IL MISTERO
DELLA CHIESA,
illuminato di luce
nuova dal Concilio
Vaticano II, è
stato poi
ripetutamente
riconsiderato in
numerosi scritti
di teologi. Mentre
non pochi di essi
hanno di certo
contribuito a
farlo meglio
comprendere, altri
invece, a causa
del linguaggio
ambiguo o
addirittura
erroneo, hanno
oscurato la
dottrina
cattolica,
giungendo,
talvolta, al punto
di opporsi alla
fede cattolica
anche in cose
fondamentali.
Quando, dunque, è
stato necessario,
non sono mancati
Vescovi di varie
nazioni, i quali,
nella loro
responsabilità «
di conservare puro
ed integro il
deposito della
fede » e nel loro
dovere « di
annunciare
incessantemente il
Vangelo », hanno
avuto premura, con
dichiarazioni
convergenti, di
premunire dal
pericolo di errore
i fedeli affidati
alle loro cure. Ed
anche la seconda
Assemblea generale
del Sinodo dei
Vescovi, trattando
del sacerdozio
ministeriale, ha
esposto alcuni
punti dottrinali,
importanti per
quel che riguarda
la costruzione
della Chiesa.
Parimenti, la
Sacra
Congregazione per
la Dottrina della
Fede, il cui
compito è quello
di « tutelare la
dottrina circa la
fede e i costumi
in tutto il mondo
cattolico »,
rifacendosi
anzitutto ai due
Concili Vaticani,
intende riassumere
e spiegare alcune
verità attinenti
al mistero della
Chiesa, le quali
sono oggi negate o
messe in pericolo.
1. L’UNICITÀ
DELLA CHIESA DI
CRISTO
Unica è la Chiesa
« che il nostro
Salvatore, dopo la
sua risurrezione,
lasciò alla cura
pastorale di
Pietro (cf Gv
21,17), della
quale affidò a lui
e agli altri
Apostoli la
diffusione e la
guida (cf Mt
18,18ss.), e che
costituì per
sempre come
colonna e sostegno
della verità (cf 1
Tim 3,15) »; e
tale Chiesa di
Cristo, «
costituita e
organizzata come
società in questo
mondo, sussiste
nella Chiesa
cattolica,
governata dal
successore di
Pietro e dai
Vescovi in
comunione con lui
». Questa
dichiarazione del
Concilio Vaticano
II è illustrata
dalle parole dello
stesso Concilio,
quando afferma che
« solo… mediante
la Chiesa
cattolica di
Cristo, strumento
universale di
salvezza, è
possibile entrare
nel pieno possesso
di tutti i mezzi
di salvezza »; e
che la medesima
Chiesa cattolica «
è stata arricchita
di tutta la verità
divinamente
rivelata e di
tutti i mezzi di
grazia », di cui
Cristo ha voluto
dotare la sua
comunità
messianica. Ciò
non toglie che
essa, mentre è
ancora pellegrina
sulla terra, «
poiché comprende
peccatori nel suo
seno, sia insieme
santa e bisognosa
di continua
purificazione »; e
nemmeno che « al
di fuori della sua
struttura » e, più
espressamente,
nelle Chiese o
comunità
ecclesiali, che
non sono in
perfetta comunione
con la Chiesa
cattolica, « si
trovino in
quantità elementi
di santificazione
e di verità che,
quali doni propri
della Chiesa di
Cristo, spingono
all’unità
cattolica ».
Per tali ragioni,
« è necessario che
i cattolici
riconoscano con
gioia ed
apprezzino i
valori
genuinamente
cristiani,
derivanti dallo
stesso patrimonio
comune, che si
riscontrano presso
i fratelli da noi
separati »; e che,
in un comune
sforzo di
purificazione e di
rinnovamento, si
impegnino per la
ricomposizione
dell’unità tra
tutti i cristiani,
affinché la
volontà di Cristo
si compia e la
divisione dei
cristiani più non
continui ad
ostacolare la
proclamazione del
Vangelo nel mondo.
