attacco".
I tempi del caso Williamson non sono casuali. Gli
autori ricordano come sia stata ipotizzata nella
diffusione mondiale delle notizie sul vescovo
"revisionista" proprio in concomitanza con la remissione
della scomunica la regia di una coppia di giornaliste
lesbiche francesi note per le loro campagne anticlericali
e per la "vicinanza al Grande Oriente di Francia" (p. 99),
cioè alla direzione della massoneria francese, Fiammetta
Venner e Caroline Fourest. Secondo Rodari e Tornielli
l'intervista svedese con mons. Williamson "non è
concordata in precedenza. Il giornalista si presenta al
seminario e riesce a ottenere il colloquio con Williamson"
(p. 88). Sembra dunque che mons. Williamson non abbia
"organizzato" l'episodio. Tuttavia alla data
dell'intervista la notizia secondo cui il Papa stava per
firmare il decreto di remissione delle scomuniche
circolava già su Internet. Gli autori si chiedono chi
abbia armato il microfono dell'oscuro giornalista svedese
Ali Fegan. Personalmente mi pongo qualche interrogativo
anche su mons. Williamson, il quale sapeva certamente
dell'imminente remissione delle scomuniche, è notoriamente
critico su ogni ipotesi di compromesso con Roma della
Fraternità San Pio X di mons. Lefebvre e come minimo si è
comportato con il cronista svedese in modo davvero molto
imprudente.
Il ruolo dei cattolici progressisti era già emerso in
altre due campagne contro Benedetto XVI, particolarmente
gravi perché coronate da successo. Due vescovi
regolarmente scelti dal Papa avevano dovuto rinunciare
alle cariche: mons. Stanislaw Wielgus, nominato primate di
Polonia, a causa della scoperta di documenti relativi a
una sua collaborazione giovanile con i servizi segreti del
regime comunista, e mons. Gerhard Wagner, nominato vescovo
ausiliare di Linz, in Austria, contro cui si erano
sollevati il clero e anche molti vescovi austriaci a causa
di dichiarazioni sulla natura di castigo di Dio
dell'uragano Katrina, sul carattere satanico dei romanzi
del ciclo di Harry Potter e sulla possibilità di
curare l'omosessualità tramite terapie riparative. Come
notano gli autori, le opinioni di mons. Wagner su tutti e
tre i temi sono condivise da molti nella Chiesa - lo
stesso cardinale Ratzinger aveva espresso simpatia nel
2003 per un libro critico su Harry Potter di una
studiosa tedesca sua amica, pur ammettendo di non avere
letto i relativi romanzi - ma è anche vero che il prelato
austriaco le aveva espresse in toni particolarmente
accesi.
I due casi, spiegano gli autori, sono meno lontani di
quanto sembri a prima vista. Anche mons. Wielgus, per
quanto denunciato per la prima volta da "cacciatori di
collaborazionisti" di destra, è stato poi attaccato
sistematicamente da una stampa polacca che lo avversava
non tanto per il suo passato di collaboratore con i
servizi segreti comunisti - un passato condiviso da oltre
centomila persone in Polonia, tra cui numerosi sacerdoti e
diversi vescovi - quanto per il suo presente di vescovo
particolarmente conservatore. Se nel caso di mons. Wielgus,
che aveva maldestramente cercato di nascondere documenti
sul suo passato, l'accettazione delle dimissioni era
inevitabile, non si possono non condividere alcune
perplessità degli autori sul caso di mons. Wagner. Cedere
alle pressioni di una parte del clero e dell'episcopato
austriaco - guidato nel caso Wagner da un sacerdote che
poco dopo ha ammesso pubblicamente di vivere da anni in
una situazione di concubinato - ha innescato in Austria
una contestazione globale nei confronti della Santa Sede,
in cui sono sempre più apertamente coinvolte le massime
gerarchie cattoliche del Paese e che a tutt'oggi non
appare risolta.
Nel marzo 2009 con il viaggio del Papa in Africa
l'attacco entra in una fase nuova. Sull'aereo che lo porta
in Camerun come di consueto Benedetto XVI risponde alle
domande dei giornalisti. A un cronista francese che gli
pone una domanda sull'AIDS il Papa risponde che la
distribuzione massiccia di preservativi non risolve ma
aggrava il problema. Il Papa, rilevano gli autori,
tecnicamente ha ragione e nei giorni successivi lo
confermeranno fior di immunologi: favorendo la promiscuità
sessuale e creando una falsa illusione di sicurezza le
politiche basate sul preservativo hanno regolarmente
aggravato il problema AIDS nei Paesi dove sono state
sperimentate. Ma la risposta del Papa occupa le cronache
internazionali per tutto il viaggio, facendo ignorare
almeno in Europa e negli Stati Uniti i profondi
insegnamenti sulla crisi del continente africano - e la
puntuale denuncia delle malefatte delle istituzioni
internazionali e di alcune multinazionali in Africa: che
fosse proprio questo lo scopo?