Ma, al tempo
stesso, i
cattolici sono
tenuti a
professare di
appartenere, per
misericordioso
dono di Dio, alla
Chiesa fondata da
Cristo e guidata
dai successori di
Pietro e degli
altri Apostoli,
presso i quali
permane, intatta e
viva, l’originaria
tradizione
apostolica, che è
patrimonio perenne
di verità e di
santità della
medesima Chiesa.
Non possono,
quindi, i fedeli
immaginarsi la
Chiesa di Cristo
come la somma –
differenziata ed
in qualche modo
unitaria insieme –
delle Chiese e
comunità
ecclesiali; né
hanno facoltà di
pensare che la
Chiesa di Cristo
oggi non esista
più in alcun luogo
e che, perciò,
debba esser
soltanto oggetto
di ricerca da
parte di tutte le
Chiese e comunità.
2.
L’INFALLIBILITÀ DI
TUTTA LA CHIESA
« Nella sua
immensa bontà Dio
dispose che la
Rivelazione, da
lui fatta per la
salvezza di tutte
le genti,
rimanesse per
sempre nella sua
interezza ». A tal
fine, egli ha
affidato alla
Chiesa il tesoro
della parola di
Dio, alla cui
conservazione,
penetrazione ed
applicazione alla
vita concorrano
insieme i Pastori
e il Popolo santo.
Dio stesso,
dunque,
l’assolutamente
infallibile, ha
voluto dotare il
suo Popolo nuovo,
che è la Chiesa,
di
un’infallibilità
partecipata,
circoscritta alle
cose riguardanti
la fede e i
costumi; essa
appunto si
verifica quando
tutto il Popolo di
Dio ritiene senza
incertezze qualche
punto dottrinale
attinente a tali
cose; essa,
ancora, è in
permanente
dipendenza dallo
Spirito Santo che,
con sapiente
provvidenza e con
l’unzione della
sua grazia, guida
la Chiesa alla
verità intera,
fino alla venuta
gloriosa del suo
Signore. Circa
questa
infallibilità del
Popolo di Dio il
Concilio Vaticano
II dichiara: «
L’universalità dei
fedeli, che hanno
l’unzione ricevuta
dal Santo (cf 1 Gv
2,20 e 27), non
può ingannarsi nel
credere, e
manifesta questa
sua singolare
proprietà mediante
il soprannaturale
senso della fede
di tutto il
popolo, quando
“dai Vescovi fino
agli ultimi fedeli
laici” (S.
Agostino, De
Praed. Sanct.
14,27) esprime
l’unanime suo
consenso in cose
riguardanti la
fede e i costumi
».
Ma lo Spirito
Santo illumina e
soccorre il Popolo
di Dio, in quanto
è il corpo di
Cristo, unito in
comunione
gerarchica. Lo
dice il Concilio
Vaticano II,
quando alle parole
ora riferite
aggiunge: «
Mediante quel
senso della fede,
suscitato e
sorretto dallo
Spirito di verità,
il Popolo di Dio,
sotto la guida del
sacro Magistero,
nella cui
obbedienza fedele
accoglie non già
una parola
d’uomini, ma, qual
è veramente, la
parola di Dio (cf
1 Ts 2,13),
indefettibilmente
aderisce “alla
fede trasmessa ai
credenti una volta
per tutte” (Gd 3),
con retto giudizio
la penetra più a
fondo e più
perfettamente la
applica nella vita
».
Senza dubbio i
fedeli, partecipi
anch’essi, in
certa misura,
dell’ufficio
profetico di
Cristo, in tante
maniere
contribuiscono ad
accrescere la
comprensione della
fede nella Chiesa.
« Cresce infatti –
così dice il
Concilio Vaticano
II – la percezione
delle realtà e
delle parole
trasmesse, sia
mediante la
riflessione e lo
studio dei
credenti che le
meditano nel loro
cuore (cf Lc 2,19
e 51), sia
mediante
l’intelligenza
interiormente
sperimentata delle
realtà spirituali,
sia mediante la
predicazione di
coloro che, con la
successione
episcopale, hanno
ricevuto un sicuro
carisma di verità
», ed il Sommo
Pontefice Paolo VI
osservava che la «
testimonianza »
che è data dai
Pastori della
Chiesa è «
saldamente
ancorata nella
sacra Tradizione e
nella sacra
Scrittura, e
alimentata dalla
vita di tutto il
Popolo di Dio ».
Tuttavia, per
istituzione
divina,
ammaestrare i
fedeli
autenticamente,
cioè con
l’autorità di
Cristo a diverso
titolo loro
partecipata, è
competenza
esclusiva di quei
Pastori,
successori di
Pietro e degli
altri Apostoli;
per questo i
fedeli, lungi dal
limitarsi ad
ascoltarli
semplicemente
quali esperti
della dottrina
cattolica, son
tenuti ad aderire
al loro
insegnamento
impartito in nome
di Cristo,
proporzionalmente
all’autorità che
possiedono e che
intendono
esercitare. Perciò
il Concilio
Vaticano II, in
sintonia col
Concilio Vaticano
I, ha insegnato
che Cristo ha
stabilito in
Pietro « il
perpetuo e
visibile principio
e fondamento
dell’unità di fede
e di comunione »;
e il Sommo
Pontefice Paolo VI
ha affermato che «
il magistero dei
Vescovi è, per i
credenti, il segno
e il tramite che
consente loro di
ricevere e di
riconoscere la
parola di Dio ».
Per quanto,
dunque, il sacro
Magistero si
avvalga della
contemplazione,
della condotta e
della ricerca dei
fedeli, il suo
ufficio non si
riduce, però, a
ratificare il
consenso da loro
già espresso;
anzi,
nell’interpretazione
e nella
spiegazione della
parola di Dio
scritta o
trasmessa, esso
può prevenire ed
esigere tale
consenso. Ed
infine,
dell’intervento ed
aiuto del
Magistero il
Popolo di Dio ha
particolarmente
bisogno, quando
dissensi interni
insorgono e si
diffondono su una
dottrina che
dev’essere creduta
o ritenuta; ciò ad
evitare che,
all’interno
dell’unico corpo
del suo Signore,
esso sia privato
della comunione in
un’unica fede (cf
Ef 4,4 e 5).
3.
L’INFALLIBILITÀ
DEL MAGISTERO
DELLA CHIESA
Gesù Cristo,
nell’affidare ai
Pastori l’incarico
di insegnare il
Vangelo a tutto il
suo Popolo e
all’intera
famiglia umana,
volle dotare il
loro Magistero di
un adeguato
carisma di
infallibilità in
cose riguardanti
la fede e i
costumi. Poiché
tali carisma non
proviene da nuove
rivelazioni, di
cui sarebbero
gratificati il
Successore di
Pietro e il
Collegio
episcopale, esso
non li dispensa
dall’impegno di
scrutare, con
l’uso di mezzi
appropriati, il
tesoro della
divina Rivelazione
contenuto nei
Sacri Libri, che
ci insegnano
intatta la verità
che Dio ha voluto
fosse scritta in
vista della nostra
salvezza, e nella
viva Tradizione
apostolica. Ma
nell’esercizio
della loro
funzione i Pastori
della Chiesa sono
convenientemente
assistiti dallo
Spirito Santo; e
questa assistenza
raggiunge il
vertice, quando
ammaestrano il
Popolo di Dio in
modo tale che, per
le promesse di
Cristo a Pietro e
agli altri
Apostoli, il loro
insegnamento è
necessariamente
immune da errore.
Questo si verifica
quando i Vescovi
dispersi nel
mondo, ma in
comunione di
magistero col
Successore di
Pietro, convergono
in un’unica
sentenza da
ritenersi come
definitiva. Lo
stesso avviene
ancora in modo più
evidente, sia
quando i Vescovi
con atto
collegiale – come
nel caso dei
Concili ecumenici
– unitariamente al
loro Capo visibile
definiscono che
una dottrina
dev’esser
ritenuta, sia
quando il Romano
Pontefice « parla
ex cathedra,
quando cioè,
nell’adempimento
dell’ufficio di
pastore e dottore
di tutti i
cristiani, con la
sua suprema
potestà apostolica
definisce che una
dottrina sulla
fede o sui costumi
dev’esser tenuta
dalla Chiesa
universale ».