Non sorprende ormai più la discesa in campo contro il
Papa dei soliti teologi progressisti. Ma il fatto nuovo è
l'intervento dei governi: Spagna, Francia e Germania
chiedono al Papa di scusarsi, al Parlamento Europeo una
mozione di censura del Pontefice non passa ma raccoglie
comunque 199 voti. In Belgio una mozione analoga è invece
votata dal Parlamento e provoca una dura risposta
vaticana, innescando una crisi diplomatica senza
precedenti tra i due Paesi che prepara gli atteggiamenti
maneschi della polizia belga nella successiva vicenda dei
preti pedofili.
Due attacchi citati da Rodari e Tornielli sono
interessanti perché non vengono "da sinistra" ma "da
destra", e mostrano che anche persone di solito rispettose
sono indotte dal clima generale a usare nei confronti del
Papa e dei suoi collaboratori un linguaggio che in altri
tempi non si sarebbero permesso. Si tratta delle critiche
di un mondo cattolico conservatore in tema di economia
all'enciclica Caritas in veritate del 2009,
giudicata da studiosi statunitensi come George Weigel e
Michael Novak ingiustamente ostile al modello di
capitalismo prevalente negli Stati Uniti, e delle
polemiche sul terzo segreto di Fatima e sull'asserita
esistenza di una parte del testo tenuta ancora segreta dal
Vaticano. Sul merito si può certo discutere - anche se
sull'enciclica gli studiosi americani sembrano soprattutto
stizziti per non essere stati consultati, com'era invece
avvenuto per testi di Giovanni Paolo II - ma il tono e i
veleni sono comunque segnali di un clima malsano.
La stessa apertura agli anglicani che, delusi dalle
aperture della loro comunità al sacerdozio femminile e al
matrimonio omosessuale, tornano a Roma, se è avversata "da
sinistra" come pericolosa per l'ecumenismo - ma quale
ecumenismo è possibile con chi celebra in chiesa matrimoni
gay? - è attaccata anche "da destra" perché, prevedendo
percorsi di accoglienza nella Chiesa Cattolica di
sacerdoti anglicani sposati, sembra compromettere la
difesa del celibato. Anche qui quella che è più grave è
l'incomprensione del carattere globale dell'attacco al
Papa da parte di certi sedicenti "conservatori", che
gettano benzina anziché acqua sul fuoco.
Le altre nove crisi impallidiscono comunque di fronte
alla decima, relativa ai preti pedofili. Dal momento che
gli autori citano ampiamente e riprendono materiale dal
mio libro Preti pedofili (San Paolo, Cinisello
Balsamo 2010), sostanzialmente condividendone
l'impostazione, forse non debbo qui riassumere l'ampia
sezione del libro dedicata al tema e posso permettermi di
rimandare al mio testo. Il libro di Rodari e Tornielli
ribadisce, contro le critiche assurde che purtroppo sono
venute anche da vescovi e cardinali, quanto anch'io ho
sottolineato: se c'è stato nella Chiesa un prelato
durissimo nei confronti dei preti pedofili, tanto da
essere accusato di violare il loro diritto alla difesa e
di essersi scontrato sul punto con numerosi colleghi
vescovi, questi è stato il cardinale Ratzinger quando era
prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede.
Presentarlo al contrario come tollerante sul punto è
semplicemente ridicolo, eppure trova talora credito tra i
lettori meno informati dei quotidiani.
Semmai gli autori si chiedono se gli ostacoli che il
cardinale Ratzinger ebbe a incontrare negli ultimi anni
del pontificato di Giovanni Paolo II - quando le sue
richieste di ancor maggiore severità non sempre furono
accolte - non gettino un'ombra sul grande Papa polacco e
non rischino perfino di compromettere la sua causa di
beatificazione. In effetti nella causa in corso il
problema è stato affrontato. Ma si è concluso,
giustamente, che taluni freni all'opera del cardinale
Ratzinger risalgono agli ultimi anni del pontificato
wojtyliano, quando Giovanni Paolo II, sempre più
gravemente malato, non seguiva più personalmente queste
vicende delegandole a collaboratori cui vanno dunque
girate eventuali critiche.