Secondo la
dottrina
cattolica,
l’infallibilità
del Magistero
della Chiesa si
estende non solo
al deposito della
fede, ma anche a
tutto ciò che è
necessario perché
esso possa esser
custodito od
esposto come si
deve.
L’estensione, poi,
di tale
infallibilità al
deposito stesso
della fede è una
verità che la
Chiesa, fin dalle
origini, ha
ricevuto come
certamente
rivelata nelle
promesse di
Cristo. Fondandosi
appunto su questa
verità, il
Concilio Vaticano
I definì qual è
l’oggetto della
fede cattolica: «
Si devono credere
con fede divina e
cattolica tutte
quelle cose che
sono contenute
nella parola di
Dio scritta o
trasmessa, e che
dalla Chiesa, con
solenne giudizio o
nel magistero
ordinario e
universale, sono
proposte a credere
come divinamente
rivelate ». Di
conseguenza,
l’oggetto della
fede cattolica –
che specificamente
va sotto il nome
di dogmi – come
necessariamente è
ed è sempre stato
la norma
immutabile per la
fede, altrettanto
lo è per la
scienza teologica.
4. NON SI DEVE
ATTENUARE IL DONO
DELL’INFALLIBILITÀ
DELLA CHIESA
Da quanto è stato
detto circa
l’estensione e le
condizioni
dell’infallibilità
del Popolo di Dio
e del Magistero
ecclesiastico,
consegue che in
nessun modo è
consentito ai
fedeli di
riconoscere nella
Chiesa soltanto
una « fondamentale
» permanenza nella
verità,
conciliabile –
come vorrebbero
alcuni – con
errori qua e là
disseminati nelle
sentenze insegnate
come definitive
dal Magistero
della Chiesa,
ovvero nel
consenso senza
incertezze del
Popolo di Dio in
cose di fede e di
costumi.
È vero, sì, che è
mediante la fede
salvifica che gli
uomini si
orientano verso
Dio, rivelatesi
nel Figlio suo,
Gesù Cristo. Ma a
torto da ciò si
dedurrebbe che si
possano deprezzare
o addirittura
negare i dogmi
della Chiesa, che
esprimono altri
misteri. Anzi, il
doveroso
orientamento verso
Dio mediante la
fede è proprio
un’obbedienza (cf
Rm 16,26), tale da
importare piena
conformità alla
natura della
Rivelazione divina
ed alle sue
esigenze. Ora
questa
Rivelazione, in
tutto l’ambito
della salvezza,
svela il mistero
di Dio che ha
mandato il suo
Figlio nel mondo
(cf 1 Gv 4,4) e ne
insegna
l’applicazione
alla condotta
cristiana; essa
esige, inoltre,
che, in piena
obbedienza
dell’intelletto e
della volontà a
Dio rivelante, sia
accettato il lieto
annuncio della
salvezza, com’è
infallibilmente
insegnato dai
Pastori della
Chiesa. I fedeli,
dunque, mediante
la fede si
orientano verso
Dio, rivelatesi in
Cristo, come si
deve, aderendo a
lui nella dottrina
integrale della
fede cattolica.
Esiste, certo, un
ordine e come una
gerarchia dei
dogmi della
Chiesa, dato che
diverso è il loro
nesso col
fondamento della
fede. Ma questa
gerarchia
significa che
alcuni dogmi si
fondano su altri
come principali e
ne sono
illuminati. Tutti
i dogmi, però,
perché rivelati,
devono essere
ugualmente creduti
per fede divina.
5. NON SI DEVE
FALSIFICARE IL
CONCETTO DI
INFALLIBILITÀ
DELLA CHIESA
La trasmissione
della divina
Rivelazione da
parte della Chiesa
incontra
difficoltà di
vario genere. Esse
derivano,
primariamente, dal
fatto che gli
arcani misteri di
Dio « per loro
natura trascendono
tanto l’intelletto
umano che,
quantunque
comunicati dalla
rivelazione ed
accettati per
fede, restano
tuttavia velati
dalla fede stessa
e come avvolti
d’oscurità »; e
derivano, poi, dal
condizionamento
storico che incide
sull’espressione
della Rivelazione.
In merito a tale
condizionamento
storico, si deve
anzitutto
osservare che il
senso contenuto
nelle enunciazioni
di fede dipende,
in parte, dalla
peculiarità
espressiva di una
lingua usata in
una data epoca ed
in determinate
circostanze.
Inoltre, avviene
talora che qualche
verità dogmatica
in un primo tempo
sia espressa in
modo incompleto,
anche se falso
mai, e che in
seguito,
considerata in un
più ampio contesto
di fede o anche di
conoscenze umane,
riceva più
completa e
perfetta
espressione. La
Chiesa, ancora,
quando fa
enunciazioni
nuove, intende
confermare o
chiarire quel che,
in qualche modo, è
già contenuto
nella Scrittura o
in antecedenti
espressioni della
Tradizione, ma
abitualmente si
preoccupa anche di
dirimere certe
controversie o di
sradicare errori;
e di tutto questo
si deve tener
conto, perché
quelle
enunciazioni siano
rettamente
interpretate. Da
aggiungere,
infine, che,
sebbene le verità
che la Chiesa con
le sue formule
dogmatiche intende
effettivamente
insegnare si
distinguano dalle
mutevoli
concezioni di una
determinata epoca
e possano essere
espresse anche
senza di esse, può
darsi tuttavia che
quelle stesse
verità del sacro
Magistero siano
enunciate con
termini che
risentono di tali
concezioni.
Ciò premesso, si
deve dire che le
formule dogmatiche
del Magistero
della Chiesa fin
dall’inizio furono
adatte a
comunicare la
verità rivelata, e
che restano per
sempre adatte a
comunicarla a chi
le comprende
rettamente. Ma
questo non vuol
dire che ciascuna
di esse lo sia
stata o lo resterà
in pari misura.
Per tale motivo, i
teologi si
sforzano di
delimitare con
esattezza qual è
l’intenzionalità
d’insegnamento che
è propria di
quelle diverse
formule, e con
questo loro lavoro
offrono una
qualificata
collaborazione al
Magistero vivo
della Chiesa, al
quale rimangono
subordinati. Per
lo stesso motivo
può, inoltre,
accadere che
antiche formule
dogmatiche o altre
ad esse connesse
rimangano vive e
feconde nell’uso
abituale della
Chiesa, ma con
opportune aggiunte
espositive ed
esplicative, che
ne mantengano e
chiariscano il
senso congenito.
D’altra parte, è
anche avvenuto
che, nel medesimo
uso abituale della
Chiesa, ad alcune
di quelle formule
sono subentrate
espressioni nuove
che, proposte o
approvate dal
sacro Magistero,
ne indicano
l’identico
significato in
modo più chiaro e
completo.
Quanto poi al
significato stesso
delle formule
dogmatiche, esso
nella Chiesa
rimane sempre vero
e coerente, anche
quando è
maggiormente
chiarito e meglio
compreso. Devono,
quindi, i fedeli
rifuggire
dall’opinione la
quale ritiene che
le formule
dogmatiche (o
qualche categoria
di esse) non
possono
manifestare la
verità
determinatamente,
ma solo delle sue
approssimazioni
cangianti, che
sono, in certa
maniera,
deformazioni e
alterazioni della
medesima; e che le
stesse formule,
inoltre,
manifestano
soltanto in modo
indefinito la
verità, la quale
dev’esser
continuamente
cercata attraverso
quelle
approssimazioni.
Chi la pensasse
così, non
sfuggirebbe al
relativismo
dogmatico e
falsificherebbe il
concetto di
infallibilità
della Chiesa,
relativo alla
verità da
insegnare e
ritenere in modo
determinato.