In conclusione Rodari e Tornielli si chiedono se si
possa parlare di un complotto contro il Papa, citando
varie opinioni tra cui la mia in un'intervista che ho loro
rilasciato specificatamente per questo volume. La loro
conclusione è che ci siano in atto tre diversi attacchi a
Benedetto XVI da parte di tre diversi nemici. Il primo è
costituito dalla galassia di lobby laiciste, omosessuali,
massoniche, femministe, delle case farmaceutiche che
vendono prodotti abortivi, degli avvocati che chiedono
risarcimenti miliardari per i casi di pedofilia. Questa
galassia, troppo complessa perché si possa ritenere che
risponda a una sola regia, dispone però grazie alle nuove
tecnologie dell'informazione di un potere che nessun altro
nemico della Chiesa ha avuto nell'intera storia umana e
vede nel Papa il principale ostacolo alla costruzione di
una universale dittatura del relativismo in cui Dio e i
valori della vita e della famiglia non contano. Un
ostacolo che dev'essere spazzato via a tutti i costi e con
ogni mezzo.
Queste lobby hanno successo perché hanno arruolato un
secondo nemico del Papa costituito dal progressismo
cattolico e da quei cattolici e teologi - tra cui non
pochi vescovi - i quali vedono la loro autorità e il loro
potere nella Chiesa minacciato dallo smantellamento da
parte di Benedetto XVI di quella interpretazione del
Concilio in termini di discontinuità e di rottura con la
Tradizione su cui hanno costruito per decenni carriere e
fortune. Le interviste ai cattolici progressisti
permettono ai media laicisti di rappresentare la loro
propaganda non come anticattolica ma come sostegno contro
il Papa reazionario che vuole "abolire il Concilio", cioè
mettere in discussione il suo presunto "spirito", dal
momento che la lettera dei documenti conciliari dai
giornalisti anticattolici non è neppure conosciuta e dai
loro compagni di strada "cattolici adulti" è giudicata
irrilevante.
In terzo luogo, Benedetto XVI ha anche un terzo nemico,
inconsapevole e involontario ma non per questo meno
pericoloso. Ci sono "'attacchi' involontariamente
autoprodotti a causa delle numerose imprudenze e dei
frequenti errori dei collaboratori" (p. 313) del Papa. Gli
autori riportano diversi pareri sulla difficoltà di
comunicazione della Santa Sede nell'epoca non solo di
Internet ma di Facebook e di una telefonia mobile
collegata al Web che fa sì che le notizie arrivino a
centinaia di milioni di persone - per esempio i
cinquecento milioni di utenti Facebook attivi ogni giorno
- pochi secondi dopo essere state lanciate e siano
archiviate come vecchie dopo qualche ora. Se una notizia
falsa non è smentita entro due o tre ore, se a un attacco
non si risponde al massimo entro ventiquattr'ore le
possibilità di replica efficace si riducono a poco più di
zero.
Se tutto questo è vero, le opinioni di chi,
intervistato dagli autori, rimpiange il precedente
portavoce pontificio, il laico dottor Joaquín Navarro
Valls, giudicandolo più scaltro del suo successore gesuita
padre Federico Lombardi, possono essere dibattute
all'infinito ma forse non vanno al cuore del problema. È
il modo di comunicare che è cambiato radicalmente, ed è
cambiato dopo la morte di Giovanni Paolo II perché il
problema non è Internet ma il numero sempre maggiore di
persone - centinaia di milioni, appunto, non piccole élite
- che a Internet sono collegate ventiquattro ore su
ventiquattro tramite gli smartphone, i netbook o i vari
iPad, e hanno un tempo di reazione a richieste o
provocazioni che si misura in minuti e non più in ore. Sul
punto il libro del giornalista italiano Marco Niada Il
tempo breve (Garzanti, Milano 2010) dovrebbe forse
essere letto anche da qualche vaticanista.
Benedetto XVI non è inconsapevole di questi attacchi. È
molto interessato alle nuove tecnologie e alla necessità
di migliorare le strategie di comunicazione della Santa
Sede. Ma, concludono Rodari e Tornielli, è anche molto
sereno. È disponibile a seguire i problemi che la
rivoluzione delle comunicazioni - una rivoluzione forse
non meno importante di quella degli anni 1960 in tema di
morale e di crisi dell'autorità - pone alla Chiesa, ma non
a inseguirli. Insiste sul fatto che la salvezza della
Chiesa perseguitata non verrà dalle strategie, dalle
diplomazie, dalle tecnologie - per quanto queste siano
importanti e non vadano trascurate - ma dalla fedeltà alla
preghiera, alla meditazione, al Cristo crocefisso. È
probabile che abbia ragione non solo, com'è ovvio, sul
piano spirituale ma anche su quello culturale e
sociologico, dove alla Chiesa non si chiede d'imitare i
modelli dominanti ma di essere se stessa. Non tutti, anche
tra i cattolici, sembrano averlo compreso.