Un’opinione del
genere è in aperto
contrasto con le
dichiarazioni del
Concilio Vaticano
I, il quale, pur
consapevole del
progresso della
Chiesa nella
conoscenza della
verità rivelata,
ha tuttavia
insegnato: « Ai
sacri (…) dogmi
dev’esser sempre
mantenuto il senso
dichiarato una
volta per tutte
dalla santa madre
Chiesa, e mai è
permesso
allontanarsi da
quel senso col
pretesto ed in
nome di
un’intelligenza
più progredita ».
Esso ha, inoltre,
condannato la
sentenza secondo
la quale potrebbe
accadere « che ai
dogmi proposti
dalla Chiesa si
debba talvolta
dare, in base al
progresso della
scienza, un senso
diverso da quello
che la Chiesa ha
inteso ed intende
». Non c’è dubbio,
secondo tali testi
del Concilio, che
il senso dei dogmi
dichiarato dalla
Chiesa sia ben
determinato ed
irreformabile.
Detta opinione è
pure in disaccordo
con quanto disse
sulla dottrina
cristiana il Sommo
Pontefice Giovanni
XXIII, durante
l’inaugurazione
del Concilio
Vaticano II: «
Bisogna che questa
dottrina certa ed
immutabile, alla
quale è dovuto
ossequio fedele,
sia esplorata ed
esposta nella
maniera che
l’epoca nostra
richiede. Una cosa
è, infatti, il
deposito della
fede, cioè le
verità contenute
nella nostra
veneranda
dottrina, e altra
cosa è il modo
della loro
enunciazione,
sempre però nel
medesimo senso e
significato ».
Poiché il
Successore di
Pietro parla qui
di dottrina
cristiana certa ed
immutabile, di
deposito della
fede da
identificare con
le verità
contenute in tale
dottrina, e di
verità che devono
esser conservate
nel medesimo
senso, è chiaro
che egli ammette
che il senso dei
dogmi può esser da
noi conosciuto, e
che questo è
esatto ed
immutabile. E la
novità da lui
raccomandata, in
considerazione
delle esigenze dei
nostri tempi,
riguarda soltanto
i modi di ricerca,
di esposizione e
di enunciazione
della stessa
dottrina nel suo
senso permanente.
In modo analogo,
il Sommo Pontefice
Paolo VI,
nell’esortazione
ai Pastori della
Chiesa, ha
dichiarato: « Da
noi si richiede
oggi un serio
sforzo, perché la
dottrina della
fede conservi la
pienezza del suo
contenuto e del
suo significato,
pur esprimendola
in maniera che le
consenta di
raggiungere la
mente e il cuore
degli uomini, ai
quali è diretta ».
6. LA CHIESA
ASSOCIATA AL
SACERDOZIO DI
CRISTO
Cristo Signore,
Pontefice della
nuova ed eterna
alleanza, ha
voluto associare e
conformare al suo
sacerdozio
perfetto il popolo
acquistato col
proprio sangue (cf
Eb 7,20-22 e
26-28; 10,14 e
21). Egli, perciò,
ha partecipato,
come dono, alla
Chiesa il suo
sacerdozio, e ciò
mediante il
sacerdozio comune
dei fedeli ed il
sacerdozio
ministeriale o
gerarchico, i
quali, sebbene
differenti per
essenza e non solo
per grado, sono
tuttavia ordinati
l’uno all’altro
nella comunione
ecclesiale.
Il sacerdozio
comune dei fedeli,
chiamato
giustamente anche
sacerdozio regale
(cf 1 Pt 2,9; Ap
1,6; 5,9s.),
poiché effettua il
congiungimento dei
fedeli, in quanto
membri del popolo
messianico, col
loro Re celeste, è
conferito nel
Sacramento del
battesimo. In
forza di questo
Sacramento, a
causa del segno
inammissibile
chiamato
carattere, i
fedeli «
incorporati nella
Chiesa, sono
abilitati al culto
della religione
cristiana », ed
insieme « essendo
rigenerati in
figli di Dio, son
tenuti a
professare
pubblicamente la
fede, da lui
ricevuta
attraverso la
Chiesa ». Tutti
quelli, dunque,
che son rigenerati
nel battesimo, «
in virtù del loro
regale sacerdozio,
concorrono
all’offerta
dell’Eucaristia,
ed esercitano tale
sacerdozio col
ricevere i
Sacramenti, con la
preghiera e il
ringraziamento,
con la
testimonianza di
una vita santa,
con l’abnegazione
e la carità
operosa ».
Oltre a ciò,
Cristo, Capo del
suo corpo mistico
che è la Chiesa,
perché
rappresentassero
lui in persona
nella Chiesa,
costituì come
ministri del suo
sacerdozio gli
Apostoli e, per
loro tramite, i
Vescovi loro
successori; e
questi, a loro
volta,
comunicarono
legittimamente il
sacro ministero
ricevuto, sebbene
in grado
subordinato, anche
ai Presbiteri. Si
instaurò così
nella Chiesa la
successione
apostolica del
sacerdozio
ministeriale, a
gloria di Dio ed a
servizio del suo
Popolo e di tutta
la famiglia umana,
che a Dio
dev’esser diretta.
In forza di questo
sacerdozio, i
Vescovi e i
Presbiteri « sono
in certo modo
segregati in seno
al Popolo di Dio,
non però per esser
separati da esso o
da qualsiasi uomo,
ma perché siano
consacrati
totalmente
all’opera, per la
quale il Signore
li assume », cioè
alla funzione di
santificare, di
insegnare e di
governare, il cui
esercizio è
precisato in
concreto dalla
comunione
gerarchica. Questa
opera multiforme
ha come principio
e fondamento
l’ininterrotta
predicazione del
Vangelo, mentre
come culmine e
sorgente di tutta
la vita cristiana
ha il Sacrificio
eucaristico, che i
sacerdoti, come
rappresentanti di
Cristo Capo in
persona, in nome
suo ed in nome
delle membra del
suo corpo mistico,
offrono nello
Spirito Santo a
Dio Padre; e che è
poi integrato
nella sacra Cena,
nella quale i
fedeli,
partecipando
all’unico corpo di
Cristo, tutti
diventano un corpo
solo (cf 1 Cor
10,16s.).
La Chiesa ha
cercato di
indagare sempre
più e meglio sulla
natura del
sacerdozio
ministeriale, che
fin dall’età
apostolica risulta
costantemente
conferito mediante
un rito sacro (cf
1 Tm 4,14; 2 Tm
1,6). Con
l’assistenza della
Spirito Santo,
essa è così
gradatamente
arrivata alla
chiara persuasione
che Dio ha voluto
manifestarle che
questo rito
conferisce ai
sacerdoti non
soltanto un
aumento di grazia
per compiere
santamente le
funzioni
ecclesiali, ma
imprime anche un
sigillo permanente
di Cristo, cioè il
carattere, in
forza del quale,
dotati di
appropriata
potestà derivata
dalla suprema
potestà di cristo,
sono abilitati a
compiere quelle
funzioni. La
permanenza poi di
questo carattere,
la cui natura è
peraltro
diversamente
spiegata dai
teologi, è stata
insegnata dal
Concilio di
Firenze e
confermata in due
decreti del
Concilio di
Trento.
Recentemente essa
è stata, altresì,
più volte
ricordata dal
Concilio Vaticano
II, e la seconda
Assemblea generale
del Sinodo dei
Vescovi
giustamente ha
rilevato che la
permanenza per
tutta la vita del
carattere
sacerdotale
appartiene alla
dottrina della
fede. Questa
stabile permanenza
del carattere
sacerdotale
dev’essere ammessa
dai fedeli, e di
essa si deve tener
conto per dare un
retto giudizio
sulla natura del
ministero
sacerdotale e
sulle
corrispondenti
modalità del suo
esercizio.
Quanto, poi, alla
potestà che è
propria del
sacerdozio
ministeriale, il
Concilio Vaticano
II, in accordo con
la sacra
Tradizione e con
numerosi documenti
del Magistero, ha
insegnato: « Se
chiunque può
battezzare i
credenti, è
tuttavia potestà
esclusiva dei
sacerdoti
completare
l’edificazione del
Corpo col
Sacrificio
eucaristico »; e
ancora: « Il
Signore stesso,
affinché i fedeli
fossero uniti in
un unico corpo,
nel quale però “le
membra non hanno
la medesima
funzione” (Rm
12,4), costituì
alcuni di loro
come ministri,
perché avessero,
in seno alla
società dei
fedeli, la sacra
potestà
dell’Ordine per
offrire il
Sacrificio e
rimettere i
peccati ».
Parimenti, la
seconda Assemblea
generale del
Sinodo dei Vescovi
ha a buon diritto
affermato che solo
il sacerdote,
quale
rappresentante di
Cristo in persona,
può presiedere e
compiere il
convito
sacrificale, nel
quale il Popolo di
Dio è associato
all’oblazione di
Cristo. Senza
voler ora toccare
le questioni sui
ministri dei
singoli
Sacramenti, stando
alla testimonianza
della sacra
Tradizione e del
sacro Magistero, è
evidente che i
fedeli i quali,
senza aver
ricevuto
l’ordinazione
sacerdotale, di
proprio arbitrio
si arrogassero la
funzione di fare
l’Eucaristia,
agirebbero, oltre
che in modo
gravemente
illecito, in modo
anche invalido. Ed
è evidente che
abusi del genere,
qualora si siano
introdotti, devono
essere stroncati
dai Pastori della
Chiesa.
La presente
Dichiarazione non
ha inteso – né era
questo il suo
scopo –
dimostrare, con
apposito studio
circa i fondamenti
della nostra fede,
che la Rivelazione
divina è stata
affidata alla
Chiesa, perché da
essa fosse in
futuro mantenuta
inalterata nel
mondo. Ma, insieme
con altre verità
attinenti al
mistero della
Chiesa, è stato
richiamato anche
questo dogma che è
all’origine stessa
della fede
cattolica,
affinché,
nell’attuale
turbamento delle
menti, appaia
chiaramente quale
sia la fede e la
dottrina che i
fedeli devono
fermamente tenere.
La Sacra
Congregazione per
la Dottrina della
Fede è ben lieta
che i teologi si
applichino con
grande impegno
all’approfondimento
del mistero della
Chiesa. Essa
riconosce pure che
il loro lavoro,
non di rado, tocca
questioni che solo
da ricerche
complementari e da
vari tentativi e
congetture possono
esser chiarite.
Tuttavia, la
giusta libertà dei
teologi deve
sempre mantenersi
limitata dalla
parola di Dio,
così com’è stata
fedelmente
conservata ed
esposta nella
Chiesa, e com’è
insegnata e
spiegata dal vivo
Magistero dei
Pastori e, in
primo luogo, dal
Pastore di tutto
il Popolo di Dio.
La stessa Sacra
Congregazione
affida la presente
Dichiarazione alla
sollecitudine
attenta dei
Vescovi e di tutti
quelli che, a
qualunque titolo,
condividono la
responsabilità di
salvaguardare il
patrimonio di
verità, che da
Cristo e dagli
Apostoli è stato
consegnato alla
Chiesa. E con
fiducia la
indirizza anche ai
fedeli e, in
particolare, a
causa
dell’importanza
del loro incarico
nella Chiesa, ai
sacerdoti e ai
teologi, perché
tutti siano
concordi nella
fede e in sincera
consonanza con la
Chiesa.
Il Sommo Pontefice
per divina
Provvidenza Papa
Paolo VI,
nell’Udienza
concessa al
sottoscritto
Prefetto della
Congregazione per
la Dottrina della
Fede, il giorno 11
del mese di maggio
1973, ha
ratificato e
confermato questa
Dichiarazione
circa la dottrina
cattolica sulla
Chiesa per
difenderla da
alcuni errori
d’oggi, e ne ha
ordinato la
pubblicazione.
Dato a Roma, dalla
sede della Sacra
Congregazione per
la Dottrina della
Fede, il 24 giugno
1973, nella
solennità di San
Giovanni Battista.
FRANCESCO Card.
ŠEPER
Prefetto
GIROLAMO HAMER O.
P.
Segretari |